Se c’è una linea di politica economica ben radicata e accettata dalla quasi totalità dei Governi nazionali, è di certo l’idea che lo Stato, durante una recessione, debba indebitarsi per immettere nell’economia delle risorse aggiuntive e frenare il crollo del PIL. È naturale, dunque, che anche chi, solitamente, presenta una maggior avversione nei confronti del ricorso al debito pubblico come strumento di finanziamento della spesa pubblica, mantenga in periodi di recessione un atteggiamento più disteso verso l’allargamento del deficit di bilancio dello Stato. Non tutto è però giustificabile in tempi di crisi: attenzione a non dimenticarsi del debito (e dei suoi costi).
Quantità o qualità?
Era il 21 luglio scorso e il Premier Giuseppe Conte si apprestava a tornare a Roma con un numero, 209 miliardi, che sarebbe diventato di lì a poco iconico nel dibattito pubblico: si tratta per l’appunto della quota del programma di rilancio economico europeo “Next Generation EU” destinata al nostro Paese in due forme: prestiti e sovvenzioni. La cifra diventò presto motivo d’orgoglio tra gli europeisti di vari fronti (filogovernativi e non), in opposizione – così si diceva – al “pugno di mosche” che ci avrebbe riservato una negoziazione guidata da un esecutivo sovranista.
Nel mezzo del clamore, la politica sembra essersi scordata che la quota maggioritaria dei “fantastici 209” è composta da prestiti, che andranno dunque ripagati: sono ben 127 miliardi di euro di debito extra, da contrarsi entro il 2023, che si aggiungono ai 100 nuovi miliardi emessi nel secondo trimestre 2020, questi ultimi, però, senza attenzione mediatica alcuna. Questa poderosa – per usare un termine di ormai esclusivo appannaggio governativo – assunzione di oneri da parte dello Stato non può non far insorgere dei dubbi circa la sua utilità, e – causa di maggior inquietudine – la sua sostenibilità di medio-lungo periodo. L’atteggiamento della maggioranza, ahinoi, non è dei migliori: prima di sbandierare la vittoria tutta italiana sul Recovery Fund, che altro non è che un’enorme emissione di debito, sarebbe stato saggio indicare le misure il cui finanziamento rende necessario il ricorso ad un indebitamento così ingente. E invece si è fatto l’opposto: prima ci si è assicurati il “jackpot” (così il capodelegazione Pd si riferì al Recovery Fund) e poi ci si è posti alcune domande a latere (sull’impiego dei fondi? Ma no! Sulla composizione della nuova task force di competenza).
Nell’era della politica-comunicazione (binomio oramai inscindibile), il ricorso alla retorica dei fantastiliardi sembra essere divenuta l’unica arma del fronte europeista per contrastare l’euroscetticismo “sovran-vittimista” che caratterizza l’opposizione parlamentare e – stando ai sondaggi – la maggioranza popolare. Tale arma, però, perde di vista un punto cruciale, che, se utilizzato con astuzia, potrebbe rivelarsi ancora più potente per una forza politica che voglia proporsi come innovativa e esterna alla dannosa polarizzazione di cui soffre il nostro dibattito pubblico. Si tratta del concetto tanto banale quanto incompreso secondo il quale “qualità è meglio di quantità”. Il concetto qui sintetizzato è stato espresso magistralmente dall’ex governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi, il quale ha ricordato, in un pubblico intervento il 18 agosto scorso, l’importanza di impiegare le risorse prese a prestito in voci di spesa produttive e funzionali allo sviluppo di lungo termine del Paese, in contrapposizione con l’utilizzo delle stesse in chiave assistenziale e improduttiva.
