L’ex presidente degli Stati Uniti (1977-1981), Jimmy Carter ha compiuto cento anni: è il primo ex inquilino della Casa Bianca ad aver passato questa soglia. Il miglior regalo di compleanno, si è augurato già un paio di mesi fa, sarebbe vedere Kamala Harris alla Casa Bianca. Oggi Carter è ricordato soprattutto per le intuizioni e gli insuccessi in politica estera nella seconda metà degli anni Settanta. Curiosamente, viene da una famiglia di fumatori. Il padre scomparve a 59 anni, le due sorelle a 54 e 64 rispettivamente e il fratello a 51. Forse sarà stato per questi motivi che si è sempre battuto per questioni saltuari e ambientali. Ma al netto delle intuizioni in materia di diritti umani, la sua presidenza non fu molto fortunata. Diede all’Occidente e al mondo l’impressione di un’America smarrita, che aveva perso la rotta di fronte ad un’Unione Sovietica, allora al massimo dell’aggressività geopolitica.
Un uomo del Sud, non particolarmente colto, ma generoso, Jimmy Carter era stato ingegnere sommergibilista nella Seconda Guerra Mondiale. E dai primi anni Sessanta si occupò dell’azienda di famiglia, una piantagione di noccioline nella sua Georgia, inizio e fine di tutta la sua epopea. Governatore dello Stato prima di arrivare alla Casa Bianca, molti erano entusiasti di questo cinquantenne semi-sconosciuto che batteva il semi-sconosciuto Gerald Ford, presidente “per caso” succeduto a Richard Nixon, dimessosi per lo scandalo Watergate. Nella sua prima campagna elettorale, Carter usava torni anti-Washington – il che risultò appealing per alcuni elettori del Partito Repubblicano. Rispettavo molto Ford, per la sua integrità e la sua conoscenza del governo e agenzie federali, scrisse nell’autobiografia A Full Life. Il suo discorso d’insediamento fu uno dei più brevi di tutti. Ringraziò il predecessore per aver “guarito” l’America post-Watergate e avviò la sua presidenza con ottimismo e speranza.
L’amicizia con Ford si estese anche alle rispettive famiglie. Il trentottesimo presidente statunitense chiese proprio al suo successore di fare il discorso funebre. Tra i provvedimenti dell’amministrazione Carter più apprezzati dai giovani ci fu il pardon per chi aveva eluso la chiamata alla leva del Vietnam. La sua amministrazione poi si occupò della questione degli ebrei siriani nel 1977 sotto il governo di Hafez al-Assad, dei Panama Canal Treaties nel 1977, del post-détente con la Cina. Per rispondere all’invasione sovietica in Afghanistan nel 1979 aveva imposto il boicottaggio delle Olimpiadi del 1980 a Mosca e un embargo sul grano americano esportato in URSS, cosa che fece male più ai contadini americani che ai sovietici. Successo invece a Cuba, con il rilascio di 3.600 prigionieri politici nel 1978. Poi il lancio di Voyager I. La sua amministrazione tagliò gli aiuti economici ai regimi di Argentina, Cile e Nicaragua.
Impose le uniche sanzioni prima della fine della Guerra Fredda dall’ONU al Sudafrica. Il più grande successo furono gli accordi di Camp David nel 1978 tra Menachem Begin e Anwar Sadat. Poi il 1979: il più stressante e spiacevole, scrisse Carter. L’Iran fu il suo più grande incubo. 52 ostaggi americani rimasero bloccati a Teheran per 444 giorni. La rivoluzione khomeinista scatenò una crisi economica del petrolio e politica. Disoccupazione oltre il dieci per cento; l’inflazione arrivò al ventuno per cento in America. Il Pentagono cercò di liberare gli ostaggi, ma invano. Quella iraniana fu una disfatta totale. Alla fine del suo unico mandato presidenziale, l’indice di gradimento era dimezzato: dal 66 al 34 per cento. Le condizioni economiche tragiche e l’immagine di un’America debole e incapace pesarono al momento alle elezioni del 1980, quando Ronald Reagan ebbe la meglio su Carter.
Fu il rivale repubblicano – che nelle sue memorie Carter non cita o quasi – che il giorno della sua inaugurazione raccolse il dividendo del rilascio da parte degli ayatollah. Sconfitto alle urne, Carter scomparve. Ritornato in Georgia, molti atenei gli offrirono una cattedra, ma lui preferì viaggiare il mondo. Visitò, con la moglie Rosalynn Carter (scomparsa nel 2023) 140 paesi. Negli oltre quarant’anni dopo la presidenza, Jimmy Carter non ha mai fatto campagne elettorali per i candidati democratici. Si dedicò anzi ad un intenso impegno civile e umanitario senza precedenti per un ex presidente – il che dimostra che si può fare politica anche “fuori” dalla politica. Enfatizzò due elementi che avrebbero guidato la sua post-presidenza: rispetto dei diritti umani e promozione della pace. Il Carter Center che ha fondato opera proprio in questo settore. Nel 2002 ricevette il Nobel per la Pace. La presidenza di Jimmy Carter insegna tre cose.
Primo, che essere giovani non è garanzia di successo o di attrattività in politica. Secondo, che si può fare politica senza ricorrere al metodo populista. Terzo, che se un presidente non è un leader carismatico, non godrà di particolare successo. C’è però un’ultima lezione che Jimmy Carter ci lascia. Il fatto che alcune battaglie – pensiamo a quelle sull’ambiente e sui diritti umani – magari al momento in cui vengono formulate non hanno molto successo. Hanno bisogno di un tempo per entrare nelle menti e nei cuori dei cittadini. Allora può dire che il leader è stato un visionario. Jimmy Carter è stato rappresentato spesso come un uomo di buoni sentimenti e buone intenzioni. Sul disco nella sonda Voyager c’è incisa sua voce. Con visione e speranza, nella registrazione il presidente parlava di fratellanza e diritti umani. Chissà se qualcuno, nello spazio, ascolterà mai di nuovo quel disco.
Amedeo Gasparini