“I francesi non hanno più bisogno di finanziare la propaganda immigrazionista e woke di France Inter, che non esita a insultare le persone non allineate” tuona zelante Éric Zemmour, ex tribuno televisivo, oggi lanciatosi a capofitto nella corsa all’Eliseo. “Restituiremo ai francesi 2,8 miliardi di canone televisivo” lo segue a ruota Marine Le Pen. Da qualche mese, l’avversione alla radiotelevisione pubblica sembra essere infatti diventata lo sport nazionale prediletto dai candidati della destra d’Oltralpe, galvanizzati dal “sogno” di una privatizzazione dei media audiovisivi controllati dallo Stato.
Intanto, serpeggia in Francia un grande pericolo, dai pronunciati riverberi europei: l’estensione a macchia d’olio del parco mediatico di Vincent Bolloré, lobbista e dispotico magnate. Sotto la maschera di “industriale di ferme convinzioni cristiane”, stenta a celare l’obiettivo di ridurre i giornalisti alle sue dipendenze a cantori dei suoi interessi . Ed è considerato il regista occulto della campagna elettorale… dello stesso Zemmour. Il grande rischio di questo crocevia di fenomeni? Uno scontro trasversale fra media pubblici e privati. A spese dei giornalisti.
FENOMENI NON ISOLATI
I casi francesi non sarebbero probabilmente meritevoli di trattazione se costituissero fenomeni isolati: anche i Conservatori britannici, forse per sopperire a una fase tumultuosa e isterica della loro storia, hanno infatti recentemente sfoderato l’intento di mettere le mani sulla BBC, a sua volta destabilizzata da una crisi di popolarità non certo irrilevante.
Insomma, sarà forse l’opinione pubblica a decretare la fine dello Stato nella tv europea? O sono stati proprio gli operatori televisivi pubblici, complici errori strategici e falle di credibilità, a “scavarsi la fossa”? E perché un’eccessiva concentrazione di potere editoriale rischia di nuocere agli equilibri democratici? Inizia qui un racconto-inchiesta sui complessi rapporti fra media privati, pubblici e politica. Prima tappa? Parigi.
Il plotone d’esecuzione
Buio in studio! La Santa Inquisizione del culturame sovranista ha (ri)aperto le danze. Proprio quegli illustri fanfaroni che del rigore finanziario si son sempre allegramente beffati paiono ora aver trovato una preda golosa su cui sfogare le loro bizze populiste: la radiotelevisione di Stato. Quali orrendi sfregi starà mai perpetrando la pubblica emittenza al romanzo nazionale?
Le prime avvisaglie del fenomeno hanno messo radici in Francia: la République è oramai entrata infatti a pieno ritmo in un’accesissima campagna elettorale in cui, stando alle ultime rilevazioni Harris Interactive, lo spostamento di pochi voti potrebbe risultare determinante.
“Con me, i giornalisti del servizio pubblico soffriranno”

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Come ogni buon tattico insegna, in simili circostanze ogni sparata, purché più incendiaria e assurda della precedente, acquista un’allure di legittimità. Un noto caccia bombardiere di provocazioni al mercurio, di nome Éric Zemmour – di cui già qui su AlterThink avevamo parlato nei giorni antecedenti alla sua pomposa ascesa politica – ha per primo tagliato il nastro di una tendenza ch’è andata spargendosi in tutto il Paese. “Con me, i giornalisti del servizio pubblico soffriranno. La televisione pubblica non sputerà più sul contribuente tutti i giorni all’ora di pranzo, né schiaffeggerà la realtà tutte le sere alle 20” ha sentenziato in occasione di un comizio parigino, insaporendo poi ulteriormente i suoi attacchi con le frasi che seguono:
“Voi siete dei rappresentanti del pensiero di sinistra, di una Francia di sinistra. Voi difendete un’ideologia. Al giorno d’oggi, credo che voi non onoriate più la vostra missione di servizio autenticamente pubblico. Guardatevi! È sufficiente ascoltarvi! Le persone ascoltano France Inter perché c’è molta meno pubblicità che altrove. Trovo che i francesi non debbano pagare per una radio orientata politicamente, propagandista di un’ideologia woke, LGBT, immigrazionista e antifrancese. Ecco perché privatizzeremo France Inter, France 2 e sopprimeremo il canone televisivo.”
