Éric Zemmour, photo by Michele Ceci

Éric Zemmour, se un polemista reazionario sogna l’Eliseo

12 Novembre 2021

Urticante, divisivo, smaccatamente antipatico: l’editorialista e scrittore, fresco di un fruttuoso ritorno in libreria, aspira – neanche troppo candidamente – a porsi al timone di una scuola ultraconservatrice nata “all’ombra” della dinastia Le Pen. Le prospettive di una sua possibile candidatura alle presidenziali terrorizzano Marine, mentre dalla sinistra promettono una mozione per impedirne l’ascesa politica. E su Twitter già spopola l’hashtag #zemmouroides. L’ufficializzazione? Potrebbe arrivare a giorni. Giovani e anziani già lo acclamano e si mobilitano per lui. A prescindere dalla sua decisione, comunque, Éric Zemmour potrà comunque dire di aver messo a segno una vittoria. Ritratto critico dell’intellettuale “mediatico” che macina ascolti, mobilita (e)lettori e attira detrattori – fra querele e censure – peggio di una calamita.

Lineamenti berberi, capelli brizzolati pettinati sul collo e una vivace abbronzatura: in volto, Éric Zemmour tradisce luminosamente, con i suoi tratti, le sue origini mediterranee. Racconta di aver ritrovato la sua infanzia nel romanzo Il primo uomo, l’ultimo capolavoro di Albert Camus: con il protagonista Jacques Cormery, questo ex ragazzo, poi adottato dalla banlieue parigina, condivide infatti l’appartenenza ai pieds-noirs, i coloni francesi d’Algeria. 

“Per me, la periferia era il paradiso”

A Drancy – non lontano da Parigi – l’intellettuale più discusso di Francia ha trascorso gran parte della sua infanzia. Sui luoghi della residenza Faidherbe in cui visse, egli è tornato in più di un’occasione, soffermandosi soprattutto sulla differenza fra le difficili condizioni odierne del quartiere – popolato quasi solo da sacche d’immigrazione araba – e il pacifico crocevia multietnico di italiani, spagnoli e francesi meno agiati che quella stessa zona aveva ospitato negli anni della sua gioventù. 

Alla volta dell’establishment

A dispetto dell’estrazione non certo fortunata, è il stato il merito a spianare la strada a Zemmour: l’odierno decano dell’estrema destra non viene infatti dalle dignitose “scuole basse”, cosa che sarebbe legittimo attribuire a una voce “anti-establishment”. Diploma di studi politici a SciencesPo, 1979, poi il passaggio all’École Nationale d’Administration di Parigi: una tappa formativa – per giunta mai completamente raggiunta, a seguito dell’insuccesso agli orali di ammissione – nelle stanze accademiche più selettive ed elitarie di Francia, in cui hanno trovato la via i Giscard, gli Chirac, lo stesso Macron. Appartiene a questi anni l’atto di cui il giovane Éric più si pente: il voto al socialista François Mitterrand.

Malgrado gli insigni precedenti, non sarà la funzione pubblica a segnare gli esordi professionali dell’ex banlieusard, ma il giornalismo: dopo aver bazzicato fra i corridoi del Quotidien de Paris e di InfoMatin, è alla corte di Le Figaro, il quotidiano conservatore più reputato al mondo, che il giornalista più celebre di Francia percorre tutte le tappe del suo cursus honorum, lavorandovi stabilmente dal 1996 al settembre di quest’anno e integrando anche collaborazioni per i settimanali Marianne e Valeurs

