Il secondo album dei Ride, uscito poco più di trent’anni fa, è un rumoroso concentrato di leggiadria, nonché una perla dei primi anni ’90. A differenza del ben più riconosciuto disco d’esordio (Nowhere, 1990), Going Blank Again si discosta maggiormente delle sonorità shoegaze, mantenendo comunque alcuni elementi caratteristici del (sotto)genere come il riverbero delle chitarre, per abbracciare sonorità orientate verso il power pop di fine anni ‘80 e il pop-rock degli anni ’60, strizzando l’occhio a band come Teenage Fanclub e Who.
UK, INIZIO ANNI ’90
È il 1992, e mentre in America il grunge impazza nelle camerette degli adolescenti, nel Regno Unito si sta attraversando un periodo di cambiamento. Gli U2 sono freschi del successo di Achtung Baby (1991), opera che segna una svolta molto importante dal punto di vista del suono all’interno della discografia della band di Dublino. A Bristol, nel sud-est dell’Inghilterra, sta crescendo un nuovo genere, il trip hop, nato nella seconda metà degli anni ’80 da un intreccio di sonorità elettroniche, dub e hip-hop e che vedrà nei Portished e nei Massive Attack i suoi maggiori esponenti.
Manchester, invece, vede il proprio nome trasmutato in un vero e proprio fenomeno, ovvero il madchester, commistione di sonorità alt-rock, funk, dance e punk rock portato in auge da gruppi come Stone Roses e Happy Mondays. Il madchester, peraltro, influenzerà quello che di lì a poco avrebbe monopolizzato il mercato britannico: il britpop, revival in salsa moderna delle melodie pop rock anni ’60 e ’70 culminato nel 1995 con lo scontro a distanza fra Oasis e Blur.
Una realtà meno localizzata a livello geografico è rappresentata da giovani musicisti un po’ trasandati che sembrano fissare costantemente le proprie scarpe durante i loro concerti (ciò che fanno, in realtà, è controllare i pedali che gestiscono gli effetti che danno agli strumenti). Da questa stramba abitudine è stato coniato il termine che definisce il suono proveniente da questi ragazzi: shoegaze (letteralmente “fissare le scarpe”).
Essendo dislocata, la scena shoegaze è piuttosto variegata: ogni gruppo ha le proprie peculiarità, per quanto i tòpoi dei sottogenere – su tutti la massiccia presenza di riverberi e distorsioni – vengano sempre rispettati. I rappresentanti più riconosciuti da pubblico e critica sono sicuramente i My Bloody Valentine, band irlandese che, a seguito di un ottimo disco d’esordio e alcuni pregevoli ep, rilascia nel 1991 quello che è unanimemente considerato il manifesto del genere shoegaze: Loveless. La musica dei My Bloody Valentine è un amalgama psichedelico di chitarre distorte, wall of sound e feedback, la trasposizione sonora di un viaggio astrale in cui l’ascoltatore non può fare altro che annegare. Altri gruppi, come ad esempio gli Slowdive da Reading, spostano il loro shoegaze su un piano più incline al dream pop dei Cocteau Twins, facendo leva sul cantato e sulla costruzione di atmosfere melanconiche e sognanti.
Una terza variante di shoegaze è proposta dai Ride, nativi di Oxford, più fresca e leggera rispetto alle controparti precedentemente citate. Nowhere, il disco d’esordio datato 1990, è ritenuto un classico del genere, e contiene alcune delle canzoni più indicative dello stile della band, come Seagull (la cui linea di basso richiama alla memoria Taxman dei Bealtes) e Vapour Trail. Se con Nowhere i Ride si sono guadagnati lo status di pilastri dello shoegaze, è con Going Blank Again che, con tutta probabilità, raggiungono la loro vetta artistica.