Éric Zemmour, intervista alla Matinale 7/9 di France Inter – 7 febbraio 2022
Il “cattivo maestro”, Donald Trump
Al netto dell’ossessiva retorica, involontariamente tragicomico risulta il fatto che le suddette parole siano state pronunciate in diretta, al termine di un’intervista radiofonica durata più di un’ora, peraltro non parca di domande scomode e perfettamente in linea con i target di un vero servizio pubblico, realizzata e trasmessa proprio in una fascia oraria di punta (quella mattutina) dalla stessa France Inter.
Si potrebbe commentare una sequela di anatemi così ben architettata parlando di vittimismo, ma si ometterebbe di dire che un ex giornalista dovrebbe essere più che capace di far saltare anche le trappole dei colleghi di altre simpatie politiche senza ricorrere a tali teatrini di vanità. D’altra parte, il disprezzo più acerbo per la libera informazione rientra fra i punti cardinali di una scuola di pensiero che vede in Donald Trump il suo più nobile ispiratore. Ça va sans dire.
Tra coerenza latitante e mania dell’imitazione…
Strappa qualche risata, inoltre, un dettaglio non indifferente: di questo “tribunale del pensiero unico” che sarebbe, a suo avviso, la radiotelevisione nazionale, Zemmour è stato in realtà lungamente al soldo. L’ex polemista di CNews, con un soffio d’ipocrisia, ha, forse intenzionalmente, dimenticato di aver collaborato per quasi cinque anni (2006-2011) con il talk show On n’est pas couché, popolarissimo programma del sabato notte, mandato in onda proprio sul canale di punta di France Télévisions, France 2. Per non parlare, poi, degli inviti saltuari, susseguitisi sin dall’inizio degli anni Duemila.
Non potevano che arrivare a ruota i commenti di Marine Le Pen, terrorizzata dalla crescente erosione di consensi della Reconquête zemmouriana che le sta alle calcagna. Alla presidente del Rassemblement National va tuttavia dato atto di essersi contenuta, per garbo istituzionale, ai microfoni del servizio pubblico, preferendo ribadire proposte simili, già esternate in vari comizi, a quelli molto più amichevoli di Europe 1:
“Sono per la privatizzazione dell’audiovisivo statale. Il potere d’acquisto dei francesi aumenterà, poiché non avranno più il canone della televisione da pagare. Soprattutto, siamo oramai una grande democrazia che, a parte che di un canale per i territori d’oltremare e di uno per far sentire la voce della Francia nel mondo, non ha più bisogno di una così grande tv pubblica.”
Marine Le Pen, intervista a Le Grand Rendez Vous, Europe 1
A conti fatti, conviene davvero privatizzare France Télévisions?
Tenendosi a debita distanza da un economicismo professorale che poco si confà a chi scrive, è interessante provare a scandagliare a fondo i motivi che suffragherebbero l’effettiva opportunità di privatizzare France Télévisions e Radio France, oggi controllate in toto dallo Stato francese attraverso l’agenzia di partecipazioni statali APE, tra l’altro nata sotto il governo conservatore di Jean Pierre Raffarin. Il servizio pubblico non opera più in regime di monopolio (come d’altra parte la Rai) dal 1986, l’anno in cui Silvio Berlusconi – col favore di François Mitterrand – provò a sbarcare il lunario Oltralpe con il modello di Canale 5, dando vita a La Cinq. Fu un’operazione qualitativamente improponibile ed economicamente catastrofica, ma il suo fallimento creò le condizioni tali per il vuoto normativo che rese necessaria prima la privatizzazione di TF1 – prima rete – e poi una sana liberalizzazione.
Il segreto del successo?
Se per France 2, rete generalista che combina informazione e intrattenimento sulla falsariga delle sorelle europee (Rai 1 e Das Erste), la vetta degli ascolti resta un miraggio, va però detto che l’emittenza nazionale francese ha rinunciato da tempo a sfondare i record della sua principale concorrente, accontentandosi dell’assoluta primazia in alcune fasce (fra cui quella mattutina, dove sulle news non ha rivali) e di buoni risultati sui notiziari. Se la cavano in maniera più che onesta, nonostante una programmazione piuttosto di nicchia, i canali a vocazione regionale, culturale ed educativa France 3 (9,3 %) e France 5 (3,6 %), che il pubblico premia soprattutto per format auto-prodotti e in diretta, fra cui gli appuntamenti storico-letterari in prima serata de La Grande Librairie e Secrets d’Histoire o i talk show serali On est en Direct, C à vous e C dans l’air.
