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FILIBUSTER: STORIA E PROSPETTIVE DI RIFORMA

31 Maggio 2022

All’indomani della sparatoria a Uvalde, Texas, si infiamma in America il dibattito sulla regolamentazione delle armi da fuoco. Il paese è politicamente diviso: alle richieste di limitare l’accesso alle armi d’assalto dei Dems si contrappone l’opposizione Repubblicana di matrice libertaria al grido di “Guns don’t kill people. People kill people.” E sebbene posizioni simili siano minoritarie nel Paese, le prospettive di effettive riforme legislative sembrano essere limitate.

Il tema delle armi è però solo uno dei tanti terreni di scontro tra le aspettative dell’opinione pubblica e le posizioni politiche in sede parlamentare. Lo scorso 11 maggio, ad esempio, il tentativo dei Democratici di codificare il diritto all’aborto nella corpus normativo federale in seguito alla notizia della potenziale marcia indietro della Corte Suprema è fallito senza sorprese al Senato, sebbene il 64% degli Americani sia favorevole a mantenere il diritto all’aborto.

Come mai le battaglie progressiste – ivi comprese quelle più popolari – faticano a diventare legge? La risposta è da ricercare tra i meccanismi che regolano il funzionamento del Senato statunitense, e che lo rendono, secondo la definizione del portavoce democratico Chuck Schumer, un organo “non maggioritario”. La maggior parte delle leggi necessita infatti di almeno 60 voti per arrivare al termine dell’iter legislativo. Sebbene il voto finale sulle proposte di legge richieda una semplice maggioranza, ad impedire l’espressione della volontà della maggioranza dei senatori contribuisce il meccanismo del filibuster, la più efficace espressione dell’ostruzionismo all’americana.

Cos’è e come nasce il filibuster

In nuce, il filibuster trova fondamento sul diritto dei senatori americani a interventi illimitati nel tempo e nel contenuto. Secondo la regola XIX del Senato, ogni senatore ha il diritto ad essere riconosciuto dal Presidente e prendere la parola purché nessun altro collega stia parlando.

 Fino al 1806, la ragionevole durata del dibattito era garantita dalla procedura della previous question. Il meccanismo, tutt’ora in vigore nella camera bassa statunitense, permetteva di terminare il dibattito con un voto a maggioranza semplice, ma dal momento che era rimasta sostanzialmente inapplicata nell’allora giovanissimo Senato, il Vicepresidente dell’Aula Aaron Burr propose di eliminarla per snellire il regolamento.

Sebbene formalmente possibile dall’inizio del secolo, il primo filibuster risale al 1837, e la pratica non si affermò fino alla seconda metà dell’ottocento, soprattutto grazie alla minor polarizzazione partitica delle maggioranze e alla ridotta attenzione mediatica dei dibattiti.

Nonostante i tentativi di riforma da parte dei leader delle compagini congressuali, l’occasione per impedire dibattiti potenzialmente illimitati non arrivò prima del 1917, quando uno sparuto gruppo di senatori repubblicani impiegò il filibuster per impedire il passaggio del piano del Presidente Wilson di armare le navi mercantili contro il pericolo della guerra sottomarina operata dalla Germania. Sotto la pressione dell’opinione pubblica, il Senato introdusse la cloture motion, ossia la possibilità di terminare il dibattito su una mozione o una proposta di legge con un voto a maggioranza dei due terzi presenti (67 membri su 100 a Senato pieno).

Il filibuster si riconfigurò così come uno strumento utile a differire e ostacolare il passaggio di testi particolarmente divisivi, fino al raggiungimento dei due terzi dei consensi o alla rinuncia degli oratori ostruzionisti stremati da ore di dibattito. È questa l’età dell’oro del filibuster: il 28 agosto 1957, il democratico del Sud Strom Thurmond prese la parola contro il Civil Rights Act alle ore 20:54, e non terminò la declamazione fino alle 21:12 del giorno successivo, concedendosi una singola pausa di 5 minuti per andare in bagno durante l’aggiornamento degli atti congressuali.