IL DISCO
Prodotto da Alan Moulder, che aveva già collaborato in passato coi My Bloody Valentine e i Jesus and Mary Chain, Going Blank Again si presenta molto più energico e accattivante del suo precedente. In un’intervista a The Quietus, in occasione del ventesimo anniversario del disco, il chitarrista Mark Gardener disse che il pubblico adorava lo stile dei primissimi Ride, ma che la band, come il pubblico stesso, era cambiata nel corso del tempo. Going Blank Again rifletteva proprio quel progresso, quell’evoluzione che, forse, per molti fu uno shock. “Probabilmente si aspettavano un nuovo disco cupo come Nowhere“, concluse Gardener. Le prime due tracce, Leave Them All Behind e Twisterella, mettono in chiaro l’obiettivo del quartetto di Oxford: andare oltre lo shoegaze, oltre l’underground, ridipingendolo con pennellate melodiche più orecchiabili e investendolo di chitarre più taglienti e fragorose.
Leave Them All Behind, in realtà, non emana esattamente fragranze pop. Piuttosto, sprigiona un clangore solenne e ammaliante, costruito magistralmente partendo da un loop d’organo che ammicca agli Who a cui segue l’ingresso in coppia di batteria e basso, fino ad arrivare al blitz altisonante delle chitarre. Otto minuti e diciassette secondi di fuochi d’artificio, che conducono i Ride sino alla nona posizione della classifica UK.
Di diverso avviso è Twisterella, secondo e ultimo singolo estratto dal disco. La fulminea apertura del basso preannuncia il tonante arrivo delle chitarre, sempre accese e rumorose ma con una cadenza più delicata, in accordo con l’umore del pezzo. Le liriche di Gardener si concentrano sull’esprimere la leggerezza dell’essere innamorati (Feel the weight letting go/Feel more lightness than you’ve ever known), una sensazione razionalmente inspiegabile da vivere senza rifletterci troppo (Any minute she will feel the chemistry/Vibrations in the brain can’t ever be explained).
Procedendo lungo la scaletta troviamo un focolaio di eccentrici brani power pop: Not Fazed, Mouse Trap e Time Of Her Time, intervallati dalle strimpellate acustiche della ballata Chrome Waves. Il quartetto di Oxford sembra divertirsi come non mai: le chitarre sferzano riff chiassosi ed esplosivi; il basso di Queralt infesta gli arrangiamenti celandosi nel riverbero generale per poi uscire allo scoperto con linee carismatiche e devastanti; e la batteria di Colbert tiene sotto controllo il caos con ritmiche tanto ordinate quanto vigorose. É una prova corale di livello assoluto, in cui nessun membro eccelle sull’altro.
Proprio quando l’album sembra aver intrapreso una via sicura, ecco una pericolosa svolta a sinistra. Cool Your Boots, che si apre con una citazione campionata dal film “Withnail and I” (“Shakespeare a colazione” la traduzione italiana) è infatti una tempesta distorta in puro stile shoegaze. Le strofe di Bell sono costantemente alternate a inserti strumentali assordanti che accrescono il clima di sfogo e spensieratezza del brano, tematicamente in accordo col resto del disco.
Il pezzo anticipa quella che sarà la coda del progetto, il quale concede un ultimo saluto al power pop con Making Judy Smile e decide di chiudere con due chicche: Time Machine e OX4. Entrambe iniziano con una sezione esclusivamente strumentale che accresce l’attesa per un’imminente detonazione, la quale prontamente arriva. Se in Time Machine essa sfonda la quiete con vigore per poi amalgamarsi alle voci congiunte di Bell e Gardener, in OX4 lo scoppio avviene con meno arroganza, favorendo un crescendo maestoso che enfatizza ulteriormente la nostalgiche parole di Gardener.
Due anni dopo Going Blank Again, i Ride pubblicheranno Carnival Of Light, disco noto per essere la prova concreta delle tensioni palpabili fra Bell e Gardener, in conflitto per la leadership del gruppo. Da lì in poi, gli Oxoniensi intraprenderanno una parabola discendente che li condurrà alla separazione, avvenuta nel 1996 (torneranno insieme una ventina di anni dopo, nel 2017). Malgrado un (primo) finale di carriera non proprio idilliaco, i Ride hanno consegnato alla storia della musica due dischi fondamentali, e proprio con il loro secondo lavoro si sono consacrati a band culto degli anni ’90.