Sono passati cinquant’anni dalla scomparsa dello scrittore, giornalista e viaggiatore Guido Piovene. Intellettuale curioso e aperto al mondo, sempre alla ricerca di nuove esperienze e prospettive, oggi si può dire che è dimenticato e rientra, ahinoi, nella categoria degli scrittori minori, nonostante il premio Strega nel 1970 per Le stelle fredde. Piovene ha anche scritto saggi ed elzeviri, rivelando una vasta gamma di interessi letterari e culturali. Originario della nobilità vicentina, conseguì una laurea in filosofia alla Statale di Milano, dove conobbe Eugenio Colorni. Fin dalla giovane età – quando aderì al Fascismo – dimostrò un interesse vivace per la letteratura e la scrittura, sviluppando una spiccata passione per l’esplorazione e il viaggio. Iniziò la sua collaborazione con Pegaso e Pan, due riviste dirette da Ugo Ojetti. Inviato per L’Ambrosiano in Germania, passò al Corriere della Sera, per cui fu il corrispondente prima da Londra e poi da Parigi.
Grande amico di Dino Buzzati, Orio Vergani e Indro Montanelli – colleghi al Corriere – avrebbe collaborato con Telesio Interlandi – il che gli costò l’amicizia con Colorni. Inviato negli Stati Uniti e a Mosca negli anni Trenta, la seconda vita di Piovene iniziò dopo la guerra e le epurazioni nella stampa compromessa con il regime fascista. Per Montanelli – che lo coinvolse nel suo Giornale Nuovo nel 1974, anno della sua morte a Londra in una clinica neurologica a sessantasette anni – Viaggio in Italia «dovrebbe essere testo d’obbligo nelle scuole italiane, tali sono la profondità e la nitidezza della sua sonda nelle pieghe e nelle piaghe del nostro Paese». A livello politico, il testo più interessante di Piovene è La coda di paglia. Qui l’autore esplora il suo rapporto con la dittatura ed è uno dei pochi a fare autocritica. Il che denota la sua onestà intellettuale – merce rara, allora come oggi.
«Ho la coda di paglia. E non mi è possibile distruggerla e sono costretto a tenerla». Forse l’autore è molto più severo rispetto alle sue responsabilità effettive. In quasi seicento pagine Guido Piovene riflette sulle questioni importanti degli anni Cinquanta e Sessanta. Tra reportage e riflessioni, piccoli saggi e articoli, lo scrittore dimostra lucidità e limpidità di pensiero nei pezzi pubblicati su Epoca, l’Espresso a La Stampa. Ma dimostra anche coraggio nell’approcciare le tematiche scomode che riguardano la sua biografia. Nel volume riserva diversi pensieri al mestiere di scrittore – «una cavia delle malattie del secolo, e non può nemmeno capirle». Dice che Fascismo e razzismo vivono ancora sotto nuove maschere. Non accusa gli anziani per il loro cattivo esempio e non riesuma gli articoli dimenticati dei coetanei che hanno avuto un trattamento di favore nell’Italia repubblicana, nonostante il loro passato nero.
«La mia famiglia era apolitica e i suoi principi si potevano così riassumere: ognuno pensi come vuole a patto di non compromettere né se stesso né gli altri di non superare i limiti del “comme il faut”». In gioventù Piovene amava leggere filosofia e poesia, critica letteraria e romanzi. La politica inizialmente gli era estranea – definì il qualunquismo come l’anti-religione di oggi, un’interpretazione semplicistica. Una sorta di anticipo del populismo ai giorni nostri. Da giovanissimo non voleva giornalista. «Essere giornalisti mantenere un minimo di riserbo era un’illusione da sciocchi». Ripercorre gli anni del regime. «L’avversione al Fascismo doveva essere dissimulata o travestita all’occorrenza di finto consenso». Col senno del poi, Piovene si rese conto che l’antifascismo era il dovere del tempo e anteporsi alla deriva razzista e antisemita dell’Italia mussoliniana; le definisce “idee cadaveri”. Ma nel volume Piovene scrive di tutto e di tutti.
Dalla politica alla cultura, dal cinema alla società, dalla politica estera alla letteratura. Il personaggio che più emerge non è un italiano, bensì Charles De Gaulle. L’evento più commentato è la guerra di Algeria, ma il rapporto con la Francia è anche fortificato dall’apprezzamento che Guido Piovene aveva per Albert Camus. Poche le opinioni sulla politica italiana corrente. «Detesto le diagnosi negative, generalizzate, sui giovani. Sono sempre parziali e ingiuste e preferisco rivolgerle contro gli anziani. Un anziano non manca contro la gioventù soltanto quando la corrompe o le dà, come dicono, il cattivo esempio. Manca in modo altrettanto grave quando persiste in posizioni invecchiate e inattive, e si rende perciò, di fronte alla gioventù, inutile e inutilizzabile». Eppure, non si lava pilatescamente le mani. «Manca una coscienza pubblica della gravità dei reati contro la collettività. Il concetto italiano del reato è assurdamente privatistico».
Guido Piovene è molto severo nei confronti del giornalismo dei suoi tempi: «Il buon giornalismo non è spettacolo. Deve riferire il vero: deve intendere il vero senso più piatto è più semplice. La più piccola alterazione o invenzione di un fatto non trova in esso la minima giustificazione. Se si aspira una verità più poetica è più complessa, vi sono i racconti e i romanzi. Servirsi del giornale per i loro surrogati spuri è segno di grande miseria». Negli appunti vari egli si occupa anche di libertà – «l’unico mio interesse». E di morale, dell’uomo e della società. Piovene era molto severo nei confronti del popolo italiano. «La società italiana è pigra, tale che bisogna aggredirla con le sue verità e tenerglielo stabilmente davanti agli occhi». E ancora: «Il disamore per lo Stato … La sfiducia, il disprezzo dei cittadini per lo Stato … Questo sentimento perpetuo degli italiani, questo vizio costituzionale».
Piovene cita ed elabora sui grandi scrittori intellettuali del suo tempo, tra cui Ernesto Rossi, Goffredo Parise, Alberto Moravia, Giovanni Arpino, Carlo Levi, Paolo Volponi, Ernesto De Martino, Manlio Cancogni, Giorgio Bassani, Elio Vittorini, Arrigo Benedetti, Vittorio Sereni, Eugenio Montale e Pier Paolo Pasolini. Scrive anche dei mali italiani: dissonanza tra l’amministrazione della giustizia e il sentimento pubblico; distacco tra i cittadini del potere; divorzio tra potere intellettuali. «Tra gli ostacoli alla libertà in Italia sono anche l’ignoranza di tanta parte del suo popolo l’educazione alle idee, il realismo volgare, i pregiudizi, il concetto attardato dell’organismo familiare, la mafia, i delitti d’onore, le leggi che difendere la parte più passiva del sentimento pubblico». A proposito, spiega che «l’intellettuale vero non è un uomo campato per aria, bensì aderente alla realtà che è chiamato a rappresentare». Egli deve «far conoscere gli uomini agli uomini è il suo mestiere».
Amedeo Gasparini