Paolo Rossi durante il periodo al Lanerossi Vicenza - Wikimedia Commons
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RACCONTAMI PAOLO ROSSI, PAPÀ

Aveva gli occhi lucidi, che riflettevano le immagini dello schermo. Poche volte l’ho visto così, così profondamente triste. Aveva l’espressione di chi saluta qualcuno o rinuncia a qualcosa di importante, così importante da somigliare alla perdita di un pezzo di sé. Sapevo bene anche io, chi fossero gli uomini in televisione: Bergomi, Conti, Oriali, Tardelli. Mio padre aveva gli occhi lucidi, e quei ragazzi dell’82 gli somigliavano un sacco.

Le ho viste tante volte le immagini in televisione del “Mundial”, la formazione di Italia-Brasile sulle bottiglie della Peroni, “bella come il gol di Tardelli” dedicata nei film. I baffi dello “zio”, il bel Cabrini che piaceva alla nonna e alla mamma, Conti il “MaraZico”, Zoff che la inchioda lì. Sapevo tutto, eppure mi sentivo estraneo al momento. Un lungo applauso: «ma papà, chi era Paolo Rossi?».

Si è girato lento, fissando le scale che portano al secondo piano. “Finalmente”, sembrava suggerire l’incedere di chi sta per fare, per dire qualcosa di importante, qualcosa di segreto. Mi ha invitato a seguirlo, indicandomi, con gestualità cerimoniale, il tavolino dove solitamente studio: «siediti». È riapparso dallo sgabuzzino qualche decina di secondi più tardi, con una scatola di legno in mano, che non avevo mai visto.

«Partiamo da qui»

C’era una piccola fotografia di una donna seminuda sotto la scritta “Cin Cin”, una pezza, uno spray dallo strano odore e undici piccoli omini, ai piedi dei quali stavano delle semi sfere. «Subbuteo», ha sillabato, come una mamma che insegna al figlioletto le prime parole. Era un’iniziazione. «Questi sono gli anni ’80 e questa era la mia play-station». In realtà conoscevo già il gioco, di cui più volte mio padre si è ventato di esser stato “un autentico fenomeno”. Ma era la prima volta che vedevo questa scatola, e una cosa non mi tornava: perché la maglia degli undici omini era dipinta di rosso, e i pantaloncini di bianco? Lo chiesi a mio padre, lui che è interista da sempre. Mi ha risposto risentito: «questa è stata la prima squadra capace di giocare un intero campionato di Serie A senza perdere una partita, ed è stata un capolavoro. Di bravura. Di grinta. Di talento. Di uomini».

Pausa, scuote i ricordi, prende un respiro: «Malizia, Frosio, Nappi, Della Martira, Ceccarini, Butti, Dal Fiume, Vannini, Bagni, Speggiorin, Rossi: il “Perugia dei miracoli”, stagione 1978-79, però Rossi ce l’ho messo io: ci fosse già stato avrebbero vinto il campionato», raccontava tenendo l’omino col numero “9” fra le dita. «Erano anni molto strani, quelli, sai? Prima il Vicenza, poi il Perugia: le nobili provinciali che facevano paura alle grandi. Tutto era possibile, e tutto era a portata di popolo, a partire dal calcio. E tutti volevano essere Paolo Rossi, il ragazzo dalla faccia pulita e dai modi cortesi, il Robin Hood del pallone».

Posa l’omino sul tavolo, facendosi un po’ più serio e cupo.

«A qualcuno dava fastidio»

«Due anni prima del Mondiale, 13 giocatori furono arrestati e 8 club di serie A furono colpiti dalla grande nuvola del calcioscommesse: ci finì dentro anche Paolo. Era una domenica di marzo e a “Novantesimo minuto” le camionette della guardia di Finanza piombavano davanti agli stadi italiani. Pablito non finì in manette come gli altri suoi colleghi. Ebbe, comunque, l’ordine di comparizione, ma essendo il giocatore più famoso venne sbattuto in copertina. Molti videro trasformarsi quel ragazzo dalla faccia pulita in un giocatore ricco e realizzato, che si era venduto per un paio di milioni e un paio di gol. Lo denunciarono Trinca, un ristoratore, e Cruciani, un commerciante, che organizzarono quello che fu chiamato il “Totonero” e truccarono, chiamando in causa pure i dirigenti e quindi le società, le partite. Alcuni accordi però saltarono e i debiti accumulati spinsero Trinca e Cruciani a fare nomi e cognomi. Ricordo ancora un’intervista di Rossi: “ero in ritiro con il Perugia, preparavamo la gara con l’Avellino. Stavo giocando coi compagni quando arriva Della Martira e mi dice: “Paolo, vieni un attimo che ti presento qualcuno”. Mi alzo e penso ai soliti tifosi. Con Della Martira ci sono Crociani, Cruciani, come si chiamava? e un altro tipo. Il mio compagno mi dice: “Sai, L’Avellino sarebbe d’accordo per pareggiare”. Io gli rispondo: “Cosa vuoi che ti dica, poi ne parliamo con la squadra”.