L’editorialista affermato

Per aspera ad astra, si potrebbe dire: sulle autorevoli pagine di Le Figaro, Zemmour – raccogliendo il testimone da firme quali François Mauriac e Raymond Aron – ha saputo calarsi ottimamente nei panni dell’editorialista, inventando due rubriche molto apprezzate dai lettori, che pure in gran parte non si riconoscono in posizioni generalmente ben più radicali di quelle perseguite dalla linea editoriale del quotidiano. Benché molto stimato dall’attuale direttore Aléxis Brézet, non ha sempre assicurato sonni tranquilli alla redazione. Nel 2010, alcune affermazioni televisive – fra cui “La maggior parte dei trafficanti sono neri e arabi” – gli costarono per esempio un licenziamento disciplinare, culminato in una riassunzione formalizzata in concomitanza con il cambio al vertice in favore di una direzione meno sarkozysta. Accanto all’extrema ratio di tali provvedimenti, non si contano più le circostanze in cui la redazione e la società editrice si sono dovute smarcare da discutibili intemerate zemmouriane.

Una star della televisione

È stato infatti con i libri (L’uomo maschio del 2006 e Il Suicidio francese del 2014) e le prime comparsate televisive che, da semplice giornalista politico di destra quale era, Zemmour ha intravisto e colto l’opportunità di aspirare a incidere ancor di più sugli orientamenti delle masse. Intendiamoci: l’editorialista del quotidiano Le Figaro non appartiene a quella specie di persone che venderebbero la madre per elemosinare uno strapuntino in tv. Esercita da battitore libero, purché gli venga data carta bianca. Criticò aspramente la principale emittente a pagamento francese Canal Plus – al punto tale da liquidarla a “canale di un’élite parigina che disprezza il popolo” – salvo poi cambiare idea una volta saggiato un generosissimo contratto per CNews, piattaforma d’informazione del medesimo gruppo. 

Ovunque metta piede, l’interazione fra il suo eloquio incendiario e la miccia corta del piccolo schermo sembra catturare efficacemente l’attenzione dei telespettatori, oltre a farne un oggetto conteso fra tutti gli editori. Poco importa il rischio quasi certo di esporsi, ospitandolo, al fuoco incrociato dei tribunali e del Consiglio superiore dell’Audiovisivo: se radio e tv vivono di ascolti – preso atto che uno Zemmour all’acqua di rose sarebbe cosa contronatura – ben venga Eric, si dicono i media mogul francesi.

Éric Zemmour, da opinionista in tv…

Davanti ai microfoni, il polemista enfatico che, sulle colonne della stampa, vestiva i panni del colto chroniqueur si trasforma in un sagace showman: un ibrido fra egolatria e ideologia, fra sovranismo identitario e superomismo di rimando. Per due anni, Éric Zemmour è stato alle dipendenze di Vincent Bolloré, il potente editore della scalata a Mediaset, che lo ha custodito gelosamente presso il suo colosso televisivo.

In forza a CNews, all’editorialista sono stati assicurati cinque interventi settimanali di un’ora nell’ambitissimo access prime time. Il tribuno Zemmour, coadiuvato dalla tenace Christine Kelly e da colleghi plaudenti a ogni suo sospiro, ha così condotto la trasmissione Face à l’Info al rango di megafono tv più apprezzato dall’estrema destra francese. L’emittente, prima del suo arrivo, versava in uno stato di morte apparente. Dall’approdo del polemista sulle sue frequenze, detiene il record d’ascolti in quasi tutte le fasce orarie del palinsesto. Un restyling dai costi non propriamente contenuti, viste le cifre da lui pretese: quasi 40 mila euro al mese, stando a Capital, cui vanno sommati i 15 mila incassati per quattro prime serate sul canale cittadino Paris Première, nella trasmissione Zemmour & Naulleau. A cui, a seguito di alcuni contenuti marcatamente islamofobici, il gruppo Ferrero ha deciso di togliere l’inserzione pubblicitaria.

