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Dalla sconfitta di ogni alternativa socialista in Europa nasce la crisi della democrazia moderna

9 Novembre 2021

Il 25 dicembre del 1991 la bandiera rossa veniva ammainata dal pennone del Cremlino. Gorbaciov trasferiva i suoi poteri al presidente della Russia, Eltsin, e il giorno seguente il Soviet Supremo avrebbe proclamato lo scioglimento dell’Urss. Era l’ultimo atto di un processo in corso da tempo: già dalla caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, esattamente trentadue anni fa, il campo socialista era andato tangibilmente in pezzi, con le nazioni dell’Est Europa che uscivano una dopo l’altra dal patto di Varsavia e la secessione di numerose repubbliche. Finiva così in maniera ben poco gloriosa un’esperienza che, vista sul piano della storia universale, aveva costituito il primo tentativo di gestione del potere statale da parte delle classi subalterne dopo l’esperienza della Comune di Parigi. E che, con il suo contributo decisivo alla sconfitta del nazifascismo e con il suo supporto al processo di decolonizzazione – ma anche in altre maniere che ci riguardano direttamente, come vedremo – aveva inciso in profondità e in maniera comunque irreversibile nella realtà del XX secolo e più in generale della tarda modernità.

Posso portare a questo proposito un’esperienza personale e diretta, impressa in maniera indelebile nella memoria. Ancora studente universitario, ero andato in URSS proprio nell’estate di quell’anno, al termine di un lunghissimo viaggio in treno dalla Sicilia e dopo aver acquistato tra mille incertezze e paure un biglietto al mercato nero alla stazione di Budapest. Al netto del romanticismo politico giovanile, la sensazione di un crollo imminente e che dunque non rimanesse più molto tempo per vedere in prima persona quel mondo e misurarne la distanza reale dall’Occidente, era ormai diffusa. E in effetti l’impressione nettissima nelle settimane lì trascorse era quella di un impero sull’orlo del disfacimento, nel quale quasi nessuno sembrava più lavorare e la disillusione dilagava, mentre la lunga fila pur ancora presente per entrare al mausoleo di Lenin era composta prevalentemente da turisti stranieri ed era comunque inferiore a quella davanti al McDonald’s della Pushkinskaya. Assieme ai miei compagni, facemmo appena in tempo a ripartire, dopo aver vissuto per un mese in uno studentato di Mosca e poi a Leningrado: a metà agosto, uno sconclusionato tentativo di impedire ciò che era già segnato avrebbe portato al breve arresto di Gorbaciov da parte di un gruppo di dirigenti politici e militari, con notevoli movimenti di truppe e disordini a Mosca.

Si è discusso a lungo, negli anni successivi a questi eventi, se la fine dell’Urss sia stata l’esito di un processo di implosione interna. Certamente da tempo, e cioè dagli anni della stagnazione brezneviana, ogni spinta propulsiva e ogni capacità di mobilitazione ideale si erano esaurite, così che il consenso scemava e il complicato processo di transizione verso una forma di socialismo che non si riducesse al tentativo di tenere insieme uno spazio sconfinato mediante una soffocante centralizzazione e pianificazione non aveva saputo trovare forme adeguate. Mentre il capitalismo era riuscito a mutare le proprie configurazioni nel corso di molti secoli, al socialismo in Europa non è toccata la stessa sorte, e questo nonostante il dolore del negativo provocato dalla sua sperimentazione non fosse per nulla superiore a quello che aveva accompagnato l’affermazione dell’economia privata di mercato. Questa tesi dell’implosione, tuttavia, mi sembra rimuovere strumentalmente la realtà della Guerra Fredda e dunque il fatto che quanto è avvenuto nel 1991 costituisce la sconfitta conclusiva conseguente a un conflitto durissimo che è stato combattuto su piani diversi e intrecciati, da quello militare a quello ideologico-culturale, un conflitto al termine del quale il contendente più debole ha perso.

In ogni caso, la scomparsa del nemico di sistema – dell’Impero del Male, secondo la retorica statunitense – sembrava in quel momento sancire il trionfo definitivo della democrazia ovvero della democrazia nel suo assetto liberale. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, la teoria del totalitarismo, che assimilava il regime comunista a quello nazista individuando in essi un’analoga volontà autoritaria e dirigista di uniformare alle loro ideologie tutti i gangli della vita sociale e di conquistare anche l’anima degli individui, aveva cercato di rimuovere la partecipazione dei comunisti a quella grande rivoluzione democratica internazionale che aveva abbattuto l’hitlerismo. Dall’altra parte, l’esistenza stessa delle “democrazie popolari” a Est testimoniava della persistenza di una lotta attorno al concetto di democrazia che era ancora in corso. Dal 1991 in avanti, invece, non esisterà più alcuna alternativa e la forma liberale sarà considerata anche in ambito storiografico come l’unico e solo paradigma democratico possibile. Anche i movimenti politici di sinistra, del resto, vedevano autolesionisticamente nella fine dell’Urss l’alba di un nuovo mondo infine pacificato e in marcia verso il progresso comune; e persino gran parte dei comunisti occidentali, tramite i loro intellettuali e i loro organi di stampa, invece di rimpiangere la mancata possibilità di un’autoriforma, avevano salutato con entusiasmo nella conclusione della Guerra fredda la fine di un equivoco storico – l’equivoco del comunismo di stampo staliniano – e la possibilità di dare finalmente spazio a una forma più autentica di emancipazione dimostratasi poi del tutto immaginaria.

