Photo by State Emergency Service of Ukraine from Wikimedia Commons
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UNA GUERRA DOVE NON ESISTE COMPLESSITÀ

Vi scongiuro, non dividete tutto in buoni e cattivi, non esistono solo il bianco e il nero, non rimanete in superficie, è più complesso di come sembra. Ho passato gli ultimi anni della mia vita a commentare così le stupidissime polemiche giornaliere – che i media, per darsi un tono, chiamano querelle.

Nell’epoca delle lagne vittimistiche, dove l’unico obiettivo è arraffare cuoricini, ho preso spesso le parti dei brutti, dei cattivi, dei mostri: non perché fossi sempre d’accordo con loro, niente affatto, ma perché tutto quell’accanimento era ingiustificabile e portava a un inquietante ribaltamento dei ruoli per cui i buoni, mettendo alla gogna il mostro, diventavano mostri a loro volta.

Devo ammettere che quando è iniziata l’invasione russa in Ucraina, leggendo i giornali e guardando qualche talk show, mi sono sentito tremendamente disorientato. Il dibattito pubblico pullula di personaggi che ripetono le colossali fesserie della narrazione russa e, nel farlo, come trucco retorico, spiegano che non dobbiamo cadere in quelle stesse trappole dalle quali io, per la miseria, io!, mettevo in guardia ogni giorno: il bianco e il nero e il fascismo degli antifascisti, a scapito della complessità e delle sfumature. Sembra che lo facciano apposta, che si rivolgano proprio a me, per farmi espiare tutti i peccati del passato: allora? Adesso come la mettiamo?

Finito quell’attimo di smarrimento, ho ritrovato una parvenza di lucidità – o di autodifesa – e la conclusione a cui sono arrivato è che non sono io ad aver sbagliato fino all’altro ieri, ma sono i contesti a essere completamente diversi.

Siamo abituati a dividere le persone in buoni e cattivi, a tagliare i temi con l’accetta e a vedere tutto ciò che ci succede attorno in bianco e nero. Ci perdiamo continuamente la meraviglia delle sfumature e ora, santiddio!, nell’unico momento in cui la realtà è davvero in bianco e nero, perché la guerra soffoca lo sfolgorio dei colori, insomma, proprio adesso, quelle sfumature le cerchiamo, tentando di comprendere le ragioni di uno spietato criminale.

Di continuo affrontiamo con superficialità argomenti che richiederebbero di andare più a fondo, ma in questa guerra non c’è nessuna complessità da indagare. Stavolta i fatti sono proprio così, orribilmente semplici: un’autocrazia, guidata da un dittatore con manie imperiali, sta invadendo uno Stato sovrano e democratico, sta bombardando case, scuole e ospedali e sta massacrando deliberatamente i civili. Parlare di complessità, in questo caso, è l’espediente degli ipocriti per mettere sullo stesso piano aggressori e aggrediti.

Affrontiamo le cose di poco conto come fossero una guerra, con tanto di truppe contrapposte e bandierine da sventolare; poi, però, quando la guerra c’è veramente, tutto quell’ardore che avevamo nello schierarci svanisce. Eppure la guerra è la situazione per eccellenza in cui ci sono due schieramenti, uno contro l’altro e non si può stare in mezzo.

Un altro punto interessante da segnalare è l’abuso che facciamo del termine «fascismo». Diamo del fascista a chiunque, tutto ciò che non ci piace è fascista, al punto che la parola ha finito per essere svuotata del suo carico di significato. Un po’ come «resilienza», sta bene dappertutto. Ebbene, è paradossale che nel momento in cui abbiamo a che fare con un vero fascista, e sto parlando ovviamente di Vladimir Putin, facciamo un’enorme fatica ad affibbiargli quell’etichetta che fino a ieri usavamo con grande leggerezza. D’altronde, è il risultato che si ottiene dopo anni passati a concentrarsi più sui simboli che sulla realtà: succede che sono più fascisti Pio e Amedeo di Putin e Kadyrov; succede che è più antifascista il linguaggio inclusivo della resistenza armata ucraina.

Nel dibattito pubblico siamo soliti ingigantire qualsiasi cosa, a vedere tutto come se fosse una questione di vita o di morte. Per una volta che ci troviamo di fronte a una tragedia che è già gigante di suo, e non c’è bisogno di aumentarne la grandezza, l’atteggiamento di alcuni è quello di minimizzare: suvvia, è un ragazzaccio, in fondo qualche ragione ce l’ha, e anche noi ce la siamo un po’ cercata!

