Il sociologo Raymond Aron propone, con “L’oppio degli intellettuali”, una pugnace demistificazione delle giustificazioni addotte da una casta di intellò “progressisti” al solo fine di conferire una sorta di “legittimazione” alla “religione secolare” del comunismo. Pubblicato agli albori delle grandi tensioni fra USA e URSS, questo lungo saggio non tradisce che pochissimi segni d’obsolescenza; consegna, invece, un sano esercizio polemico ai maître à penser delle sinistre occidentali, offrendo acute – e sinora inascoltate – critiche a “categorie” discutibili ma tuttora ampiamente usate. Un libro “contro” le sinistre? Tutt’altro: un manifesto “per” le idee, avverso all’egemonia delle ideologie. Riflessioni a metà fra letteratura e politica.
Molti lettori, fra cui anche i meno avvezzi alla filosofia, avranno a mente la celebre frase di Karl Marx “la religione è l’oppio del popolo”. Già dal titolo scelto, si evince facilmente la sottile ironia con la quale Raymond Aron, accademico e giornalista, ha voluto rivoltare come un calzino la massima poc’anzi citata. Il nostro autore, in fase di pubblicazione, non è certo un novizio della scienza politica: dello stesso Marx è uno dei più fini studiosi di Francia – per giunta, uno fra i pochi “neutri” – mentre all’incontro con gli scritti di Max Weber deve l’interesse approfondito per la sociologia politica, che insegna in alcuni prestigiosi atenei d’Oltralpe, dall’École Normale alla Sorbona passando per SciencesPo.
A proposito dell’autore…
Benché una parte della comunità accademica nutra nei suoi confronti un malcelato disprezzo, legato alla sua attività giornalistica e a teorie reputate “di destra”, Raymond Aron merita di essere annoverato, già dai primi anni ’50, fra gli intellettuali più preparati e prolifici del Novecento francese. Scrive pungenti editoriali per i più autorevoli quotidiani parigini, da Combat a Le Figaro, e, per un certo periodo, frequenta anche la rivista filosofica Les Temps Modernes, del cui monarca incontestato, l’autore de La Nausea Jean Paul Sartre, è anche collega in cattedra. Ha inoltre alle spalle alcune pubblicazioni universitarie di rilievo, fra cui l’Introduzione alla filosofia della storia. È nel 1955, tuttavia, la pubblicazione del suo capolavoro, L’Oppio degli intellettuali per l’appunto, a consegnarlo al successo presso una platea massificata, inevitabilmente diviso dinanzi alla portata critica della sua opera.
Una penna sempre e comunque controcorrente

Raymond Aron (Parigi 1905-1983), filosofo, sociologo e giornalista. Direttore del giornale “La France Libre” durante l’occupazione nazista in Francia, fu titolare di prestigiose cattedre di sociologia della cultura ed editorialista di Combat (1946-1947), Le Figaro (1947-1977) e L’Express (1977-1983). Tra il 1969 e il 1972 fu anche cronista politico per l’emittente radiofonica Europe 1. Studioso di politologia, non mancò di trattare tematiche economiche e si distinse anche come teorico delle relazioni internazionali.
L’edizione de L’Oppio degli intellettuali di cui trattiamo è stata pubblicata nel 2017 per l’editore Lindau, con la prefazione di Angelo Panebianco.
Alcune precisazioni, prima di inoltrarci nei contenuti veri e propri del libro: Raymond Aron non era certo l’uomo di destra che una parte dei suoi colleghi era solita etichettare. Nell’introduzione al libro, concepito come prefazione a una raccolta di articoli giornalistici e poi pubblicato in separata sede, egli preferisce definirsi “keynesiano con qualche rimpianto per il liberalismo”. In prima battuta, non nascose le proprie simpatie per l’iniziativa politica del generale De Gaulle, salvo poi distaccarsene radicalmente. Favorevole all’indipendenza dell’Algeria e a un accordo con i nazionalismi marocchino e tunisino, fu però anche un fervente sostenitore dell’Alleanza Atlantica. Lo spirito “controcorrente” e l’avversione alle ideologie esacerbate lo portarono anche fra le file di un allora neonato quotidiano italiano, il Giornale.
Al fondatore di quest’ultimo, il leggendario Indro Montanelli, dobbiamo una delle prime ristampe tradotte dell’Oppio, che in Italia resta, purtroppo, un libro molto di nicchia, seppellito nell’olimpica indifferenza della critica di sinistra e tuttora esposto al rischio di strumentalizzazioni nell’epoca del sovranismo.
