Il governo Draghi può essere sicuramente considerato un ottimo inizio ma di certo non un punto di arrivo. Una fase che probabilmente sistemerà i conti e magari, forse, anche qualcosa di più, ma poi, ad un certo punto, la politica dovrà tornare a riprendersi il suo posto.
In questi giorni abbiamo assistito in televisione, su internet e in edicola ad un coro di voci inneggianti all’ormai Presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi e alla sua discesa nell’agone politico italiano. Il provvidenziale, competentissimo e sensibile Prof. Draghi salverà questo Paese da tutti i suoi mali, dalla crisi economica, dalla disoccupazione giovanile, dalla spesa pubblica e le pensioni fino alla parità di genere, il populismo e la scuola. Premetto che senza ombra di dubbio in questa fase l’ex Presidente della BCE sia la persona più adatta a gestire questo percorso di ricostruzione del Paese in virtù delle sue eccezionali qualità, che vanno dal curriculum a dir poco prestigioso fino alla sensibilità su temi come i giovani e il futuro dal punto di vista sia della sostenibilità ambientale che economica.
Purtroppo, però, dopo un iniziale entusiasmo per la discesa di Draghi, mi sono scontrato con l’altro lato della medaglia, quello più doloroso. Tutto ciò, infatti, è potuto accadere perché la classe politica, eletta democraticamente, nel momento più difficile per il Paese non ha saputo dare risposte all’altezza della situazione, a partire dal piano vaccinale fino ad arrivare al totale disinteresse per il mondo della scuola e dei giovani disoccupati, lavoratori o universitari. Guardando anche al di là del giardino di casa nostra, vediamo che le democrazie rappresentative occidentali, così come le abbiamo sempre conosciute, stanno affrontando una crisi profonda, dagli Stati Uniti fino alla nostra amata penisola. Per l’Italia, la crisi sembra addirittura più grave, perché non sono solo il Parlamento e il Governo a non funzionare più secondo le logiche della rappresentatività e della sovranità popolare: anche il potere giudiziario è stato colpito da una profonda crisi , dovuta alla deriva del sistema correntizio, del quale il pm Luca Palamara è stato dapprima un potente ingranaggio e ora agnello sacrificale. Viviamo quindi in un Paese nel quale il gioco della democrazia appare irrimediabilmente falsato. Si potrebbe parlare di Montesquieu tradito, citando Sabino Cassese.
Non ci è dato ancora di sapere come sarà formato il governo Draghi I, ma pare che sarà composto da professionisti e uomini delle istituzioni di elevata competenza, cercando di uscire dal dualismo che vede contrapposti il governo tecnico competente al governo politico incompetente. Finalmente la competenza è tornata a contare anche in politica, sembrano dire in molti. Ma siamo davvero sicuri che sia la competenza il vero problema della classe politica attuale e della conseguente crisi democratica?
Mi permetto di sollevare qualche obiezione all’idea che la competenza tecnica, intesa nella sua accezione originaria ossia la capacità di saper fare, la technè, sia il solo principio sul quale innestare i criteri di selezione della futura classe politica e della democrazia.
Il Governo che si sta formando pare proprio rispondere a questa esigenza di competenza, ed è un bene, per ora. Chiamare Draghi in un momento come quello che stiamo affrontando è stato un tentativo di dare una risposta tecnica ad un problema che, in fondo, è politico. Infatti, l’approccio tecnico basa le proprie modus operandi sullo studio attento delle diverse situazioni, per poi intraprendere azioni volte a migliorare i servizi, il PIL, l’occupazione, ecc. per ottenere dei buoni standard di qualità nei diversi ambiti che concorrono a dare un’immagine di un Paese in salute, dove si vive bene. Questa immagine di Paese sano, tuttavia, non ha nulla a che vedere con la salute e la realizzazione del singolo cittadino come individuo. A tal proposito è interessante notare come alcuni Paesi che vantano economie solide e promettenti, quali Finlandia, Svezia, Germania e Stati Uniti, abbiano anche un tasso di depressione e suicidi fra i più alti al mondo. Questo è sicuramente un dato importante che evidenzia come sussista uno iato irresolubile, dal punto di vista tecnico, tra il benessere del singolo cittadino e quello del Paese. Uno iato che deve essere colmato dalla politica, in quanto è essa, tramite gli ideali, a dare una risposta alla domanda di felicità che gli uomini chiedono. Il politici infatti dovrebbero offrire un ideale e un’immagine di una terra promessa felice, alla quale si è destinati proponendosi anche come i Mosè della situazione. Il populismo che abbiamo visto impersonato in Italia da buona parte dei maggiori partiti, nella sua sofistica distorsione della realtà, offriva una terra promessa in chiave del tutto distruttiva, ovvero: “Noi abbiamo già la nostra terra promessa, ma XY ce la sta rovinando”. L’ideale da offrire è quello di un cambiamento di tipo costruttivo e più alto in senso platonico.
