Stando agli ultimi dati forniti dall’UNHCR (ossia l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) e dall’Unione Europea, sembra che siano quasi 4 milioni i profughi ucraini che, nell’ultimo mese, hanno abbandonato la loro patria per cercare ospitalità nei paesi circostanti. Di questi, 3 milioni sono già riusciti a trovare rifugio nei paesi dell’Unione Europea, principalmente in Polonia, che ne ospita oltre 2 milioni. Il dato racconta però solo una parte del dramma che stanno vivendo gli ucraini in questo ultimo mese: a questo numero, già importante, di persone vanno infatti sommati almeno 6 milioni e mezzo di sfollati interni, molti dei quali provenienti dalle regioni dell’est più duramente colpite dal conflitto. Se il fatto che circa un quarto della popolazione ucraina è attualmente composto da rifugiati o sfollati non fosse sufficientemente grave, va considerato anche che, sempre basandoci sulle stime UNHCR, ci sarebbero ulteriori 13 milioni di persone bloccate nelle zone colpite che non sono però in grado di mettersi in salvo. Inutile dire come questi numeri siano in continua crescita. Un altro fattore interessante è che, fino allo scoppio della guerra, il principale paese d’arrivo dei migranti ucraini era la Federazione Russa, che accoglieva circa il 40% degli emigranti ucraini (dati progetto FORM@2). Oggi invece gli ucraini che scelgono di recarsi a Mosca sono meno del 7% (ossia poco più di 270 mila persone).
Per affrontare questa enorme mole di persone in entrata, l’Unione Europea ha messo in campo uno sforzo sovrumano, sia in termini economici che, soprattutto, politici: sebbene infatti anche l’aspetto economico sia importante (si parla di uno stanziamento di 3,5 miliardi, a cui potrebbero aggiungersi ulteriori investimenti attingendo sia dai fondi non ancora assegnati o spesi della politica di coesione 2014-2020 che dal piano “REACT-EU”, grazie al quale potrebbero arrivare circa altri 10 miliardi), da solo non basta. Serve quindi una risposta che sia prima di tutto di ordine politico e che possa avere una visione di medio-lungo termine.
Per dirla in soldoni, ci si è resi finalmente conto che i meccanismi d’asilo attualmente in vigore non funzionano e devono essere riformati. Certo è presto oggi per sperare che nel breve periodo si possa assistere al superamento di Dublino, ma alcuni passi avanti sono stati fatti. Ad esempio, per la prima volta da quando è stata approvata oltre 20 anni fa, è stata attivata la direttiva UE 55 del 2001, che dà la possibilità ai profughi ucraini di ottenere una protezione temporanea, permettendo di velocizzare i tempi rispetto alle forme ordinarie di accoglienza e, contestualmente, di ridurre il peso sulle burocrazie europee, che altrimenti soccomberebbero sotto il peso di un numero così elevato di richieste. Da notare come, quando a chiedere la sua attivazione è stata l’Italia, tale richiesta non sia stata approvata.
Quello che però più colpisce è il radicale cambiamento nell‘atteggiamento della destra europea, a partire proprio da quei leader, come Salvini, Orban e Morawiecki, che fino al mese scorso erano i più duri oppositori delle politiche d’accoglienza europee e che oggi riscoprono il loro animo umanitario e solidaristico. A voler essere maliziosi si potrebbe insinuare che questa improvvisa illuminazione sulla via di Damasco sia dovuta solamente al fatto che, questa volta, ad essere colpiti in prima persona dai flussi migratori sono loro e che, diversamente dalle crisi precedenti (da ultima quella afghana), non possono permettersi di rispondere con la politica dei muri e dei respingimenti. Il riferimento è a quando, a inizio 2022, la stessa Polonia aveva avviato la costruzione di un muro sulla frontiera con la Bielorussia. Il motivo dietro questa decisione è da ricercarsi nell’uso politico dei migranti da parte del dittatore di Minsk Lukashenko che, per mettere sotto pressione l’Unione Europea, aveva avviato una politica di semplificazione delle procedure burocratiche per ottenere visti turistici e raggiungere il paese (anche con voli a prezzi scontatissimi) per i cittadini di alcuni paesi del Medio Oriente, tra cui Iraq e Afghanistan. Questo ha portato migliaia di profughi ad ammassarsi sul confine con l’Europa tentando di forzare il blocco polacco.