Non è tutto oro ciò che ha i tassi bassi
Da mesi è ormai in corso una campagna che chiede a gran voce l’accensione di una linea di indebitamento per il valore di ben 37 miliardi aggiuntivi tramite il nuovo pacchetto di aiuti del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), destinato esclusivamente al sostegno di spese sanitarie. Nonostante i tassi di interesse siano estremamente favorevoli e non sussistano condizionalità che sottendano impegni politici, la domanda fondamentale nella valutazione della nuova linea di credito del MES riguarda la necessità di una quanitità così ingente di risorse per il sistema sanitario nazionale. In altre parole: la nostra sanità, ad oggi, ha davvero bisogno di 37 miliardi una tantum? Tale linea di credito è stata pensata per alleviare lo stress ai tempi in corso sui sistemi sanitari nazionali, ma oggi, ad emergenza finita, sembra ogni giorno meno opportuna. La risposta alla domanda di cui sopra non potrà essere di natura ideologica. Chi oggi chiede a gran voce il ricorso ai 37 miliardi del MES, dovrebbe per prima cosa specificare come tante risorse debbano essere impiegate nel sistema sanitario in una sola tranche.
L’illusione della gratuità e l’azzardo morale
Nel quadro qui sopra citato, così per il MES, come per il lato prestiti del Next Generation EU, l’argomento che sembra giustificare la totale distensione nei confronti dell’indebitamento è il livello molto basso (o addirittura negativo) dei tassi di interesse relativi a tali linee di credito.
Si tratta però di un argomento piuttosto miope, che non considera la diversa natura del debito emesso verso tali istituzioni europee, la quale giustifica il livello dei tassi d’interesse.
Entrambe sono linee di credito senior, il che significa che hanno la precedenza su tutte le altre forme di indebitamento, e non potranno essere rinnovate una volta giunte a scadenza. Per capire come ciò influenzi le nostre finanze pubbliche, dobbiamo fare un passo indietro. Lo Stato si trova ogni anno nella condizione di dover ripagare quei titoli di debito che vanno in scadenza (nel 2019 erano circa 300 miliardi). Non essendo ragionevole imporre una tassa extra per l’intero ammontare del debito da restituire, ci troviamo a dover emettere un pari ammontare di debito pubblico per ripagare quello in scadenza. Chiamiamo quest’operazione rifinanziamento del debito. Al momento di dover ripagare i debiti, sia pur in varie tranches, nei confronti della Commissione (o del MES; qualora ne attivassimo una linea), dovremo dunque emettere una quantità di titoli sul mercato per lo stesso valore del debito da restituire. Se però il debito originale (quello verso l’UE) era stato contratto a tassi di favore, i titoli di stato necessari per ripagarlo non potranno vantare le stesse condizioni. L’idea che il debito verso l’Europa sia gratuito o quasi, è dunque un’illusione, specie se contratto in quantità così ingenti. Il lettore più avveduto potrà a questo punto sollevare un’obiezione: il costo del debito è vicino ai minimi storici, pur in contrapposizione con i massimi storici raggiunti dal livello assoluto del debito stesso. Vero. Ma tale fenomeno non è dovuto ad un improvviso miglioramento della nostra credibilità come debitori, né è ragionevole pensare che tale condizione si protrarrà a tempo indeterminato.A causa delle politiche monetarie non convenzionali adottate dalla BCE a partire dal famoso “whatever it takes”, i tassi di rendimento dei titoli di stato sono stati “drogati” dalle massicce campagne di acquisti da parte della nostra Banca Centrale. Il cosiddetto Quantitative Easing, la cui fine era annunciata prima che la pandemia ne risvegliasse la necessità, ha di recente preso una nuova veste, sotto la nuova operazione di acquisti progettata ad hoc per sostenere la liquidità nel sistema del credito (il PEPP), favorendo l’ulteriore abbassamento dei tassi di interesse sui titoli pubblici. Sebbene la BCE abbia annunciato che terrà ferma l’asticella degli acquisti almeno fino al 2022, non sappiamo cosa accadrà quando, inevitabilmente, il Quantitative Easing terrà fede alla sua natura straordinaria e giungerà dunque a termine. È però difficile immaginare che, per un debitore come il nostro Paese, i tassi rimarranno così bassi anche in assenza delle forti ingerenze della Banca Centrale Europea. Nei prossimi mesi, e ancor più nei prossimi anni, occorrerà considerare la questione con la massima serietà. Per ora il paziente è ben protetto, forse addirittura inconscio del male di cui soffre, e di certo non informato su quello che gli si prospetta. Quel che è certo è che sarà necessario un decisivo cambio di rotta.