… a maître à penser

Ora, un tratteggio della tattica mediatica e del “sistema Zemmour” non può prescindere da due considerazioni risolutive: in primo luogo, è interessante osservare come, per la prima volta dai tempi dei Sartre, la Francia si trovi a fare i conti con un intellettuale “politico” in grado di contare molto più di qualsiasi politico. I giornali francesi già descrivono la “variante Z” come la più rilevante minaccia per una Marine Le Pen terrorizzata dallo spettro di un’ipotetica partecipazione dell’opinionista alla competizione per l’Eliseo. Secondo Éric Zemmour, infatti, il Rassemblement, sotto Marine, non sarebbe diventato che “un partito di sinistra” consapevole di una sicura sconfitta.

Anche presso le fila dei Républicains (la destra gollista), galvanizzate dall’ottimo risultato alle recenti Regionali, si moltiplicano i fondati sospetti che il principale ostacolo a un possibile accesso al secondo turno del loro candidato possa palesarsi proprio nella suddetta “variante Z”, anziché nell’inesperta rampolla del Rassemblement National. 

La “clava boomerang” della censura

Non meno rilevante, in secundis, la capacità di Éric di mobilitare le masse accanendosi caparbiamente su bersagli facili, appiccando il fuoco sull’irascibilità di avversari che, per come tentano di osteggiarlo, sembrano sempre più spesso ridursi a capricciosi pubescenti mascherati da censori romani, che non a veri duellanti di idee.

Per rilevare i clamorosi fallimenti della “strategia della censura” anti-Zemmour non serve tornare troppo indietro nel tempo: la decurtazione dei tempi televisivi ad personam, decretata dal CSA (Conseil Supérieur de l’Audiovisuel, ovvero il tribunale di vigilanza sull’emittenza radiotelevisiva), lo ha spinto a intraprendere una fitta attività di presentazione del suo ultimo libro La Francia non ha detto la sua ultima parola, situato ancora al secondo posto in tutte le classifiche di vendita nonostante sia uscito da più di un mese. Silurato dal suo predellino serale, il roboante battitore libero riempie le sale anche nei comuni amministrati dalla sinistra, e a chi gli chiede le ragioni del suo ritiro da CNews risponde caricando a coppe contro il CSA.

“Faccio politica, come tanti altri giornalisti” chiosa Zemmour, precisando come la vigilanza radiotelevisiva lo abbia sottoposto a una censura preventiva, in barba al fatto che egli non abbia ancora sciolto la riserva su una propria possibile candidatura. 

“Zemmourizzazione” degli spiriti?

Aprendo i settimanali, è divenuto oramai improbabile non trovare articoli su di lui: L’Express lo ribattezza “il veleno della Repubblica”, Le Monde lo epiteta come un “pericolo per la democrazia”, mentre la rivista sovranista Valeurs actuelles lo insignisce di copertine estasiate con titoli da “uomo dell’anno”: d’altra parte Geoffrey Lejeune, che di Valeurs è il giovanissimo direttore, dichiara di essere stato un fervente lettore di Zemmour e di avere in lui trovato un esempio, un precettore di buon giornalismo, uno spirito guida. Gli ha anche dedicato un pamphlet, dal titolo Zemmour Président. Un’ossessione bulimica, quella dei media nei suoi confronti, forse derivante dal fatto che fra i bersagli più facili delle acide requisitorie del polemista vi sono proprio i suoi colleghi giornalisti.  

Éric Zemmour. Dai settimanali Marianne e L’Express. Photo by Michele Ceci.

Sul suolo catodico dei francesi, la viva voce del Nostro continua a riecheggiare con sempre meno ore a disposizione e, paradossalmente, sempre più ascoltatori interessati. L’unico esponente politico che abbia sinora accettato il confronto con lui è stato il comunista Jean Luc Mélénchon che, in un face à face dagli ascolti astronomici, lo ha accusato di “contaminare il dibattito pubblico”. Servendo così un assist sul piatto d’argento al suo avversario – con cui si vocifera intrattenga anche rapporti personali di reciproca amicizia –  che peraltro di argenteria dovrebbe intendersi: Zemmour, infatti, giusto per non concedersi mai troppo all’euforia populista, si vanta nel suo ultimo libro di cenare regolarmente nei migliori ristoranti di Parigi con editori, politici e uomini di alto profilo. 