Nel panorama radiofonico, invece, France Inter – prima radio nazionale, a vocazione quasi esclusivamente giornalistica – regna incontestata, con una media di 6,9 milioni di ascoltatori. Non è inoltre secondario che circa un sesto dell’audience abbia meno di 35 anni. Altre emittenti pubbliche assicurano infine una copertura più capillare delle tematiche culturali (France Culture) e delle istanze care alle realtà locali (France Bleu).
…Puntare sulla qualità!
Finanziata per l’80 % con la redevance (canone) – 138 euro all’anno in Île-de-France e 88 negli altri dipartimenti per ciascun domicilio – ma forte di tassi pubblicitari molto ridotti (le pause dopo le 20 sono al momento vietate in forza di una legge concepita durante la Presidenza Sarkozy), la radiotelevisione francese può dirsi in buona salute. Una sana indisponibilità a inseguire la concorrenza – peraltro così dissuasa dalla tentazione della tv spazzatura e focalizzata su cinema e intrattenimento – e una misurata attenzione alla portata culturale dei palinsesti, con la contestuale rinuncia al trash e un occhio di riguardo per i volti giusti, hanno grandemente giovato ai media di Stato. Spira il vento in poppa anche per quanto attiene alle produzioni cinematografiche inedite, su cui France Télévisions sta investendo molte risorse, anche di comune accordo con le gemelle europee.
Checché ne pensino Madame Le Pen ed Éric Zemmour, il plebiscito popolare verso il servizio pubblico non manca, dunque. Dove rintracciare allora le ragioni di una tale ostilità nel pieno del fervore pre-elettorale? Se l’emittenza nazionale fosse realmente il teatro della propaganda più ripugnante, probabilmente non collezionerebbe questi esiti in termini di share. Né, verosimilmente, potrebbe aspirarvi in una fase politica che pare arridere sia a Éric Zemmour che al Rassemblement National, oramai certi di contendersi all’ultimo voto il secondo turno delle imminenti elezioni presidenziali, per la sfida all’uscente Emmanuel Macron.
Le scelte indigeste
Una documentata inchiesta del Figaro Magazine evidenzia, a onor di verità, fra le possibili ragioni delle frizioni, anche opzioni editoriali comprensibilmente indigeste al fronte conservatore: fra di esse, il reclutamento del giornalista Patrick Cohen, tuttora editorialista di France 5, che parlò apertamente di “cervelli malati” invitati regolarmente sul servizio pubblico, o l’ampia accondiscendenza di fronte agli aperti sostegni elettorali di molti conduttori, fra cui quello – in favore di Macron – di Laurent Ruquier, che ha definito Zemmour come “un virus che progredisce”. Ha destato poi scandalo la denuncia di Frédéric Taddeï, ex animatore del talk show senza filtri Ce Soir ou jamais, oggi voce domenicale di Europe 1, che ha recentemente accusato la tv pubblica di essere caduta nella trappola di una “privatizzazione ideologica da parte della sinistra”.
È indubitabilmente possibile che anche France Télévisions o RadioFrance, malgrado gli ottimi risultati, operino o abbiano operato scelte tendenziose ed evitabili nel quadro delle rispettive programmazioni. Tuttavia, sarebbe sciocco non cogliere le abissali divergenze di spessore che intercorrono fra le critiche ragionate di un rispettabile milieu conservatore e la crociata isterica e strumentale di cui il duo Zemmour/Le Pen sembra volersi intestare quasi un merito.
…Privatizzare o lottizzare?
Quella medesima destra che rivendica “il ritorno a un monopolio naturale per la SNCF” e auspica la “nazionalizzazione delle autostrade” si riscopre, invero, liberista quando sul ring c’è un’industria creativa che, poiché onerosa per il contribuente e talvolta scomoda ai biechi fini delle trame elettorali, diventa facilmente oggetto di un’insaziabile sete di potere presso alcune forze politiche. Le accuse di faziosità o la privatizzazione brandita come una clava contro una libera redazione di giornalisti si rivelano come il sintomo dell’indecenza morale e della vacuità culturale di una parte politica in ascesa.