Erompe a quel punto la globalizzazione capitalistica: l’originario progetto di accerchiamento politico ed economico del blocco socialista, che aveva portato alla costituzione di vaste aree di libero scambio in Occidente e a Oriente, è da quel momento privo di ostacoli e le istituzioni del mercato capitalistico possono diffondersi in tutto il mondo. Talmente cieca e fanatica sarà la fiducia nell’unicità e nella superiorità del modello democratico occidentale che dal 1991 in avanti le grandi potenze vincitrici – e cioè gli Stati Uniti e i loro alleati – cercheranno di uniformare il globo secondo le loro direttrici ideologiche e i loro interessi, attraverso gli organismi internazionali da essi controllati ma senza disdegnare altri mezzi. La teoria dell’esportazione della democrazia non cederà il passo di fronte alle resistenze di Stati e paesi considerati senz’altro arretrati ed essi stessi dittatoriali – relitti di un passato che si ostinava a resistere – e laddove il mondo non si fosse piegato ai nuovi ordinamenti queste potenze non esiteranno a fare ricorso alla guerra: proprio la prima Guerra del Golfo, iniziata nel gennaio del medesimo anno quasi a preludio di quello che sarebbe stato il nuovo ordine mondiale, sarà l’inizio di una catena di conflitti che perdura tuttora e che assume la forma di un vero e proprio progetto di ricolonizzazione della Terra. Ancora di più, la sconfitta del comunismo segnerà via via l’affermazione di una vera e propria religione liberale, che con la dottrina della fine della storia sancirà l’impossibilità di concepire un ordine politico, economico e sociale diverso da quello occidentale e con la sua dottrina aggressiva del dirittumanismo fornirà una versione astratta e immediata di universalismo, foriera di nuovi sanguinosi conflitti sulla scena internazionale e di profonde divisioni anche all’interno delle stesse nazioni occidentali attraversate dai flussi migratori.

Non è il caso qui di ricostruire come molte di queste illusioni siano fallite: di come la storia sia andata avanti e di come proprio l’arroganza imperiale dell’Occidente abbia pian piano preparato gli scenari per nuove conflittualità globali, che speriamo non superino nuovamente il livello di guardia (mi riferisco in primo luogo all’incapacità dell’Occidente di accettare la crescita della Cina e ai rischi bellici che questo atteggiamento sta preparando). Mi interessa in conclusione un altro aspetto di questa vicenda, che raramente viene preso in considerazione ma che rimane centrale, nonostante la sua apparente provocatorietà: il crollo del socialismo in Europa non solo non avrebbe aperto una nuova epoca di pace globale ma è stato anche la premessa della crisi strutturale della democrazia moderna, ovvero l’antefatto di quel suo esaurimento che stiamo oggi vivendo. La fine dell’Urss provoca infatti nel medio periodo un cataclisma politico anche in Occidente e retroagisce in maniera massiccia sullo stato di salute delle istituzioni e delle relazioni sociali nei paesi capitalistici, perché contribuisce ad alterare drasticamente i rapporti di forza sociali al loro interno.

Paradossalmente, la presenza di un’alternativa integrale di sistema aveva favorito l’affermazione della democrazia e la trasformazione in chiave democratica del liberalismo. Da un lato, rafforzava la consapevolezza delle classi subalterne dando loro un’identità e un mito di mobilitazione che le rendeva capaci di confliggere in maniera compatta in nome di un ideale e di difendere i loro interessi e diritti. Dall’altro, aveva funzionato come un deterrente che aveva costretto i regimi capitalistici a dotarsi di efficienti sistemi di Welfare e di protezione del lavoro, al fine di redistribuire almeno una parte delle risorse (ricchezza, potere, riconoscimento), favorire la diffusione del benessere e prevenire in tal modo ogni proposito rivoluzionario. Scuola pubblica, sanità pubblica, pensioni pubbliche, imposta progressiva, suffragio universale integrale: queste conquiste che speriamo siano almeno in parte irreversibili sono in qualche modo anche figlie della Guerra fredda. Non a caso, nel momento in cui l’alternativa socialista ha cessato di esistere, ormai privo di avversari strategici, il liberalismo non ha avuto più bisogno di scendere a compromessi ed è iniziato il ciclo neoliberale, con la frantumazione delle classi subalterne, lo sconvolgimento postfordista del mercato del lavoro, il dilagare della precarizzazione dei processi produttivi e delle stesse vite umane, la colonizzazione intensiva delle esistenze, la sperimentazione di forme neobonapartiste di potere politico, l’emergere di forme di coscienza postmoderne all’insegna dell’individualismo più competitivo. Ne è risultata la fine della democrazia moderna – la cui parabola storica è stata assai breve – e l’emergere di regimi sì formalmente democratici ma ben diversi, regimi che rispecchiano rapporti di forza estremamente squilibrati nei quali il conflitto politico-sociale viene esercitato unicamente dall’alto senza alcuna capacità di resistenza o controffensiva popolare.

Il crollo del campo socialista prepara dunque la successiva dissoluzione di quelle forme di convivenza civile alle quali siamo stati abituati anche noi fino a qualche decennio fa. Il regime democratico permane ma è ormai molto diverso da quello al quale eravamo affezionati, avendo obliterato ogni differenza reale tra le opzioni disponibili sul “mercato della politica” (monopartitismo competitivo: i partiti politici di massa sono dissolti e ridotti a correnti di un unico largo partito liberale) e avendo disinnescato ogni possibilità di auto-organizzazione degli interessi dei ceti subalterni come ogni loro reale possibilità di partecipazione attiva alla vita pubblica.

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Foto di Rob DiCaterino da Flickr

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