Anche se la recessione generalizzata causata dalla diffusione della pandemia che si prospetta nelle maggiori economie avanzate è uno shock esogeno, inaspettato e, come tale, indipendente dalle variabili che caratterizzano il contesto socio-economico ed istituzionale, non si può dire lo stesso per le crisi che, a partire dalla fine degli anni ’80, si sono abbattute con frequenza crescente sul sistema capitalistico globale.
Crisi passate e crisi attuale: un confronto
Ciò che distingue le crisi del passato dalla crisi che ci investirà nei prossimi mesi non sono di certo gli effetti socio-economici. Infatti essi, sebbene si presentino con intensità differente, sono molto simili in tutte le crisi economiche: un qualche fattore porta alla contrazione della produzione e da qui la crisi economica, attraverso i canali dell’incremento della disoccupazione e dell’impoverimento (più o meno) generalizzato, si trasforma in crisi sociale. Possiamo invece operare la suddetta distinzione sulla base di quei fattori che portano al crollo della produzione e che generano quella catena di fenomeni descritti poco fa.
La crisi attuale deriva da uno shock esogeno fuori dal controllo delle istituzioni democratiche: la pandemia ha costretto a misure straordinarie di contenimento che hanno limitato l’economia sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta. Essa ha quindi inizio da un fenomeno che intacca direttamente l’economia reale e solo in un secondo momento ha effetti negativi sul versante finanziario.
Tutto ciò non vale per le crisi del recente passato caratterizzate da un rapporto di causalità ribaltato rispetto a quello descritto poc’anzi. Si pensi, per esempio, alla crisi valutaria che colpì la lira italiana nell’estate del 1992 caratterizzata da speculazione finanziaria e fuoriuscita di capitali rapida e disordinata dall’Italia che intaccò solamente in un secondo momento il reddito. Altri esempi sono la Grande recessione del 2008/2009 che si manifestò in un momento iniziale come crisi finanziaria sul mercato immobiliare statunitense oppure la Crisi dell’Eurozona iniziata nel 2010 sul mercato dei titoli sovrani greci con effetto contagio a quelli degli altri Piigs[1]. In questi casi il punto di partenza è stata una crisi finanziaria che solo in un secondo momento ha colpito i mercati reali.
Monetarismo e deregulation: il ritorno del laissez-faire
Secondo uno studio condotto all’economista statunitense Barry Eichengreen nel periodo che va dal 1945 sino al 1971 si sono verificate “solo” 38 crisi finanziarie mentre dal 1973 sino al 1997 ce ne sono state ben 139, di cui 44 hanno colpito paesi avanzati. Diversamente dalla crisi che si sta abbattendo sul mondo in questi mesi, le crisi con matrice finanziaria del passato recente possono almeno in parte essere attribuite a variabili istituzionali e, in questo senso, alcuni (tra cui lo stesso Eichengreen) indicano un ben preciso colpevole nello spiegare il fatto che le crisi finanziarie dal primo al secondo periodo sono quasi quadruplicate: le liberalizzazioni finanziarie.
Il fenomeno delle liberalizzazioni finanziarie è solo un sottosettore delle ricette di policy che prendono piede all’inizio degli anni ’80 e che possono essere contrassegnate mediante il termine deregulation. In questi anni si assiste al passaggio dal modello keynesiano-welfarista al modello neoliberale. Le teorie e le ricette keynesiane sembrano infatti di poco aiuto ad un’economia che è affetta negli anni ’70 da un nuovo male: la stagflazione (presenza contemporanea di contrazione del reddito e inflazione). Così al di là dell’Atlantico, nell’Università di Chicago, Milton Friedman e i suoi allievi formulano una nuova diagnosi per i malanni dell’economia mondiale: i fallimenti del mercato non sono generati dal mercato stesso ma dall’eccesso di presenza dello stato nell’economia; l’eccesso di spesa pubblica e regolamentazione spiazzano l’iniziativa imprenditoriale privata. È quindi necessario deregolamentare e contenere la spesa pubblica per permettere al mercato di tornare all’equilibrio naturale. La teoria economica neoclassica, che era stata accantonata all’indomani della Grande Depressione del 1929, torna così in voga e viene rinominata monetarismo. Cambia l’appellativo ma non la sostanza e si assiste così al ritorno del laissez-faire.