Il poker d’assi del “colto sovranista”

Mélénchon, come Marine Le Pen e come tutti i rappresentanti politici odierni, è un figlio adottivo della peggiore cultura politicista: gioca in uno schema preconfezionato, con avversari amorfi o debolissimi. L’autore de il Suicidio Francese ha invece dedicato, per lunghi anni, la sua rubrica sul Figaro alla critica letteraria, affiancando, all’attività di prolifico prosatore, anche le buone abitudini del lettore vorace. Le punte di diamante del giornalismo francese, da Alain Duhamel a Nicholas Domenach, non riescono a non riconoscergli una certa arguzia e una lucida preparazione.

Dinanzi ai propri interlocutori, Éric Zemmour squaderna sovente letture d’élite che sarebbe impietoso esigere da qualsivoglia uomo di popolo. Da quale comune politicante avreste il coraggio di pretendere la conoscenza perfetta dell’Histoire de France di Jacques Bainville o dell’intera produzione di Honoré De Balzac? In questo, il paragone fra Zemmour e Trump, non esattamente un uomo di cultura, crolla definitivamente.

Nazionalismo romantico ex post?

Molto dicono delle sue idee, a questo proposito, i suoi gusti letterari. Zemmour non ama, pur avendo “letto con piacere tutta la sua produzione politica, Victor Hugo, che accusa deliberatamente di aver sdoganato in Francia una “cultura permissivista” e “della vittimizzazione”. Nel saggio Destin Français, l’editorialista fustiga senza ritegno l’attivismo abolizionista dell’autore dei Miserabili, dicendosi poi “filosoficamente favorevole” alla pena capitale.

Ama invece alla follia René de Chateaubriand, romanziere preromantico, cattolicissimo e molto conservatore. Contestualmente, mostra una certa stima per alcuni vecchi socialisti, intimamente legati alla causa patriottica, fra cui Jean Jaurès. In sostanza, però, la sua avversione alla sinistra trova infatti le proprie ragioni storiche in un ragionamento sovranista, etnocentrico, improbabilmente anacronistico sulla concezione nazionale. Benché, in ossequio allo smodato egotismo che lo contraddistingue, sia arrivato a paragonarsi a Napoleone e a De Gaulle, Éric Zemmour sembra quasi voler dare l’impressione di non credere realmente al trittico valoriale rivoluzionario di Liberté, Égalité, Fraternité

“Per me, l’identità francese è doppiamente romanistica: il vaticano, il cattolicesimo, ma anche il genio francese di unificare le popolazioni europee ch’erano state aggregate sotto l’impero romano. L’ultimo ad aver compiuto un’opera simile è stato Napoleone.”

“Ritengo che l’Italia del Nord avrebbe dovuto essere francese. Non v’è differenza fra Milano e Nizza: lo stesso popolo, le stesse architetture, lo stesso spirito.”

Éric Zemmour, editoriali su Radio RTL, 10 settembre 2018 e CNews, 5 luglio 2021

Il Suicidio Francese e la morte del “maschio”

Al fine di delineare più chiaramente le posizioni di questo dinamitardo intellettuale nazionalista, vale la pena di ricordare che, benché l’individuazione di un modello in capo a De Gaulle sia consensualmente remunerativa, l’Éric-pensiero si spinge ben oltre il lascito politico del Generale. Le pagine dei suoi libri, quasi in preda a deliri d’onnipotenza, sembrano spesso pervase da ossessivi motivi d’indignazione: su tutti, lo stato di declino della società occidentale, da ascriversi a vari fenomeni, fra cui una presunta “femminilizzazione” della società. 