Negli anni settanta, alcune innovazioni procedurali modificarono la natura del filibuster, allontanando la pratica dall’ideale romantico dell’oratore indefesso. Nel 1975 la soglia per il passaggio di una mozione di cloture fu abbassata ai tre quinti dei membri (60 senatori a prescindere dal numero di presenti), e, in risposta allo stallo legislativo generato dal crescente numero di filibuster, venne adottato il cosiddetto two-track system, procedura che permette al Senato di considerare due questioni alla volta, dedicandosi ad una seconda questione qualora la prima sia soggetta a pratiche di ostruzionismo.

Quest’ultima modifica fu particolarmente rilevante nel determinare la natura e il fine del moderno filibuster, che passò dall’essere una pratica impegnativa ma utile a posticipare l’approvazione di un testo legislativo a una procedura a costo zero per archiviare una proposta che non goda del supporto di almeno 60 senatori. Con il two-track system, infatti, è sufficiente segnalare l’intenzione di effettuare un filibuster per far dirottare l’attenzione del senato verso la misura non soggetta a ostruzionismo o, in alternativa, invocare una mozione per terminare il dibattito che necessita però di almeno 60 voti per passare. Il risultato è il cosiddetto silent filibuster, l’ostruzionismo a costo zero. Ciò spiega perché, nel giro di pochi anni, le mozioni cloture (e dunque i relativi filibuster) siano aumentate esponenzialmente.

*Numero di mozioni cloture presentate per decennio (stima 2020s senza assunzione di ulteriore crescita) – Analisi dell’autore su dati US Senate

Obiezioni ai tenativi di riforma

Prima di analizzare possibili interventi di riforma, occorre valutarne l’opportunità. Dopo tutto, l’attuale utilizzo del filibuster è davvero così poco desiderabile? Non tutti ne sono convinti. È anzi frequente sentire, tra le voci più conservatrici, una difesa del filibuster basata sulla natura deliberativa e votata al compromesso della camera alta americana. 

Nell’intricato sistema di checks and balances della democrazia americana, infatti, il Senato rappresenta il ramo del Congresso atto a garantire l’equa rappresentanza dei singoli stati della federazione. Tale caratteristica, assieme al mandato relativamente lungo dei senatori (6 anni contro 2 dei deputati), doveva assicurare, nel disegno dei padri costituenti, una protezione dal tanto paventato pericolo di una tirannia della maggioranza, schermando l’attività legislativa da repentini cambiamenti del clima politico e garantendo la necessaria mediazione a tutela della qualità delle innovazioni politiche. Il filibuster – proseguono alcuni – rappresenta una delle procedure tramite le quali il Senato stempera le passioni politiche del momento e fa convergere le policies verso una posizione mediana e (si presume) ottimale.

L’argomento, per quanto ammantato di nobile costituzionalismo, pecca però sotto diversi aspetti. In primis, il filibuster non era presente nella mente dei costituenti. Sebbene il Senato sia stato concepito come organo a tutela della minoranza della popolazione residente negli stati meno popolosi (contro la prospettiva di una Camera a composizione meramente rappresentativa degli equilibri demografici), la Costituzione non vieta affatto ad una maggioranza di Senatori di troncare il dibattito quando ritenga si sia protratto a sufficienza

Inoltre, la possibilità che una minoranza impedisse la legittima espressione della volontà della maggioranza in sede legislativa è stata esplicitamente deprecata da figure di spicco nel costituzionalismo americano quale Alexander Hamilton, che nel Federalist no. 22 scrive:

To give a minority a negative upon the majority (which is always the case where more than a majority is requisite to a decision), is, in its tendency, to subject the sense of the greater number to that of the lesser.

Alexander Hamilton, Federalist no. 22

È questo il motivo per cui, originariamente, le votazioni che richiedevano un consenso superiore alla semplice maggioranza erano limitatissime.

Possibilità di riforma

Per tutti coloro che credono nella scarsa democraticità dello strumento del filibuster nella sua forma attuale, è interessante chiedersi quali possano essere le alternative allo status quo. La prima, per notorietà e semplicità, è la sua eliminazione totale. Presumibilmente, la proposta implicherebbe un ritorno alla terminazione dei dibattiti per voto a maggioranza semplice, come avveniva nel primo Senato e avviene tuttora alla Camera. “End the filibuster” è da tempo uno degli slogan più utilizzati dall’ala progressista dei Democratici, ma la proposta sembra ottenere scarso successo.  Essa andrebbe de facto a ledere totalmente la prerogativa senatoriale al dibattito illimitato (diritto strenuamente difeso dai membri dell’ala nord di Capitol Hill), e – continuano i critici – rischierebbe di rendere il Senato sempre più simile ad una fotocopia in scala ridotta della Camera, dove il ruolo del leader di partito è prevalente rispetto all’autonomia del singolo membro.