Al di là di singole operazioni più o meno opinabili, l’unica colpa del servizio pubblico d’Oltralpe è quindi quella di non essersi mai prestato alla foga “lottizzatrice” di dispotiche Commissioni parlamentari istituite ad hoc da politici avvezzi al vorace consumo di suolo catodico, come accaduto invece in Italia. Quanto poi alla reale probabilità che dal canone televisivo dipenda il potere d’acquisto dei cittadini francesi, un bel tacer non fu mai scritto.
Il malcostume occulto della politica
L’assalto ai media e alla libera informazione in generale si colloca al vertice delle pratiche più ributtanti fra quelle abitualmente coltivate dagli uomini di potere di tutta Europa. Obiettivi, tattiche e vittime da mettere nel mirino differenziano sicuramente la “destra” dalla “sinistra”. Una piena convergenza è stata raggiunta solo nel nostro Paese, dove l’antica formula descritta da Enzo Biagi con “un posto a un democristiano, uno a un socialista e uno a un comunista” sembra aver posto le fondamenta di un duraturo accordo fra gli esponenti dell’intero arco parlamentare.
“Media pubblici-media privati, la coesistenza per la sfida”
Ampie discrepanze si registrano invece ancora oltreconfine, dove giornalisti e media tradizionali hanno ufficialmente fatto ingresso nel fracasso assordante del tam tam elettorale. A nessuno, neppure a quei soggetti politici che sempre hanno avversato le grandi concentrazioni di potere, sembra invece interessare la sfida rappresentata dallo strapotere dei colossi angloamericani del broadcasting. Delphine Ernotte, AD di France Télévisions, ricorda come “un forte polo di coesistenza su scala europea fra media tradizionali pubblici e privati possa costituire l’unico argine all’egemonia di piattaforme sovranazionali, oggi americane e domani, forse, asiatiche.”
Le trame ambigue del patriarca Bolloré
A far tremare la terra sotto i piedi dei giornalisti francesi, tuttavia, non sono solo le minacce provenienti dal fronte nazional-populista. Mentre martellanti e infondate accuse di faziosità fustigano France Télévisions e RadioFrance, gli auspici di madame Ernotte si ritrovano a fare i conti con la crescita esponenziale di quella che sembrava dapprincipio, per il mercato mediatico d’Oltralpe, un’opportunità, e va invece rivelandosi come un potenziale rischio: la campagna acquisti di Vincent Bolloré, patron di Vivendi, in Italia noto per lo sventato lancio di un’opa su Mediaset, oltre che in qualità di azionista di maggioranza di TIM.

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Bretone, cattolicissimo, spregiudicato e decisionista, per la maggior parte dei francesi Bolloré è “l’ex editore di Éric Zemmour”, il “suo” candidato tailor made. Cosa non falsa, ancorché estremamente riduttiva: molti lo descrivono come il regista non ufficiale della sua campagna elettorale. Al suo impero, infatti, rispondono non solo i canali della pay tv francese Canal+ (fra cui CNews), arcirivale di Sky, ma anche un numero sterminato di riviste tematiche, case di produzione cinematografiche, discografiche e videoludiche (StudioCanal, Universal Music e GameLoft), holding pubblicitarie, del trasporto persone e delle telecomunicazioni, nonché colossi logistici, fra cui diciassette concessioni sui terminal container in Africa e la gestione esclusiva di alcune infrastrutture portuali in Togo, Guinea e, fino al 2020, Camerun.
L’ennesima preda: il gruppo Lagardère?
Tracciato questo quadro, il suo prossimo passo annunciato potrebbe apparire quasi come una banale quisquilia: l’opa sull’intero pacchetto azionario del gruppo Lagardère, uno dei più consistenti conglomerati mediatici di Francia, di cui il boss è già azionista al 44 %. A separarlo dall’ennesima presa di controllo, rimane il ritardo dell’autorizzazione formale dell’Autorità per la Concorrenza della Commissione europea. Su cui, tuttavia, grava il peso di una pervicace attività di lobbying praticata dal gruppo Bolloré.
Arnaud Lagardère, erede unico ai vertici dell’azienda fondata dal padre, detiene oggi diversi newsmagazine fra cui il celeberrimo Paris Match e il prestigioso Journal du Dimanche, ma, soprattutto, la casa editrice Hachette e l’emittente radiofonica Europe 1, un tempo decana della radiofonia libera in Francia. Già l’ingresso nell’azionariato di Bolloré e del gruppo Vivendi, motivato da fondamenta finanziariamente fragili, avevano dato luogo a inusitate mobilitazioni di protesta fra i dipendenti della radio: nel giugno dello scorso anno, ad “accogliere” la novità era stato un esodo in massa di volti prestigiosi dell’emittente, oltre al primo sciopero della sua storia, protrattosi per una settimana.