A cosa somiglia l’uomo moderno? Si depila. Compra cosmetici. Indossa gioielli. Sogna l’amore eterno. Crede fermamente nei valori femminili. Preferisce il compromesso all’autorità e favorisce il dialogo, la tolleranza, piuttosto che la lotta. Ha deposto le armi. L’uomo ideale è una donna.

Abbiamo un cervello arcaico, rettile. A volerlo negare, creiamo generazioni di impotenti, di omosessuali e di divorziati.

da L’Uomo Maschio (Le Premier Sexe)

Parole, queste ultime, di fronte alle quali pare difficile celare la benché minima inquietudine: qui, tuttavia, ricade la lente analitica del presente articolo. Cavalcando una scomposta distorsione del pensiero nietzschiano, Zemmour denuncia nel maschio la morte delle pulsioni virili, guerriere e violente e, al contempo, la dissoluzione delle strutture gerarchiche del patriarcato (lo Stato, la Scuola, la Famiglia), innestatasi progressivamente a cominciare dalla decisiva spinta del Sessantotto.

James Bond, “scomparso” la settimana scorsa, rappresentava l’eroe di un’epoca in cui un seduttore, “un uomo che ama le donne”, non era trattato al rango di un potente stupratore. Un’epoca in cui la virilità non era denigrata, ostracizzata, penalizzata.                           

La Chronique d’Eric Zemmour, sulla morte di Sean Connery                                                                          Le Figaro Magazine, 6 novembre 2020

Il pensiero dominante

Matrice della “decostruzione” sarebbe, in relazione alla teoria zemmouriana, un pensiero dominante nichilista, multiculturale e antirazzista, teso a trasformare l’uomo moderno in un atomo “emancipato” ma apolide, a uso e consumo di un mercato. La decadenza dell’Occidente sarebbe poi da imputare a élite rinunciatarie, impotenti e suddite delle minoranze, cui avrebbero lasciato il pieno controllo delle funzioni pubbliche, innescando così una molteplice catena di fenomeni sociali: l’islamizzazione, l’immigrazione incontrollata e lo smembramento del patrimonio genetico delle Nazioni. Fine ultimo del progetto? La destituzione sistematica della sovranità popolare a beneficio di pochi eletti. Il ruolo della globalizzazione nel ventunesimo secolo, in ultima analisi, non sarebbe in fondo troppo diverso da quello assunto dal totalitarismo nel ventesimo: una fede messianica nel progresso, nel quadro di un’iniziativa volta a soppiantare il “passato arcaico”.  

Ai lettori più avveduti verrà da chiedersi come attenga una filosofia del genere, ampiamente sviluppata nei sulfurei bestseller L’uomo maschio e Il Suicidio Francese, alle istanze perseguite dal movimento repubblicano e gollista. Il soggetto del nostro ritratto risponderebbe probabilmente assumendo di “ragionare in funzione della storia”

Tra vichysmo e gollismo

Il generale Pétain, convinto sostenitore di Hitler. Photo by Paille from Flickr

Sarà, ma la maggior parte delle posizioni di Éric Zemmour collide esplicitamente con la realtà storica delle cose. L’uomo della “provoc” rifiuta categoricamente ogni domanda sulle parole con cui, in passato, riabilitò per esempio ampie frazioni dell’operato del regime collaborazionista di Vichy, guidato dal generale Henri Philippe Pétain. Con un sostegno spiccato alla teoria secondo cui quest’ultimo avrebbe contribuito a salvare numerosi ebrei francesi consegnando alla Gestapo più membri della comunità giudaica straniera residenti nei confini franco-algerini, Zemmour ha irritato non poco la comunità ebraica francese.

Nel suo ultimo libro, inoltre, lo scrittore ha anche pensato bene di rigirare il coltello nella piaga, rievocando un attentato a una scuola giudaica di Tolosa, perpetrato nel 2012 da un islamista psichiatricamente compromesso.

