Il PIL è una delle grandezze più usate nelle scienze economiche per descrivere la “ricchezza” di un luogo e la capacità dei suoi cittadini di produrre valore aggiunto. Negli ultimi anni è stata messa in dubbio la sua utilità e parte dell’opinione pubblica si è arresa ad una “decrescita felice”. Un tentativo goffo di nascondere la propria incapacità di crescere?
Da decenni una parte ormai maggioritaria dell’opinione pubblica e della classe dirigente occidentale è convinta che il capitalismo sia fallito, che la ricchezza si stia riducendo e che sia necessario pensare a un nuovo modo di programmare l’economia e la società. In questo senso si è deciso di dare sempre meno importanza a grandezze come il PIL, dedicando la propria attenzione ad altre variabili economiche, come l’occupazione e il coefficiente di Gini. Ferma restando l’importanza di queste variabili nel loro insieme per meglio analizzare l’economia di un paese e tentare di risolverne i problemi, è la volontà di togliere la crescita del PIL dai propri obiettivi a destare la mia preoccupazione.
Il PIL, acronimo di Prodotto Interno Lordo (in inglese GDP, Gross Domestic Production), è una grandezza macroeconomica che può essere considerata come la somma del valore aggiunto nell’economia o la somma dei redditi dell’economia in un dato periodo di tempo. Per rendere possibili dei confronti guarderemo ai PIL per capita (PIL/popolazione) in termini reali, cioè eliminando l’effetto della variazione dei prezzi nel tempo (inflazione).
I tentativi di mettere nel ripostiglio questa grandezza come indicatore dello sviluppo di una società e del suo benessere risalgono al secolo scorso. Fu Robert Kennedy, in un celebre discorso tenuto nel 1968, ad affermare che il Pil “misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”, facendo notare che questa grandezza comprende anche “l’economia negativa”, come l’industria del petrolio e delle armi. Queste parole ricolme di retorica sono tornante di moda durante gli ultimi anni tra le fila di una classe dirigente pronta ad affermare qualsiasi falsità pur di guadagnare qualche consenso (rispettando perfettamente le ipotesi della public choice theory).
E’ a partire dagli anni 90 che un gruppo di economisti rinomati, tra cui troviamo il premio Nobel Amartya Sen, introduce un nuovo indice per misurare il grado di benessere in una comunità. Lo Human Development Index (HDI), calcolato e pubblicato ogni anno in un report dalle Nazioni Unite, prende in considerazione non solo la ricchezza di un paese, ma anche l’educazione e l’aspettativa di vita. Un indice molto interessante ed efficace, soprattutto comunicativamente, che risulta banale usato come prova provata della disutilità del Pil; tale considerazione non è frutto di qualche bias, ma di un’analisi dei dati.

Come possiamo notare, vi è una correlazione positiva molto forte fra le due variabili; in parole povere, a un Pil per capita alto corrisponde un HDI alto, seppur non in modo lineare. E’ ancor più evidente che siano proprio i paesi più poveri ad aver maggior bisogno di una crescita della propria ricchezza. Volendo trovare una spiegazione, tanto ovvia quanto banale, un paese più povero ha meno risorse a disposizione per investire in istruzione e salute.
Una critica mossa di frequente ai “cattivi capitalisti” che vogliono far crescere l’economia a discapito dei poveri, è quella di non tener conto delle disuguaglianze nei propri modelli (punto di forza dell’economista Piketty, i cui errori sono spiegati dal buon Matteo Fatale). Uno degli indici più citati in tal proposito è quello di Gini, un rapporto di concentrazione che viene usato per misurare le disuguaglianze nella distribuzione dei redditi. Il rapporto assume un valore uguale a 0 quando tutti i redditi nella distribuzione sono equamente distribuiti e assume il valore 1 quando tutti i redditi sono nulli ad eccezione di un solo reddito uguale al totale dei redditi della distribuzione.
In breve, più l’indice di Gini è vicino a 1 più il reddito è distribuito in modo diseguale. Al netto delle sue criticità, l’indice di Gini è utile per comprendere la distribuzione della ricchezza in un dato paese. Vorrei però far notare ai detrattori del Pil che è errato associare i paesi più ricchi ad una diseguale distribuzione della ricchezza, perché esiste una correlazione negativa tra PIL per capita e indice di Gini. La correlazione è molto più debole di quella vista in precedenza, soprattutto tra i paesi del continente africano, ma risulta comunque errato ritenere siano i paesi più ricchi ad avere una maggiore concentrazione della ricchezza.
Sono tante le false credenze sulla crescita economica, come il suo rapporto negativo con l’ambiente circostante e con la “life satisfaction” di chi quella crescita la produce. I goffi tentativi di mettere il PIL nel ripostiglio si scontrano con la realtà, la quale ci mostra un mondo si con molti problemi, ma non certo legati alla crescita economica. Che lo vogliano o meno, i sostenitori della decrescita felice e gli “anti-capitalisti” dovrebbero ammettere a se stessi che senza crescita il mondo sarebbe più povero, e un mondo più povero è un mondo meno umano, meno eguale e meno felice.