Il caso di Fabio Ridolfi, ancora prima del più recente caso che riguarda Federico Carboni, ha nuovamente acceso il dibattito sui temi bioetici dell’eutanasia e del suicidio assistito (SA) nel nostro Paese. È da tempo che da più parti viene richiesta una legge che possa fare chiarezza e dare indicazioni a riguardo, ma suddetta legge sembra essersi arenata in Parlamento ormai da un po’.
Tutto quello che abbiamo è la sentenza 242 della Corte costituzionale che si era espressa nel 2019 a favore del SA a determinate condizioni, considerando non punibile chi: “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.
Queste condizioni, sicuramente passibili di discussione, erano tutte soddisfatte da Ridolfi che aveva infatti ottenuto il permesso di procedere con il SA dal comitato etico regionale. Tuttavia, non essendoci una legge ed essendo da noi una pratica nuova, non erano ben chiari i medicinali da utilizzare e la loro posologia.
Questo ha fatto slittare il suo accesso alla pratica, portando Ridolfi ad un’altra soluzione: la sospensione dei trattamenti unita alla sedazione profonda. Questa scelta è possibile grazie alla legge 217 del 2019 che riguarda il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, secondo cui, tra le altre cose, ognuno ha il diritto di accettare o rifiutare qualsiasi trattamento, anche nel caso questo sia necessario alla sopravvivenza. Inoltre, nel secondo articolo della legge appena citata, troviamo il riferimento alla sedazione profonda: “nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente”.
Va precisato che quando si parla di “sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari” non è specificato che queste debbano essere fisiche. Potrebbe trattarsi infatti di sofferenze psicologiche, emotive, esistenziali o di qualsiasi altro tipo. Pertanto, Ridolfi ha compiuto una scelta che combina due pratiche già permesse e largamente accettate dalla società e dalla pratica medica.
A questo punto è necessario però fare alcune precisazioni. Nonostante alcuni giornali abbiano riportato titoli che possono lasciare spazio a varie ambiguità, scrivendo ad esempio che Ridolfi avesse scelto la morte “con” o “tramite” la sedazione profonda, è importante chiarire che non è questa che lo ha condotto alla morte. La causa di morte di Ridolfi è stata la sospensione dei trattamenti vitali. La sedazione profonda gli ha semplicemente permesso di vivere gli ultimi momenti della sua vita senza coscienza e quindi senza soffrire, ma non ha in nessun modo accelerato la sua morte, in quanto questa non è la funzione della sedazione profonda e non è nemmeno un suo possibile effetto collaterale, come è già stato ampiamente dimostrato.
Qui sta sostanzialmente la differenza con l’eutanasia e il suicidio assistito. Lo scopo della sedazione palliativa profonda è la cessazione della sofferenza del paziente tramite l’induzione di uno stato simile a quello in cui siamo quando dormiamo, mentre lo scopo dell’eutanasia e del suicidio assistito è la morte del paziente stesso. Tecnicamente è infatti scorretto sostenere che l’eutanasia e il suicidio assistito siano necessari per far smettere una persona di soffrire. Da una parte, la sedazione profonda già risponde a questo tipo di esigenza, dall’altra ciò che cessa con l’eutanasia è la vita stessa del paziente, non la sua sofferenza.
Per dover di cronaca, va detto che alcuni sostengono che anche la sospensione di alcuni trattamenti, in particolare la nutrizione e l’idratazione, costituisca una forma di eutanasia (la cosiddetta eutanasia passiva). Questo perché non considerano la nutrizione e l’idratazione come terapie, ma come una semplice esigenza base degli esseri umani. Inoltre, se queste vengono sospese la morte del paziente è certa e pertanto si può ipotizzare che la loro sospensione sia accompagnata spesso dall’intenzione di accelerare la morte del paziente. Seguendo questa prospettiva, quindi, Ridolfi sarebbe stato fatto morire di fame e di sete, come se si fosse privato di cibo qualcuno, e questo rappresenterebbe una forma di eutanasia.