Criticando la scelta del padre delle tre vittime di inumare i figli in Israele anziché in Francia, ha paragonato la decisione in questione alle sorti dell’attentatore Mohammed Merah, seppellito in Algeria dopo il suicidio per volontà della famiglia. Un’invettiva ripugnante, condotta in una poco amabile commistione fra l’effetto delle parole e quello dell’acquaragia, ma tant’è. 

L’ebreo che seduce gli antisemiti

Corre l’obbligo di svelare un piccolo particolare: ancorché non praticante, Zemmour è di confessione ebraica. Tuttavia, egli glissa con voluta indifferenza sulla questione sionista, considerandosi prima di tutto “un cittadino francese” e ribadendo la necessità  di “ricordare come gli ebrei vittime di antisemitismo non siano stati massacrati, negli anni recenti, al grido di Heil Hitler ma a quello di Allah Akhbar”. “Di Israele, se ne frega” dice un suo collaboratore a Marianne

Una posizione codarda – quest’ultima – seppur funzionale alla partita mediatica e politica del personaggio. Non da ultimo, vanno ricordati gli analoghi interventi su una presunta ritrattazione del caso Dreyfus, materia storica delicatissima da lui maneggiata con la vanga e il badile. Interpellato sulla questione, il polemista si è lanciato a razzo in un’apologia a spada tratta dell’antisemitismo old school professato dal nazionalista Maurras e dall’Action Française, l’associazione revanscista e reazionaria in cui militarono non solo l’amato Bainville, ma anche Robert Brasillach, lo scrittore vichysta fucilato malgrado gli appelli alla grazia di molti intellettuali orientati a sinistra. A decretare per lui la pena di morte, fu l’inflessibile De Gaulle in persona. Proprio quel Generale, simbolo della Liberazione, che oggi Zemmour si diletta a idolatrare. 

La tenaglia identitaria

Raphael Enthöven illustra con chiarezza come Zemmour ami imbrigliare l’opinione pubblica francese in una “tenaglia identitaria”. Le taglienti requisitorie xenofobiche da lui proferite durante le numerose comparsate televisive ne hanno anche fatto un boccone per la giustizia, ma la cosa non sembra interessare troppo i suoi turiferari.

Non si contano più le condanne: dopo esser stato perseguito per aver affermato “il diritto a non assumere arabi e neri in quanto tali”, e aver partorito esternazioni quali “Ai musulmani dovrebbe essere imposto l’obbligo di scegliere fra l’Islam e la Francia”, è attualmente indagato per l’uscita che segue: 

“Non c’è via di mezzo, è necessario ribaltare il banco. Bisogna che i minori, così come tutti i migranti, non mettano più piede qui. Non hanno niente da fare qui: i profughi minorenni sono ladri, stupratori, assassini! Bisogna rispedirli tutti a casa loro! Tutti, Christine, tutti!”

Éric Zemmour, editoriale su CNews, 29 settembre 2020

I caustici monologhi contro l’Islam rientrano tutti in una rosa di posizioni in grado di incutere timore finanche nei più ferrei occidentalisti. Gran parte delle sue proposte virulente sganciano molotov corrosive nel dibattito pubblico, aprendo una sorta di gara all’indignato speciale ma andando poi a sciogliersi nel folklore proprio a motivo della loro assoluta improponibilità: a questo proposito, hanno destato scalpore la messa al bando dei nomi di origine araba e la soppressione delle misure di solidarietà nazionale e dell’accesso al welfare per chi non detiene la cittadinanza francese (per far fronte agli aumenti del debito pubblico).

Éric Zemmour, vittima o peccatore ?

A seguito di ripetuti richiami all’ordine, le arringhe finite nel mirino delle proteste hanno indotto, nel 2019, anche l’emittente radiofonica RTL a fermare la tribuna mattutina di Zemmour, che poco dopo è anche stato rincorso in strada e aggredito da un ragazzino di religione islamica, poi fermato e sanzionato. 