Per quanto riguarda il mondo dell’informazione, l’Italia sta facendo una figura vergognosa di fronte al mondo intero, tanto che le nostre vicissitudini sono arrivate persino in territorio ucraino. Due giornaliste ucraine, Olga Tokariuk e Iryna Matviyishyn, hanno espresso il loro disappunto per la disinformazione e la propaganda putiniana presenti nella televisione italiana.

Olga Tokariuk ha condannato il livello di disinformazione nei media italiani, dicendo che le fa «fisicamente male», che nella televisione italiana «si mettono sullo stesso piano l’aggressore e la vittima» e che «si dà spazio agli ignoranti e ai corrotti».

Sempre Tokariuk, in un’intervista a Radio Radicale, ha raccontato il suo legame passato con il sistema dell’informazione italiano, particolarmente indulgente nei confronti delle posizioni filo-russe: ha ricordato che in molte trasmissioni si trovava da sola, accerchiata da ospiti che non dicevano la verità, che negavano quello che lei vedeva con i suoi occhi, e si chiedeva: «Come faccio a contrastare questa disinformazione?».

Iryna Matviyishyn ha partecipato alla trasmissione Otto e Mezzo, condotta da Lilli Gruber su La7, e si è trovata a dibattere con Jasmine Cristallo, attivista del Movimento delle Sardine. Cristallo, dichiarando la sua contrarietà all’invio di armi all’Ucraina, ha rilanciato la falsa narrazione russa, parlando di nazisti ucraini e di autodeterminazione dei popoli in riferimento all’annessione illegale della Crimea e all’occupazione del Donbass, avvenute nel 2014. Quando Iryna Matviyishyn ha commentato l’accaduto su Twitter, proprio Olga Tokariuk le ha risposto così: «È la ragione per cui non vado nella tv italiana. Grazie per aver raccontato la verità».

Il problema della televisione italiana è enorme. Un esempio lampante è quello dei talk show. Qui, la scelta degli ospiti non viene fatta con l’obiettivo di arricchire il dibattito, ma con quello di creare lo spettacolo, lo scontro, che fa aumentare gli ascolti. In questo modo il programma diventa intrattenimento puro e il dibattito è sterile perché si finisce in un buco nero in cui gli ospiti competenti passano tutto il tempo della trasmissione a cercare di ribattere alle sciocchezze dell’incompetente.

Il dibattito pubblico non solo è improduttivo, ma regredisce, avvelenato dalla disinformazione. A forza di ripetere falsità, queste si instillano nella mente di chi le ascolta, e il clima di opinione in cui siamo immersi diventa marcio.

Un altro enorme problema è che le palesi falsificazioni della realtà non vengono mai confutate dal conduttore. Così, lo spettatore, magari sprovvisto di mezzi per farlo da sé, finisce per prendere le parti dell’una o dell’altra sponda affidandosi a ciò che gli fa vibrare di più le corde emotive.

Qual è la soluzione per uscire da questo circolo vizioso? Dubito fortemente che ci sia la volontà di farlo, ma ammesso che questa volontà ci sia, credo che l’unica via d’uscita sia quella della fattualità. Non si può distorcere la realtà inventando menzogne e poi proteggersi evocando il concetto di libertà di opinione. Sia chiaro, non sto parlando di mettere bavagli. Silenziare le opinioni è ciò che avviene nella parte di mondo che certi opinionisti difendono, perciò ritengo la libertà di sentire degli sciroccati in tv un grande indice di democrazia.

Però, come ha scritto Nathalie Tocci (direttrice dell’Istituto Affari Internazionali) in un bellissimo articolo sulla Stampa, «il paradosso è quando nel nome della libertà di opinione, e quindi della democrazia, si dà spazio all’opinione slegata dalla competenza, aprendo alla disinformazione e alla propaganda, e infliggendo un colpo letale alla democrazia stessa».

Dunque, è importante distinguere tra fatti e opinioni. Le opinioni possono essere tante e diverse l’una dall’altra, ma i fatti sono unici, sono quelli e basta, e non possono essere alterati. I fatti devono essere il punto di partenza dal quale sviluppare le opinioni. Non fidatevi di chi fa il processo inverso, di chi spaccia strampalate opinioni per fatti e le avvalora parlando di complessità.

È agghiacciante pensarci, ma in questa guerra la complessità non esiste. I ruoli sono definiti: c’è un buono e c’è un cattivo; c’è un aggredito e c’è un aggressore; ci sono persone che muoiono sotto le bombe e c’è un dittatore che quelle bombe ordina di sganciarle. C’è il bianco e c’è il nero. I colori, le sfumature, quelli un giorno torneranno.

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