Non c’è spazio qui per una disamina approfondita della liceità dell’eutanasia o per discutere queste affermazioni. Qui ci basti dire due cose: la nutrizione e l’idratazione possono essere considerate una forma di terapia in quanto fanno uso di strumenti tecnologici, sebbene molto semplici, che richiedono una monitorazione costante e non sono sempre consigliate, in quanto in alcuni casi possono creare dei problemi al paziente. Inoltre, anche se funzionali dal punto di vista medico, potrebbero essere considerate da lui non proporzionate, a livello di vissuto personale, e questa componente va sempre tenuta in conto quando si prendono delle scelte mediche, se non si vuole ridurre il paziente alla sua patologia, ma lo si vuole curare nella sua integrità di persona.
Per quanto riguarda invece l’intenzione malevola, certamente non la si può escludere a priori. Va detto però che se la valutazione dell’intenzione può essere utile per giudicare l’agente, come avviene di frequente nei tribunali, difficilmente essa può essere usata per giudicare un’azione, la quale solitamente viene valutata o in base al tipo di azione che è e alla sua appropriatezza a seconda del contesto, oppure in base alle sue conseguenze. In altre parole, una stessa azione, nello stesso contesto, che produce le stesse conseguenze, può essere valutata positivamente (o negativamente), a prescindere che le intenzioni dell’agente siano benevole o malevole.
A questo punto, ci si potrebbe chiedere se l’eutanasia e il SA siano veramente necessari. Come abbiamo detto, a livello medico non sono necessari per far fronte ad una sofferenza che non risponde ad altri trattamenti perché un’alternativa analoga è già presente. Quali potrebbero essere allora i motivi per preferire l’eutanasia o il SA? Me ne vengono in mente due. Uno è la percezione che una morte a seguito di eutanasia o SA sia in qualche modo più degna di una avvenuta a seguito della sospensione dei trattamenti. Ma, pensandoci bene, perché dovrebbe esserlo? Possono esserci sicuramente ragioni soggettive, anche irrazionali, per preferirla, che vanno sicuramente ascoltate e rispettate nella loro genuinità, però nel momento in cui si vuole elevare una pratica al rango di legge queste motivazioni soggettive, per quanto profondamente sentite, non sono più sufficienti, ma è necessario fornire delle ragioni intersoggettivamente condivisibili dalla comunità, altrimenti qualsiasi nostro desiderio potrebbe diventare legge.
Il secondo motivo è quello che cita lo stesso Ridolfi: poiché la morte a seguito della sospensione dei trattamenti impiega qualche giorno ad arrivare, questo periodo di attesa potrebbe prolungare le sofferenze, non della persona malata, ma dei suoi cari. Anche qui, pur rispettando la sensibilità di ognuno, ci si potrebbe però chiedere se queste ragioni siano sufficienti e se abbiano veramente senso. Perché i suoi cari dovrebbero smettere di soffrire al momento della morte? Forse perché è irreversibile e loro possono mettersi l’anima in pace? Ma già la decisione di sospendere i trattamenti seguita da sedazione profonda continua è irreversibile, poiché il paziente è incosciente ed è destinato a morire in poco tempo. È una sofferenza legata all’attesa della morte? E perché questo periodo non può essere usato per spendere gli ultimi giorni insieme al proprio caro nella certezza di un destino ineluttabile? Inoltre, perché dovrebbe essere lecito indurre la morte di qualcuno per evitare qualche giorno di sofferenza a qualcun altro? Che cosa dice di noi come società o di noi come persone tutto ciò?
Sono domande che inevitabilmente lascio aperte, ma vorrei concludere dicendo che nella costruzione di una società funzionale è fondamentale sia comprendere l’importanza di fornire ragioni universalmente condivisibili se si vuole promuovere un qualche tipo di legge, sia capire che ogni società è frutto di compromessi. Non sempre si può ottenere ciò che si vuole, e questo è un bene, ma solitamente si può consolare la propria sofferenza per un desiderio rimasto insoddisfatto con la consapevolezza che le leggi sono fatte per rispondere a delle esigenze che qualcuno prima di noi ha già avuto e pertanto a cui è probabilmente già possibile trovare soluzione.