“Non c’è differenza, allo stato attuale, fra islamismo e Islam. Quelli che chiamiamo islamisti non sono che musulmani praticanti. L’Islam non è una religione, è un ordinamento giuridico, il cui documento programmatico invita a sgozzare cristiani ed ebrei. Il termine Daesh designa uno Stato teocratico, uno Stato islamico.”

Éric Zemmour, rubrica 6 minutes pour trancher, radio RTL, 7 settembre 2016

Ogni colorita sparata risponde, quindi, all’esigenza prioritaria di porre dei freni a quella che – secondo Zemmour – costituirebbe la peggior minaccia per la tenuta della società moderna: l’immigrazione. Che nel mirino della sua idiosincrasia al vetriolo finiscano la “sistematica remissione alla linea ideologica” delle istituzioni giudiziarie europee, il sistema “woke” o la “xenofilia” diffusa, poco conta. L’antica filosofia “o con me, o contro di me” rivive lesta nella retorica zelante e acre di un fomentatore di professione mal disposto a definirsi fascista, ma contemporaneamente impegnato in prima linea per l’abrogazione della legge Gayssot contro il negazionismo. 

Poco male, dirà chi conosce già quest’individuo: cosa aspettarsi da un aperto fiancheggiatore della tesi della “grande sostituzione” etnica degli occidentali?

Un “gaullo-bonapartista” ?

La rubrica di Éric Zemmour. Le Figaro del 15 ottobre 2020. Photo by Michele Ceci.

In tutto questo, l’oramai ex giornalista ancor si fregia di essere l’unico “erede vero del Raggruppamento per la Repubblica e del Generale De Gaulle”. È un dato d’ordinaria esperienza che i politici non sappiano prendere le misure all’ego. Tuttavia, il primo impatto con frasi del genere fa sempre un certo effetto. L’eurofobia montante e una stretta amicizia con il patriarca neofascista Jean Marie Le Pen sarebbero divenuti canoni indefettibili del buon gollista moderno: mala tempora currunt, direbbe Cicerone. 

“Se vogliamo diventare una grande Baviera in un impero euro-teutonico, possiamo continuare a stare in Europa. La macchina europea ci sta progressivamente triturando.”

“Emmanuel Macron è l’uomo della gioconda mondializzazione. Il suo obiettivo è dissolvere la Francia nell’Unione Europea e nell’Africa. Io ancora spero in una Francia francese.”

Éric Zemmour, interventi a radio RTL e Europe1, 12 dicembre 2014 e 6 ottobre 2021

Volendo fargli un complimento, gli si potrebbero affibbiare il culto di sé di Stendhal, le idee di Napoleone e la presa retorica del vecchio Charles.

Un “gollista di comodo”

Charles de Gaulle with Cambodia Queen mother, Photo by manhhai from Flickr

Poiché alcune affinità fra parte dell’eredità storica di Charles De Gaulle e il nazionalismo di scuola Zemmour restano indubitabili, più calzante e sincera risulta l’etichetta di “gollista di comodo”. Facile, dal suo punto di vista, spolverare con entusiasmo i bagni di sangue ordinati dal prefetto gollista Papon ai danni degli indipendentisti algerini. Un po’ più complesso sarebbe invece fare i conti con quel “volto” del gollismo che, razionalmente, avviò l’uscita dal processo coloniale e introdusse alcuni passi avanti sui diritti della donna (fra cui la legge Neuwirth).

Sicuramente, da De Gaulle, Éric Zemmour mutua la propensione interventista: rinvigorire la filiera industriale pubblica senza uscire dal grande Mercato Comune, “uno dei pochi vantaggi dell’Unione Europea”, sarebbe la sua intenzione primaria. “Je ne suis pas Lénin”, ci ricorda, tranquillizzandoci.

