Dal 2002 nel dizionario sportivo “Doing a Bradbury” significa vincere in seguito a circostanze incredibili: la storia ogni tanto può essere scritta anche dai perdenti.
E’ il 16 febbraio 2002 e a Salt Lake City sta per andare in scena la finale dei 1000 metri di short track (per i profani, pattinaggio di velocità). Cinque finalisti: il favoritissimo idolo locale Ohno, il canadese Turcotte, il sudcoreano Ahn-Hyun Soo e il cinese Li Jiajun. Ah sì, c’è anche un australiano, un certo Steven Bradbury. Vabbè, serve pur sempre qualcuno che arrivi ultimo. I suoi tempi sono piuttosto scarsi rispetto a quelli degli avversari. Già, come ha fatto Bradbury ad arrivare in finale? Facciamo qualche passo indietro.
Il 14 ottobre 1973 nasce a Sidney Steven Bradbury. Nasce in una nazione di certo non famosa per gli sport invernali: col clima australiano chi si metterebbe a pattinare? Lui sì , a 8 anni indossa i pattini e da quel momento non se li toglie più. E’ anche piuttosto bravo, molti in età giovanile lo inquadrano come un possibile astro nascente. L’esordio ai Mondiali del 1991 di Sidney, la sua città, è promettente: oro nella staffetta. Nel 1994 guadagna un bronzo alle Olimpiadi di Lillehammer sempre nella categoria staffetta; insomma si prospetta una gran carriera per lui.
Ma da lì iniziano i guai per Steven. Nel 1994 l’australiano cade dopo un contatto con un avversario durante una gara ( il pattinaggio di velocità prevede contatti e cadute vista la assenza di corsie). Il pattino del rivale gli recide l’arteria femorale. Bradbury perde 4 litri di sangue e servono 111 punti di sutura. Dopo un anno torna ad allenarsi e a competere a livello mondiale, dove però non riesce più a ritagliarsi un ruolo da protagonista a causa delle ripercussioni dell’infortunio. E visto che “la fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo” nel 2000 durante un allenamento Bradbury si rompe il collo e due vertebre.
“La tua carriera è finita, hai 27 anni. Da infortuni simili non ci si riprende mai completamente. Devi reinventarti.” Queste sono le parole che gli piovono addosso. Eppure Steven non molla. “Avessi dovuto basarmi sulle parole degli altri nemmeno avrei iniziato a pattinare: gli sport invernali non sono sponsorizzati in Australia, io per diverso tempo ho dovuto fare un secondo lavoro per mantenermi.” Queste le sue dichiarazioni rilasciate dopo quel 16 febbraio 2002.
E rieccoci qui con la storia. Olimpiadi invernali di Salt Lake City, 2002. Bradbury è il concorrente più vecchio in gara ed i suoi tempi non fanno ben sperare: insomma, il suo destino pare già scritto. La prima gara sono i quarti di finale, passano i primi due: lui arriva terzo, è tutto finito. E invece no perchè Marc Gagnon,arrivato secondo,viene squalificato. Bradbury accede così in semifinale. Semifinale che lo vede ultimissimo per tutta la gara fino all’ ultima curva: poi i 3 pattinatori davanti a lui cadono e lui passa in finale. Incredibile. Bradbury non può crederci di essere arrivato nella top 5 olimpica. Pensare che nemmeno doveva superare i quarti di finale.
“Fuori dalla lotta, quasi certamente, c’è solo Steven Bradbury.” queste le parole di Franco Bragagna trovatosi a commentare la finale. Non sapeva che avrebbe commentato una delle finali più memorabili nella storia dello sport.
Ritorniamo quindi all’inizio del racconto, con i 5 finalisti, o meglio, i 4+1: Bradbury è già stato fortunato ad arrivare fin qui, l’avventura dell’ “underdog” non può continuare dai.. Pronti partenza, via e Bradbury è subito ultimissimo staccato dalle eleganti falcate degli avversari. “Avrei potuto provare a stare più vicino” dichiarerà l’australiano “ ma non avevo chance, io speravo che due avversari potessero ostacolarsi per prendere una posizione da podio: per questo ho deciso di stare lontano dal gruppo e aspettare un loro eventuale errore”. La strategia però non sembra funzionare: ultimo giro e ancora nessuna caduta, con Steven lontanissimo da loro. Stavolta è davvero finita l’avventura, Davide non può vincere contro 4 Golia. E invece quello che succede in finale è al di fuori da ogni logica, previsione o statistica.
All’ ultima curva ne cade uno. Ne cadono due. Tre. Quattro. Bradbury tenutosi a debita distanza è l’unico a rimanere in piedi. Tanto basta per tagliare il traguardo per primo. All’età di 29 anni vince l’oro olimpico. Il palazzetto è ammutolito e non crede ai propri occhi. Pure Bradbury è incredulo e scoppia in una fragorosa risata una volta conclusa la gara. E’ il primo oro vinto da un partecipante dell’emisfero australe ad un’olimpiade invernale. L’oro più “miracolato” nella storia dello sport.
E sapete una cosa? Credo sia giusto così. Penso che serva una storia simile per dare una dimostrazione concreta dell’aforisma di morrisoniana memoria: “A volte il vincitore è un sognatore che non ha mai mollato”. Perchè Bradbury avrebbe potuto mollare innumerevoli volte prima di quel 16 febbraio (si ritirerà dopo, quando deciderà di dedicarsi alla sua seconda passione: l’automobilismo). Non poteva finire così, doveva esserci qualcosa.
Qualcosa che il 16 febbraio 2002 si è tramutato in oro.