A Europe 1 è cambiata la musica

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L’impatto della fulminante egida non ha tardato a farsi sentire anche nei palinsesti di Europe 1, ampiamente rivisti al risparmio e all’insegna di una sempre più versatile sinergia con CNews, la rete organica di quell’estrema destra che vorrebbe far vedere i sorci verdi alla TV pubblica. L’uomo del nuovo corso ha solo un nome: quello del direttore giornalistico, Donat Vidal Revel.
“È stato estremamente violento” lamenta Sophie Larmoyer, fuggita dalle frequenze nonostante il buon riscontro della sua trasmissione Carnets du monde. “Molti di noi hanno vissuto il suo arrivo e la sua maniera di distoglierci dal giornalismo libero come una sorta di rapina” raccontano, uscendo dall’anonimato, alcuni ex collaboratori di Europe 1 a Reporters sans frontières. Secondo Pascale Clark, già pioniera di metà mattina, “il modello sotto gli occhi di tutti è quello di CNews, un canale che fa poca informazione e molta opinione, dove si esprimono punti di vista spesso disinformati ed estremamente tranchant”. “Ha una concezione totalitaria del giornalismo: lui stesso dice sempre che un’impresa di quella taglia va gestita col terrore” rincarano la dose altri autori passati per l’orbita Canal.

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Il “sistema B.”
La strategia d’ordinaria amministrazione adottata in casa Bolloré sembra vagamente rievocare le purghe staliniste: intimazioni, licenziamenti a pioggia, cause milionarie, ricorsi forsennati e, soprattutto, pesantissime censure nei confronti di qualsiasi produzione suscettibile di intaccare minimamente i suoi giri d’affari miliardari. Particolarmente indicativo di questi metodi è stato il recente diktat di bloccare, a qualche ora dalla messa in onda, un documentario su Crédit Mutuel, istituto bancario con cui Vivendi sta sviluppando un’intensa partnership.
Contrariamente a media mogul a lui avvicinabili per storia personale e ascesa, come Rupert Murdoch e Silvio Berlusconi, Vincent Bolloré non calibra il peso delle sue pressioni con un taglio sartoriale preciso: qualunque testata passi per le sue mani viene prosciugata delle proprie risorse e condannata al destino di organo di proiezione mediatica delle sue mire egemoniche. Se, infatti, nessuno potrebbe scientemente sostenere che – nella corporazione murdochiana – al Wall Street Journal siano imposte le stesse prassi cui è chiamata a sottostare Fox News, Europe 1 e CNews sembrano essere state cesellate al fine di operare sempre di più come le due facce della stessa medaglia. Un esempio? La trasmissione in simulcast (codiffusione) nella preziosa fascia preserale (18-20) – dove peraltro si registrano i risultati più rassicuranti grazie al successo di CNews – o le schiere di opinionisti, grosso modo comuni.
Le conseguenze dell’abbraccio Vivendi-Lagardère
Constance Benqué e Arnaud Lagardère, rispettivamente direttrice delle News e presidente di Lagardère, si difendono dagli attacchi: “Non facciamo una radio d’opinione. Abbiamo bisogno di associarci a un canale TV come le altre stazioni.” Forse allo scopo di sostenere la veridicità di questa tesi, dalle epurazioni a comando che hanno depauperato la proposta radiofonica sono state salvate trasmissioni molto “libere” quali C’est arrivé demain di Frédéric Taddeï ed è stato richiamato alle armi, nel tentativo di ridare lustro all’informazione del weekend, un’istituzione vivente del giornalismo francese, l’87enne Jean Pierre Elkabbach. Sono state preservate, per ora, dalla ricetta CNews (rispetto contabile della par condicio e sbilanciamenti clamorosi in favore di una parte), le produzioni d’intrattenimento e i podcast.