Al processo – prosegue mio padre – Cruciani affermò che Rossi aveva accettato a patto che lui segnasse due reti. E che poi divise con Rossi, Zecchini e Casarsa l’assegno da otto milioni. In un drammatico faccia a faccia con Cruciani, un Rossi imbarazzato si difese dicendo che l’incontro durò pochi secondi, il tempo di sbuffare e andarsene per poi rimproverare Della Martira di avergli “presentato dei balordi”. Rossi affermò: “io pensavo alle solite partite che si concordano tra due squadre. Se a tutti va bene il pari, si pareggia. Ci sono sempre state nel calcio e sempre ci saranno, anche adesso. Ma al Calcioscommesse non ho pensato mai, non sapevo nemmeno che esistesse. La sera ne parlammo con la squadra ma nessuno era d’accordo, volevamo vincere, il punto non ci interessava. Sfortuna volle che pareggiassimo 2-2, con due reti mie. Ma fu partita vera, basta andare a rivederla. Botte, tante, nessuno si è risparmiato. Altro che accordo”.

Fu squalificato per due anni. Perse l’Europeo del 1980 in Italia. Tornò a toccare il campo il 2 maggio 1982, contro l’Udinese. Era stato comprato dalla Juventus, e da interista è l’unica colpa che attribuisco a Paolo: non vi fu un solo secondo in cui non lo credetti innocente. Mancavano quarantatré giorni all’inizio del Mundial, sembrava a tutti scontata la convocazione di Pruzzo, fu capocannoniere quell’anno. Nessun allenatore al mondo avrebbe rinunciato al capocannoniere del campionato per un centravanti fermo da due anni. Nessuno, tranne Bearzot. Era un grande appassionato di musica jazz. Spiegò: “quando hai ascoltato una volta Charlie Parker, non puoi accontentarti di un altro sax. Io nel ’78 avevo visto giocare Paolo Rossi”».

Pausa.

«Io ero Pertini»

Un po’ d’acqua, e si riprende.

«Raccontami la cornice, il quadro già lo conosco. L’urlo di Tardelli, la pipa del vecio, la sua giacchetta a righe, la notte del Bernabéu, la partita a carte tra le nuvole. Il piccolo Pablito contro le montagne Zmuda e Onana. Raccontami il tuo mondiale, papà».

Abbassa le palpebre: «le partite si vedevano al bar, e il calcio era un appuntamento per fare un po’ di festa. Era l’anno di “Der Kommissar”, di “Billie Jean”. Mi piacevano i Toto, i Pooh e Stevie Wonder. Nel 1982 uscirono “E.T” e “Conan il barbaro”. Fu assassinato Dalla Chiesa. Ricordo come i politici fossero intoccabili, i conti dello Stato erano allo sfascio. Prima del mondiale Bearzot e i suoi ragazzi erano stati accusati di essere ladri, per i premi che erano stati loro promessi. Ricordo sui giornali le parole di Publio Fiori, democristiano, ed Ermido Santi, socialista: accusavano i calciatori di essere viziosi strapagati. Dieci anni dopo vi fu Tangentopoli. I partiti di Publio ed Ermido furono spazzati via dallo scandalo. Quest’ultimo fu processato per un caso di tangenti riguardo a delle case popolari di Genova. Il primo fu Ministro dei Trasporti del primo governo Berlusconi, iscritto alla P2. Io ero un ragazzetto piuttosto magro, avevo vent’anni. La mia Italia aveva il volto di Scirea e di Zoff. Erano gli anni del disimpegno. Sai cosa era incredibile? Che tutto era normale, popolare. Il calcio era ancora quattro zaini per terra in un prato. Paolo Rossi era un ragazzo dalle braccia sottili, dai capelli neri e spettinati, dal viso pallido e scavato sul quale dominavano due grossi zigomi. Un dio di 60 chili. Somigliava a me, somigliava ai miei amici».

Apre gli occhi. Sul suo volto compare un sorriso di tenerezza, mentre afferra i ricordi per proteggerli. I suoi vent’anni stavano danzando sopra il tavolo.

«Il mondo era lì, quella notte. Al Bernabéu, intendo. Due miliardi di spettatori avrebbero seguito Italia – Germania. Ricordo che vi furono più telespettatori per quella partita che per le nozze di Lady D. Il piccolo Rossi contro il toro Briegel. Il resto lo conosci: il pallone ci aveva resi orgogliosamente italiani. Io ero Pertini. Non c’era vergogna né differenza nella gioia popolare, nel gettarsi nelle fontane in quella torrida estate. Quei ragazzi mi avevano allenato ai valori della dignità, e Rossi era diventato il giocatore più forte al mondo».

Restammo in silenzio per qualche decina di secondi.

A papà arriva un messaggio da un amico, sorride. Me lo recitò «organizziamo la partita delle leggende del calcio. Bearzot siede in panchina di una delle due squadre. Scopre che gli avversari hanno schierato Maradona, così lui mette in campo Pablito».

«Carina questa, eh» esclama.

Papà ha gli occhi lucidi, somiglia tanto a me.

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