Ma torniamo a noi. Da un punto di vista antropologico ci sono alcuni tratti di questa nuova ondata migratoria che la rende più “accettabile” anche per gli occidentali più conservatori.
Partiamo con la demografia di chi fugge: visto il divieto di uscita dal territorio ucraino per gli uomini tra i 18 e i 60 anni, a lasciare il paese sono soprattutto donne, bambini e anziani, tre categorie sociali percepite al contempo come più vulnerabili (e quindi più legittimate a scappare in quanto non gli è richiesto lo sforzo eroico di combattere al fronte) e più facilmente integrabili nei contesti d’arrivo. A questo si somma poi la fortissima carica empatica che questi gruppi sono in grado di esercitare sull’opinione pubblica. Un secondo fattore che differenzia i profughi ucraini rispetto a quelli che vengono da altre regioni del mondo è la religione: se guardiamo all’indagine del 2019 condotta dal Centro Razumkov emerge come la fede prevalente sia quella cristiana, declinata nelle sue varie forme (65% ortodossi, 11% cattolici e 2% protestanti); ciò, soprattutto in contesti fortemente conservatori, aiuta a far percepire gli ucraini più simili a chi accoglie, a costruire punti di contatto valoriali e morali, prima ancora che religiosi, e a disarmare quella retorica dell’islamizzazione dell’Europa che ha portato tanti consensi a chi ha saputo abbracciarla.
Attenzione, però: il termine utilizzato, non a caso, è “percepire”. Perché nel momento in cui si guardano i dati forniti dalla Fondazione ISMU sulla fede dei migranti che arrivano in Italia, scopriamo come, a differenza di quello che ci potremmo immaginare, la religione prevalente è quella cristiana (che sfiora il 50%) e solo al secondo posto arrivano i musulmani (per circa il 30%). Il terzo e ultimo fattore, e mai come in questo momento, viene da dire, posto in fondo ma non per importanza, è quello dell’origine geografica dei profughi. Se vi chiedessi di dirmi la prima differenza che vi viene in mente pensando a un ucraino e a un, ad esempio, afghano, probabilmente tutti direste il colore della pelle. E questo non è un tema secondario. Ora, non voglio dire che dietro a questo diverso atteggiamento ci sia necessariamente una forma di razzismo interiorizzato ma che, più o meno inconsciamente, davanti a una persona che anche sul piano fisionomico ed estetico è simile a noi, sia più semplice provare empatia e di conseguenza scegliere la strada della solidarietà.
Con questo pezzo la speranza è quella di far emergere l’ipocrisia che aleggia dietro a una facciata di umanitarismo eretta dall’oggi al domani da paesi che, storicamente, si sono sempre dimostrati ostili a ogni misura di accoglienza.
Dobbiamo essere consapevoli che la distinzione strumentale tra profughi veri e finti non sia altro che l’ennesima mossa politica che deve, da una parte, assecondare l’opinione pubblica favorevole al sostegno al popolo ucraino in fuga dalle bombe e, dall’altra, salvarsi la faccia e mantenere un minimo di credibilità dopo anni di intensissima propaganda anti-migranti.
E ricordiamoci sempre che, dietro a queste distinzioni, spesso e volentieri, si nasconde la nostra ignoranza su quello che accade in contesti e scenari lontani dai nostri occhi. Non possiamo fare finta che in Yemen, in Palestina, in Nigeria, in Etiopia e in tanti altri paesi oggi coinvolti in conflitti armati, la situazione sia diversa o migliore. Se oggi siamo tutti così preoccupati per quello che sta accadendo in Ucraina e per la condizione dei civili rimasti in patria è anche, ma non solo, dovuto al fatto che la vera preoccupazione che ci angoscia è che quelle stesse cose, vista la vicinanza del conflitto, possano accadere a noi.