Gli sconvolgimenti interni e le conseguenze delle tensioni succedutesi quest’estate restano tuttavia tutt’altro che inavvertibili: via l’umorismo dissacrante di Nicolas Canteloup, via l'”orologio parlante” dell’eterna speaker Julie, via i grandi matinalier (le voci radiofoniche del prime time mattutino) come Matthieu Belliard, allontanatisi volontariamente o messi in fuga. Certo, i professionisti arrivati da Canal+ per sostituirli non mancano di talento e fra le “voci” ricorrenti c’è ancora spazio per alcune firme di testate “moderate” come Le Figaro, Challenges e Les Echos. La radio col logo in blu sembra però aver smarrito la propria identità. E le giustificazioni addotte da Arnaud Lagardère tanto rimandano alle difficoltà di una persona costretta a osservare un malato senza poterlo curare.
Cosa resterà della radio col logo blu?
Agli ascoltatori storicamente affezionati – fra cui l’autore di quest’articolo – alla stazione risulta difficile non prendere atto delle radicali virate imposte alla “loro” radio su perentorie disposizioni della nuova proprietà. Non è dunque casuale che, una rilevazione dopo l’altra, la fiducia del pubblico in Europe 1 coli progressivamente a picco e le percentuali di share si assottiglino a vista d’occhio: mentre gli ascolti di CNews schizzano a cifre astronomiche, la radio non raccoglie che il favore del 3,4 % della platea in ascolto, contro il 13,3 di France Inter.
Sarebbe improprio non ascrivere questo declino al generale quadro di difficoltà di una radio martoriata da tagli al budget e manovre d’interesse. Europe 1, infatti, rappresenta oramai appieno l’alimentatore a geometria variabile di un potente circuito di traffici d’influenze e di operazioni finanziarie: tutte prassi che poco hanno a che vedere con il savoir faire giornalistico dell’emittente. È un problema rispetto al quale certi italici silenzi provocano un qualche ribrezzo, soprattutto in considerazione del mai estinto interesse di Vivendi ad incamerarsi anche i canali Mediaset.
Dalle finalità industriali a quelle politiche…
Il 19 gennaio, Bolloré è stato interrogato da un manipolo di parlamentari nel corso di una seduta peculiare. Una Commissione d’inchiesta è stata infatti recentemente costituita, su richiesta del gruppo socialista, dal Senato per far luce sulla concentrazione di potere editoriale nelle mani di pochissimi. Si tratta di una misura che non voleva essere, negli intenti, ad personam, ma che inevitabilmente individua nel patron di Vivendi un obiettivo privilegiato. Quest’ultimo stenta a nascondere l’intento di trincerarsi dietro il suo lussurreggiante parco mediatico per incidere marcatamente sull’esito delle imminenti presidenziali. La sua prossimità politica al suo ex pupillo Éric Zemmour è infatti cosa nota a tutti: sarebbe arduo spiegare altrimenti l’approdo del giornalista Dimitri Pavlenko, già in forza alla trasmissione di Zemmour su CNews, nella fascia mattutina di Europe 1.
Una cifra decontestualizzata, per prendere le misure al problema: se le holding Bolloré riuscissero davvero ad agguantare – legalmente, s’intenda – la prestigiosissima casa editrice Hachette, andrebbe a impadronirsi de facto del 64 % delle quote di mercato dei manuali scolastici, oltre che di una miriade di piccole maison dell’edizione non autosufficienti, stando a quanto notificato dall’editore Antoine Gallimard. Dati che incutono timore, questi ultimi, rispetto ai quali la presunta concentrazione di frequenze televisive nelle mani di questo o di quel magnate risulta quasi insignificante. Ridicole operazioni di boicottaggio del gruppo Canal o di Europe 1 da parte di alcune formazioni di sinistra e la già citata Commissione d’inchiesta istituita dal Senato appaiono – in prospettiva – condannate a durare il tempo di un caffè, senza pervenire ad alcuna soluzione degna di nota.
Il problema? Non è la concorrenza
Le ragioni di questo probabile scacco andranno rinvenute nella natura intrinseca del problema: più che dalla “concentrazione”, il potenziale rischio per la libertà d’informazione e di stampa – specie in questa fase di campagna elettorale – potrebbe originare proprio dallo scontro fra titani che va consumandosi tra la macchina da guerra di Vincent Bolloré su un fronte, orientata tout court verso le destre, e il servizio pubblico, esposto ad invettive di inedita durezza, sull’altro. Paradossalmente, non sono il pluralismo o la concorrenza a mancare sul telecomando o nelle edicole dei francesi.