Una seconda proposta, meno radicale e più condivisa, consiste nel ritorno al filibuster pre- anni ’70. Ciò implicherebbe l’abbandono dell’attuale silent filibuster in favore del vecchio e spettacolare talking filibuster à la Strom Thurmond. La proposta ha, nell’opinione di chi scrive, almeno due meriti considerevoli. In primis, essa restituirebbe al filibuster il suo significato originale: uno strumento atto a differire, e non impedire, l’approvazione delle misure in esame. In secundis, caricherebbe di responsabilità politica i Senatori impegnati nell’impresa, che oggi sfuggono invece dai riflettori lasciando le ire dell’opinione pubblica al partito di maggioranza percepito come incapace di rispettare le promesse elettorali nonostante la maggioranza al Congresso. Ogni minuto occupato da un senatore ostruzionista sarebbe un minuto perso per priorità legislative lasciate inattuate, che, specie se rilevanti, attirano l’attenzione dell’elettorato.

Una terza alternativa consiste invece nel ridurre l’applicabilità della cloture motion con supermaggioranza a 60 voti, permettendo la chiusura del dibattito con voto a maggioranza semplice relativamente ad alcune questioni specifiche. Tale riforma è stata applicata due volte per ridurre il numero di voti necessari al passaggio di una cloture motion per le nomine presidenziali, ad opera della compagine democratica nel 2013 e repubblicana nel 2017, quest’ultima riguardo alle nomine per la Corte Suprema.

Le riforme all’atto pratico

Si sono finora considerate delle prospettive di riforma del meccanismo del filibuster, ma come fare, all’atto pratico, per implementare le innovazioni procedurali discusse?

A rigore, ognuna delle riforme di cui sopra necessiterebbe di un emendamento al regolamento del Senato, questione anch’essa soggetta a dibattito e dunque passibile di filibuster. A complicare maggiormente le cose è la maggioranza ancor più estesa richiesta per le cloture motions che mirino a terminare il dibattito sulle modifiche al regolamento, fissata ai due terzi dei presenti. Senza una larghissimo (e inimmaginabile, rebus sic stantibus) consenso parlamentare sulla questione, tale via non è percorribile.

Come già anticipato, però, il filibuster moderno è già stato soggetto a modifiche nel decennio passato. Ciò è avvenuto senza un intervento diretto sul regolamento, bensì agendo sui precedenti del Senato, che sono a tutti gli effetti fonti di istruzioni procedurali.

Il 21 novembre 2013, nell’ambito del dibattito sulla nomina del giudice federale Patricia Ann Millett, l’allora leader democratico al Senato Harry Reid fece un richiamo al regolamento sostenendo che per la nomina in esame fosse sufficiente una maggioranza semplice per l’approvazione della relativa cloture motion; la Presidenza del Senato respinse il richiamo al regolamento; Reid fece ricorso alla decisione, e la questione fu legittimamente messa ai voti; i senatori dovettero dunque esprimersi per accogliere o rifiutare la decisione della presidenza di respingere il richiamo di Reid contenente l’innovazione procedurale; una maggioranza semplice di senatori votò contro la decisione della Presidenza (e dunque in favore del richiamo di Reid), stabilendo così un precedente che reinterpretava la regola XXII limitando il perimetro di applicazione della supermaggioranza richiesta per terminare il dibattito.

Tale procedura è nota come “nuclear option”, ed è stata ripetuta nel 2017 da Mitch McConnell, estendendo la cloture a maggiornaza semplice anche alle nomine per la Corte Suprema.

Di recente, i democratici di Capitol Hill hanno tentato di applicare l’opzione nucleare per approvare il John Lewis Voting Rights Act, con l’obiettivo di imporre un talking filibuster ad hoc, limitato al dibattito sul disegno di legge in esame. Ad un passo dalla detonazione, la nuclear option è stata però sventata dal voto contrario dei due democratici Joe Manchin (WV) e Kyrsten Sinema (AZ), che si sono aggiunti all’intera compagine repubblicana nell’impedire un cambio seppur temporaneo dell’interpretazione del regolamento tramite precedente.

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