IL MITO DELLA SINISTRA
Muovendo da irruente considerazioni tese a smontare i “miti” cavalcati dalla intellighenzia degli anni ’50 (“sinistra”, “rivoluzione” e “proletariato”), Aron si lancia in una scabrosa invettiva contro quella forma ossessiva di “idolatria della storia” abitualmente praticata dai pensatori di sinistra (Sartre su tutti, ma anche Maurice Merleau-Ponty e Simone de Beauvoir) con un solo fine: denunciare la propensione diffusa di insigni cattedratici e scrittori a mostrarsi “indulgenti nei confronti dei grandi crimini, purché perpetrati in nome delle buone dottrine.” Sarebbe dunque perlomeno improprio derubricare L’oppio a manifesto anticomunista: le pagine in questione non si limitano a formulare “giudizi” kantiani sul dogma comunista, mettono a nudo smagliature e debolezze delle tesi di una cerchia di grande impatto culturale – sedotta dall’ideologia marxista – che veste in dolcevita e spopola nei café del bel mondo parigino.
Nel solco della migliore tradizione saggistica, l’intero libro è ricco di quesiti non inevasi, ma posti in modo tale da stimolare le facoltà critiche del lettore. In apertura ve n’è uno, in particolare, che carburano l’intero impianto dell’Oppio: che cos’è, veramente, la sinistra politica?
Il partito del movimento, illusione cieca

Senza qui rievocare le grandi peripezie storiche che hanno fatto da sfondo allo sviluppo del cosiddetto “partito del movimento” in Francia, ci limiteremo a dire che i portabandiera dell’eredità rivoluzionaria non si sono mai formalmente riuniti, se non in rarissime occasioni, in una concreta realtà politica cui corrispondesse un sostrato elettorale, neanche nella comune opposizione a Napoleone III. I rappresentanti del defunto “Terzo Stato” furono infatti uniti sempre e solo a posteriori, nonché costantemente lacerati dalle lotte intestine per l’egemonia nel loro campo (giacobini e montagnardi contro girondini e foglianti, radicali contro socialisti, socialisti contro comunisti).
Questa sinistra dell’ex “Terzo Stato”, di sensibilità borghesi, conobbe solo a stagione repubblicana avviata uno scisma ben più impetuoso delle lotte intestine per il potere: la diffusione delle teorie anticapitaliste e le rivendicazioni del “Quarto Stato”, embrioni della dottrina marxista. La frattura fra borghesia e proletariato raggiunse in pochi anni un’ampiezza incolmabile e la tentata riconciliazione fra i soggetti politici espressione del Terzo e del Quarto Stato trovava una presunta concretizzazione solo nell’avversione al “male”, a tutto ciò che rappresentava il passato, la reazione, il clericalismo. La borghesia di idee radicali e liberali nutriva oramai interessi contrapposti agli operai, riferiti ai partiti socialisti.
Se, tuttavia, obiettivi politici e fini sociali della Rivoluzione (parlamentarismo ed eguaglianza formale, di fronte alla Legge) mostravano piena sintonia fra di loro, ben più remote restavano le ipotesi che, con l’economia collettivista e pianificata rivendicata dalle istanze comuniste, potesse andare a nozze lo Stato liberal-democratico che degli interessi economici borghesi costituiva la proiezione politica.
Lo scarso charme del socialismo non dottrinario
Nelle realtà forti di un retroterra democratico, stabile ed economicamente florido – si veda la Gran Bretagna – il “metodo” laburista si proponeva di integrare le masse senza sacrificare libertà la cui conquista, peraltro, non aveva neppure reso necessaria una rivoluzione di rovesciamento del sistema. Nella monarchica Inghilterra, interessata solo da minime scosse d’assestamento politiche, le libertà personali e di manifestazione del pensiero avevano avuto meno da temere che nella Francia arroccata sulla scelta fra monarchia e repubblica.
Il pensiero liberale era, in altri termini, diventato un patrimonio di tutti. I primi governi lib-lab di Asquith e Lloyd George, prima ancora del gabinetto laburista postbellico di Clement Attlee (noto soprattutto per aver messo a punto il primo servizio sanitario nazionale gratuito), avevano trovato la chiave di volta necessaria a innovare l’apparato statuale senza radere al suolo la tradizione. Ove, invece, lo Stato era sostanzialmente rimasto allo stadio assolutistico, le riforme sociali restavano un miraggio e lasciavano spazio a rivendicazioni in favore di una trasfigurazione in senso socialista all’immane prezzo dei sacrifici e delle tribolazioni imposte al popolo.