Mentre la destra repubblicana tuttora fa a pugni con lotte per il potere, macchie sulla coscienza ed errori passati, è anche condannata a sorbirsi le accuse di un pittoresco personaggio che, fra i capitoli del suo eventuale programma politico, annovera fieramente di levare all’Europa i negoziati commerciali e sospendere gli accordi di libero scambio. I presunti successori del Generale non sarebbero secondo lui che “traditori”, “checche” e “notabili centristi”, abili solo nell’intercettazione dei consensi di “borghesi in pensione”. 

Nuovo Poujade” o figliol prodigo di papà Le Pen?

Ecco dunque aprirsi uno spiraglio d’apertura per una possibile ascesa dell’ex giornalista del Figaro. Isolato dalle cerchie in cui ha finora trovato spazio – dal giornale, che lo ha consensualmente congedato su pressioni del CdR, all’editore Albin Michel, da cui è arrivato un secco rifiuto per il suo ultimo libro – Zemmour intravede infatti nella candidatura la possibilità di creare sconquasso negli assetti istituzionali francesi. Qualche osservatore acuto già rivede in lui Pierre Poujade, il pasdaran qualunquista che fece dell’avversione al fisco la prima istanza della sua battaglia. Nel mentre, il Partito Comunista annuncia una mozione per frenare la sua corsa elettorale e, dall’Eliseo, i fedelissimi di Monsieur Macron stentano a celare l’inquietudine. I sondaggi, che accreditano Éric Zemmour al 18-19 % dei consensi se si votasse oggi, fanno il resto del lavoro.

Contrariamente a Marine Le Pen, non uso le parole dell’avversario. La gauche (sinistra, ndr) impone la sua semantica, io la rigetto. Divido, sciocco, ferisco coloro i quali vogliono rimaner feriti.

Éric Zemmour, Grand Jury RTL / Le Figaro, 24 ottobre 2021

L’aspirante candidato

Coadiuvato dalla giovane pupilla Sarah Knafo, la sua consigliera, il dinamitardo nazionalista sembra volersi cimentare in una missione ambiziosa, ma non per questo inverosimile. Già riuscire a condurre nelle urne gli (ostentati) applausi e ascolti di questi anni, sarebbe per Zemmour un trionfo. Il “corredo” determinante starebbe però nella mission di catalizzare l’insoddisfazione dell’elettorato conservatore e la frustrazione di classi popolari deluse dal Front National, negli ultimi tempi più simile a un pugile suonato che a un partito organico.

Interpellata su una possibile candidatura dell’ex amico Éric, Marine Le Pen ha più volte titubato, limitandosi ad attacchi contenuti o rispondendo con un certo nervosismo. A esacerbare la tensione intestina, è arrivato anche l’annuncio di suo padre Jean Marie, pronto a perorare pubblicamente l’iniziativa di Zemmour per ripicca nei confronti di sua figlia. 

“Se farò questo passo, non sarà certo per fare politica come tutti gli altri, ovverosia per sottrarre danaro pubblico e distribuirlo ai miei tesserati” tuona rombante l’aspirante candidato, stavolta sì con tono poujadista. Fra i papabili sostenitori, si sono già fatti avanti molti studenti universitari, disponibili a organizzare con mezzi contenuti la campagna elettorale: le telecamere ne hanno anche stanati alcuni intenti ad attaccare per le strade poster non autorizzati con la scritta Zemmour Président Sarebbe già uscito anche un presunto nome per il partito: Vox Populi.

Insomma, tirando le somme: s’adombrano i gauchisti, Éric si pavoneggia e a Marine trema la terra sotto i piedi. Bonne chance, amici francesi: ne avrete bisogno. 

4 Comments LASCIA UN COMMENTO

    • La ringrazio della segnalazione e dei complimenti. In quel passaggio, l’articolo presenta una formula non chiara, che infatti ho provveduto a correggere, seppur in ritardo: Zemmour superò infatti la parte scritta dell’esame di ammissione, ma non ebbe altrettanta fortuna nell’esame orale.

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