La classe politica non ha fallito per mancanza di competenza anche in virtù dell’apparato amministrativo e di deep state del quale lo Stato italiano dispone. Infatti, esso è formato da accademici, tecnici specializzati e giuristi dotati di elevatissime qualità tecniche e amministrative, che sono riusciti negli anni a rendere meno devastante l’applicazione delle volontà politiche più assurde e a stroncare i provvedimenti più irrealistici. Uno spaccato di questo mondo, sconosciuto ai più, ce lo fornisce Giuseppe Salvaggiulo nel suo libro “Io sono il potere”, nel quale un anonimo capo di gabinetto spiega come a supporto dei governanti vi siano figure capaci di far funzionare la macchina statale nonostante i politici che lui definisce “piccoli e velleitari convinti che la storia cominci con loro”. È dall’inizio della Repubblica che i cosiddetti boiardi di stato sono riusciti a dare allo Stato una sorta di continuità anche nei momenti più complicati. Per questo possiamo affermare che lo squallore e il livello culturale di taluni soggetti abbia sicuramente inciso sulla crisi, ma che non ne sia stata la causa scatenante. Il problema, dunque, non risiede tanto nell’ignoranza dei politici, bensì in ciò che essi dovrebbero porre alla base della loro azione politica. Infatti, ogni tipo di provvedimento tecnico deve avere una raison d’etre ed un fine che rispondano ad un’idea di Paese felice; senza di essa il provvedimento da politico diventa tecnico e sterile.
Infine, è doveroso constatare come, con l’avvento di Draghi, i toni dei dibattiti politici si siano affievoliti per lasciare spazio, giustamente, alla competenza. Lo scenario, quindi, si prefigura come una lama a doppio taglio: da un lato il lento arretrare delle logiche populiste e dall’altra la logica della competenza, che sta arrancando per andare ad occupare gli spazi lasciati vuoti. Quest’ultima, la logica della competenza, nelle sue forma più estreme si trasformerebbe in qualcosa di sterile, esclusivo e profondamente diseguale.
Sterile innanzitutto perché un’azione di governo che si basasse esclusivamente nell’aggiustare le storture di un Paese, che è composto da sovranità, popolo e territorio, apparirebbe solo come una follia eugenetica dal sicuro esito negativo. Tutt’al più si potrebbe provare curare.
Sotto il profilo dell’uguaglianza, un valore sancito nella nostra Costituzione, un sistema orientato a questi valori sarebbe esclusivo e anche diseguale. Da un lato, perché solo coloro certificati come competenti potrebbero godere della legittimità ad essere ascoltati, proporre e fare politica e politiche. Peraltro sarebbe interessante comprendere anche quali siano i criteri utilizzati per certificare un politico come competente: la laurea? Le lingue parlate? Il prestigio della posizione lavorativa ricoperta?
Dall’altro lato, assumere che le persone con più titoli di studi e posizioni lavorative più prestigiose debbano essere il prototipo dell’homus politico di questa nuova era politica, equivarrebbe ad ammettere un’amara verità. Si starebbe accettando il fatto che forse, in fondo, non siamo proprio tutti così uguali e che, nonostante la Repubblica si impegni a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, nulla sia veramente cambiato e che il paradigma non si sia rovesciato davvero.
Perché ammettere che la politica la possano fare solo i più competenti, che spesso coincidono con coloro che si sono potuti permettere le migliori scuole, i migliori professori, i migliori stimoli intellettuali, le migliori esperienze di vita, significa ammettere che in fondo la classe sociale e le opportunità con le quali si nasce determinino in gran parte le proprie possibilità, un giorno, di poter fare politica e combattere nelle sedi istituzionali per i propri diritti ed ideali. Preso atto di questo, non è difficile rendersi conto che spesso un elevato livello di istruzione ed una prestigiosa posizione lavorativa siano sinonimo di benessere economico. E qui mi fermo, perché è facile immaginare quali esiti potrebbe avere questa pericolosa commistione di interessi.
In conclusione, possiamo dire che il Governo Draghi debba essere una fase transitoria, di ripartenza, e non il punto di arrivo. Una fase che probabilmente sistemerà i conti e magari, forse, anche qualcosa di più, ma poi, ad un certo punto, la politica dovrà tornare a riprendersi il suo posto. Se Draghi riuscirà a restituirci un Paese che riesca a camminare sulle sue gambe e con il gioco democratico ripulito dalle sue storture si potrà aprire una nuova stagione politica che possa offrire una terra promessa e che sappia legare il benessere dello Stato a quello degli individui: la felicità è politica.