“Le communisme, cette religion séculière”…

I comunisti, credendosi profeti di una religione secolare e investiti di una missione universale, consideravano illusoriamente la storia come un flusso di conquiste acquisite, destinato a un esito felice. In fase iniziale, operarono un preciso giro di vite sui rigori dell’ideologia, curandosi solo della loro ispirazione morale e senza tenere minimamente conto dell’eventuale efficacia delle loro misure-bandiera, bensì pervenendo non solo alla repressione della disuguaglianza, ma anche a quella dell’autonomia e della libertà di ogni individuo o formazione sociale.
Un esempio classico di provvedimenti adottati in tal senso si rinviene nelle nazionalizzazioni che, per come sono state realizzate in Italia e in Francia, non hanno sottratto l’individuo ad alcuna schiavitù, ma solamente ripartito il potere fra privilegiati espressione non più di potentati privati, ma del management di Stato. La “teorica” sottrazione dell’individuo a forme di subalternità a lui contigue non poteva che culminare nella sua sottomissione latente alle pubbliche amministrazioni.
Non saranno le peggiori chimere a cambiare le regole del gioco…
Stante l’assenza di risorse infinite, è immaginabile come l’egualitarismo non sia un principio realmente perseguibile in un contesto democratico. Il livellamento dei redditi andrebbe infatti a collidere con interessi altrettanto legittimi: la necessità di ricompensare i più dotati e i più preparati, per esempio. Ancora una volta, alla soppressione della miseria seguirebbe quella della fantasia e della libertà. D’altra parte, sarebbe difficile motivare altrimenti il fatto che nessuna Costituzione moderna si pone obiettivi “egualitari” o “collettivistici” (quella italiana, ai sensi dell’art. 2, sancisce un’idea “personalista”).
La grande sinistra intellettuale, filosindacale e anti-imperialista, si è infine sempre proclamata contraria a ogni ortodossia e sensibile verso ogni tipo di sofferenza. Dovremmo allora assumere che non fossero di sinistra i comunisti che parteggiavano spudoratamente per l’URSS, o coloro i quali chiedevano libertà per chiunque salvo che per i polacchi o i tedeschi orientali? Rispondendo con le parole dell’autore: “il linguaggio della sinistra trionfa nella nostra epoca: ma lo spirito della sinistra eterna muore, quando persino la pietà è a senso unico.”
IL MITO DELLA RIVOLUZIONE
Non ci tratterremo eccessivamente sul cosiddetto “mito della rivoluzione”, sia per esigenze di sintesi che per il frequente uso improprio del suddetto termine. Rinviamo dunque l’analisi sulle sue origini filosofiche al libro di cui trattiamo. Che cosa vuol dire, in termini politici, “rivoluzione”? Rottura di un quadro vigente, in barba alla legalità. Coperta di significati “alti” e di un valore lirico che, certo, la semplice riforma non potrebbe mai assumere, essa potrebbe cambiare tutto, in quanto ignara di quello che cambierà. È però inopportuno sia glorificare le rivoluzioni quali momento del cambiamento, sia condannarle a prescindere da ogni circostanza.
Non sarebbe il caso di domandarsi come mai molte figure importanti della sinistra del secolo scorso abbiano sempre preferito la chirurgia alla terapia, in altre parole la Rivoluzione perpetua di Lenin al fabianismo britannico? In quanto astratta, moralista e irrazionale, la rivoluzione affascina e conferisce una sorta di charme, almeno in termini lirici, anche alla sua degenerazione violenta.
Idealismo, giustizia o falso prestigio?
La rivoluzione marxista ha, per sua stessa definizione, un carattere mitico: era inimmaginabile anche solo ipotizzare che potesse svolgersi secondo canoni alternativi produrre conseguenze diverse dalle rivoluzioni d’ordinanza, aventi queste ottenuto un certo successo (rottura di continuità, sostituzione di un’élite e del suo potere in favore di quello di un’altra). Traendo il suo prestigio da una sorta di fondamento metafisico, il termine “rivoluzione” si cinge di un’aura di nobiltà, diventa quasi intoccabile. Questa veste le ha finora impedito di essere accostata a fattispecie storiche che, pur riprendendo molti leitmotiv controrivoluzionari e ultraconservatori, non scaturivano – almeno non del tutto – dalla nostalgia per le precedenti élite: difficile è pensare, infatti, che nella presa del potere forzosa da parte di Mussolini si celasse un qualche rimpianto per i governi di Giolitti o per la stagione del bipolarismo fra destra e sinistra storica.
La confutazione di Aron poggia, infatti, su un presupposto appurato: lo scollamento che si è prodotto fra le grandi menti che hanno teorizzato il sovvertimento di una fattispecie (Rousseau con il Contratto sociale, Marx con il Manifesto, Marcuse con la celebre formula dell’immaginazione al potere) e le reali circostanze e modalità storiche in forza delle quali il tentativo rivoluzionario è poi deflagrato.