La legge del mercato
Con la controrivoluzione monetarista cambia completamente il paradigma dominante e la nuova ortodossia economica vede nella fede per il mercato autoregolato l’unica garanzia di prosperità. Così la legge del mercato assume nel corso del tempo “rango costituzionale” e, se prima erano gli stati e le istituzioni sociali a governare mercato ed economia, ora è il mercato a governare gli stati. Una “seconda Grande trasformazione” dunque, che ha modificato in profondità i rapporti sociali e gli equilibri tra mercato, stato[2] e società. La legge del mercato non governa solo i fenomeni strettamente economici ma anche altri aspetti della vita umana e della socialità; tutto diventa merce e, come tale, è soggetto alla legge della domanda e dell’offerta.
Anche il lavoro dapprima considerato come fonte di realizzazione personale viene declassato a merce e precarizzato, con conseguenze non banali sul corso della vita umana ed effetti ambigui sulla crescita economica. La flessibilizzazione del mercato del lavoro, considerata da molti riforma strutturale indispensabile e praticata negli ultimi due decenni in diversi Paesi europei, arreca certamente dei vantaggi all’economia soprattutto in termini di competitività con l’estero. Tuttavia, diversi lavori empirici mostrano una relazione negativa tra produttività e flessibilità nel mercato del lavoro: al crescere della flessibilità si riduce la produttività. Le ragioni alla base di questa relazione possono essere spiegate dal fatto che gli aumenti della flessibilità del lavoro sono stati spesso accompagnati anche dalla flessibilità dei salari. Questo ha avuto un impatto negativo, a livello macroeconomico, sulla distribuzione del reddito, sulla quota dei salari su Pil e sulla domanda aggregata in generale[3]. Inoltre, se alla flessibilità si aggiungono scarsi contributi di sicurezza sociale i lavoratori, spesso precari e con basse retribuzioni, tendono ad essere anche meno efficienti, meno motivati e più insoddisfatti.
Fallimento neoclassico e pandemia: verso un nuovo paradigma?
La concezione neoclassica dell’economia e il neoliberismo da essa derivante, come abbiamo visto, postulano l’efficienza dei mercati che, se lasciati liberi di operare, sarebbero in grado di raggiungere l’equilibrio naturale. Tuttavia, la legge del mercato non è riuscita a garantire stabilità economica e ha contribuito a generare, o comunque ad amplificare, le crisi del passato più recente. Come con la stagflazione degli anni ’70 ci troviamo dinnanzi a malattie che l’ortodossia economica non è in grado di spiegare. Quelli che, come Thomas Kuhn, concepiscono la scienza in modo competitivo sanno bene che il progresso scientifico è caratterizzato da salti e discontinuità che fanno sì che si alternino periodi di “scienza normale” – in cui l’ortodossia è in grado di spiegare un numero sempre crescente di fenomeni – e periodi di “rivoluzione scientifica” in cui la scoperta di anomalie che il paradigma prevalente non è in grado di spiegare fanno sì che venga messo in discussione e successivamente sostituito il paradigma stesso. In questo senso, la pandemia e la crisi economica che si prospetta potrebbero avere la forza di mettere ancor più sotto i riflettori le anomalie della teoria economica prevalente così da dare inizio ad una vera e propria “rivoluzione scientifica”.
Dopotutto, da tempo i più critici stanno mettendo in luce aspetti che la teoria economica dominante fatica a spiegare e, soprattutto, stanno disapprovando le ricette di politica economica che derivano da tale impostazione. Se le suddette critiche abbiano veramente l’effetto di innescare un cambio di paradigma non è ancora chiaro ma, di certo, agli osservatori più attenti non sono sfuggiti i segnali delle ultime settimane tra cui la proposta franco-tedesca in merito alla mutualizzazione del debito è il più evidente. Essa rappresenta infatti un primo embrione di una politica di bilancio comune ed è quindi in netto contrasto con gli indirizzi di policy che si sono tenuti, a livello comunitario, nelle crisi del recente passato. Tale proposta può essere paragonata ad un‘ammissione di colpevolezza da parte di uno dei paesi, la Germania, da tempo portavoce di politiche economiche rigoriste. Forse anche negli ambienti politici ed economici di Berlino hanno “aperto gli occhi” capendo che – per dirla come Polanyi – il mercato che si autoregola è pura utopia e che, forse, conviene tornare ad un governo dell’economia che consenta di raggiungere un equilibrio economico e sociale stabile ed inclusivo.
[1] Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna.
[2] Provasi (2019).
[3] P. Tridico (2019).