I primi sei canali presenti nel teleschermo dei francesi sono infatti detenuti da quattro differenti gruppi di edizione televisiva: TF1 (Boygues), France 2-3-5 (France Télévisions), Canal+ (Canal-Vivendi), M6 (Groupe M6). I primi dieci giornali per tiratura e diffusione appartengono a editori e “pescano” lettori di diverse sensibilità. Un discorso pressoché identico potrebbe essere condotto con riferimento alle stazioni radiofoniche: in Francia, infatti, è ancora molto diffusa l’idea della radio come influente mass media d’informazione e di opinione: i record messi a segno da RTL e la potenza di fuoco di France Inter ne sono un’incontestabile riprova.
I media privati, una risorsa di primaria importanza
Qualche santone “pseudo-liberale” obietterà che il settore dei media tradizionali necessita disperatamente dell’impulso finanziario di privati che ripongano in esso la sua fiducia – a qualsiasi condizione – poiché lo Stato non può fare tutto, men che meno televisione. Ebbene, le esperienze molto positive, in questo campo, non mancano: c’è Xavier Niel, patron di Iliad, che siede con successo alla guida del gruppo che edita testate prestigiose come Le Monde, L’Obs e Télérama. Lascia, inoltre, parte della proprietà del suo Gruppo con una rappresentanza di giornalisti, lettori e abbonati di lunga data, chiamati a vigilare sull’indipendenza della linea editoriale. C’è la famiglia Dassault, simbolo dell’industria dell’aviazione e proprietaria del Figaro, che nonostante la veneranda storia e l’immutata proprietà non ha perso un briciolo di obiettività né di rettitudine, elementi che ne fanno tuttora il quotidiano conservatore più reputato, credibile e autorevole in Europa (al pari della Frankfurter Allgemeine Zeitung).
L’industria creativa rende ancora
Non mancano neanche nel settore televisivo aziende editoriali che producono introiti per i loro editori, senza che giornalisti e collaboratori debbano subire così spudoratamente i condizionamenti dettati dai conflitti d’interesse. Un esempio? I gruppi Boygues e Bertelsmann, cui fanno rispettivamente capo la prima rete per ascolti (TF1) e la prima radio privata di Francia (RTL). È anche fisiologico e più che accettabile, in una certa proporzione, che un media cavalchi alcune cause care a chi lo finanzia, ma a farne le spese non può essere la libertà d’informazione nei Paesi che ancora ne garantiscono la piena ed effettiva attuazione.
Gli esempi che si potrebbero fare sono ancora tanti. Quelli citati costituiscono una testimonianza del fatto che sia lo Stato sia un finanziere, un banchiere o un industriale possono rivelarsi ottimi editori, purché l’interesse industriale del finanziatore non diventi una “maschera” per quello politico. Dalla sopravvivenza di giornali, tv e radio dipende in una certa qual misura la vera garanzia di alcuni fondamentali diritti di libertà, in un campo – quello dell’informazione – in cui piattaforme sovranazionali come Netflix, per citare un esempio noto ai più, non hanno ancora dimostrato praticamente nulla.
I rischi della concentrazione: il caso Lagardère fa scuola
Mi si criticherà, forse, per aver tratteggiato una situazione in cui – dopo anni da carceriere – lo Stato democratico rischia di finire strozzato fra le maglie delle sue leggi, rimanendo vittima dei deliri di alcuni candidati e dell’assenza di freni a un potentato “editoriale” indiscriminato, libero di intimidire i giornalisti alle sue dipendenze. In Francia, difatti, esisterebbe una legge che vieta lo sfruttamento indiscriminato delle partecipazioni azionarie nei gruppi mediatici per attentare alla libertà di espressione (c.d. legge Blanche).
Se per decenni i servizi radiotelevisivi pubblici hanno giocato un ruolo volitivo e monopolistico nei sistemi mediatici, oggi sembrano quasi rappresentare, accanto ai gruppi che investono nei media tradizionali nel nome di una reale affezione verso l’informazione di qualità, vere e proprie roccaforti di libertà intellettuale. Perlomeno laddove ancora non sono chiamati alla scelta fra difendersi o riverire con deferenza le pretese di una politica oligarchica e assetata di potere. A conclusione di questo “spiegone”, che forse potrà risvegliare qualche coscienza, voglio infine ricordare che, laddove un editore adotta i metodi di Bolloré o dei sagaci “lottizzatori”, un ulteriore passo avanti verso la sterilizzazione dello spirito critico sarà presto mosso.