IL MITO DEL PROLETARIATO
Venendo al terzo (e ultimo) grande mantra delle sinistre, non possiamo omettere il “proletariato”, la classe universale che, secondo l’opinione dell’autore del Capitale, si pretenderebbe “eletta dalla storia”. È filosoficamente impossibile discernere un proletario da un non proletario: l’anacronismo evidente di questa formula smentisce in altri termini la sua esistenza. Il proletario dell’epoca di Marx – infatti – non ha nulla a ché vedere con l’operaio della Ford degli anni ’70, che a sua volta non condivide quasi nulla con il metalmeccanico del XXI secolo.
In un’interpretazione poco ortodossa, Sartre si spinge a dire che il proletariato è la sua lotta contro la società. Se è tale, l’operaio si ribella, in quanto vittima di una disumanizzazione che lo mette a nudo non come individuo, ma in quanto membro di una classe. Come Prometeo imputava agli Dei il degrado terreno nella celebre poesia di Goethe, il “sacro” proletario si pretende eletto salvatore della collettività “totale” e “totalizzante”.
In estrema sintesi, l’accusa che Aron rivolge in queste pagine del saggio alle sinistre contemporanee, è di non aver mai partecipato a un dialogo per attenuare e contingentare le conseguenze endemiche dell’economia di libero mercato (su tutte, il rischio della disoccupazione), ma di aver quasi sempre cavalcato il malessere della classe operaia illudendola di una “liberazione ideale” dalla sua condizione di “alienazione”. Mediante un’efferata propaganda, i comunisti avrebbero strumentalizzato le rivendicazioni operaie occidentali contrapponendole all’apparente giustizia sociale realizzata nei rapporti di lavoro stipulati nelle industrie sovietiche. Fumo negli occhi, insomma. Un’ampia documentazione statistica testimonia infatti come la proprietà statale dei mezzi di produzione e l’assenza di un profitto privato – che peraltro non mancava, ma veniva assorbito dai manager di Stato – non cambiasse di una virgola la condizione del salariato.
Liberazione reale o liberazione ideale?
I teorici del movimento operaio erano soliti distinguere, dalla “riforma”, le categorie di “rivoluzione” e quelle di “sindacalismo rivoluzionario”. Molto si potrebbe dire di come i sindacati contemporanei, appurata l’insostenibilità della rivoluzione, stiano cercando di ricorrere a una forma pittoresca di sindacalismo rivoluzionario, vestendo panni che, pescando dal repertorio cinematografico, ci riportano più al pittoresco personaggio fantozziano del rag. Folagra che non a una vera presa in carico delle istanze dei lavoratori. I molteplici scioperi susseguitisi in tempo di pandemia non costituiscono che un esempio di questo atteggiamento ostruzionistico, esecrabile a parer di chi scrive.
La “liberazione reale” dell’operaio britannico o svedese, integrato in una comunità, attivo partecipante della vita civica, appare forse un po’ più noiosa. Le riforme del sistema scolastico, le tutele sociali, il lento ma progressivo aumento della retribuzione oraria non affascineranno mai l’anima candida di un intellettuale di sinistra, stregato invece dalla condanna tout court del profitto, da eleganti dizioni quali “tirannia del denaro” o da sostanziali coincidenze fra dirigente di partito e dirigente sindacale. Era dunque sempre funzionale al suo gioco dimostrare come, com’è per definizione sfruttato un operaio occidentale, un operaio russo fosse sempre, per definizione, libero.
D’altronde, riconoscere gli effettivi risultati di un socialismo non dottrinario sarebbe stato sintomo di un’ipocrisia poco conforme ai titoli di maître à penser.
L’IDOLATRIA DELLA STORIA, OVVERO L’“OPPIO DEGLI INTELLETTUALI”

“(…) il marxismo non è un’ipotesi qualunque, sostituibile con un’altra. È il semplice enunciato delle condizioni senza le quali non vi sarà umanità nel senso di una relazione reciproca fra gli uomini né razionalità nella storia. (…) Non è una filosofia della storia, è la filosofia della storia.”
Maurice Merleau-Ponty, Umanesimo e terrore
“Certo, trovo i gulag assolutamente condannabili. Ma trovo altrettanto scandaloso l’utilizzo che di essi fa la stampa borghese.”
Jean Paul Sartre
I circoli parigini rappresentano, dalla Liberazione in poi, la crème della sinistra europea. Jean Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty, autori delle sopracitate massime, non possono essere definiti stalinisti appieno. Sicuramente, sostengono apertamente la realizzazione di una rivoluzione che possa soffocare i meccanismi del capitalismo nel solco stalinista. Nemici acerrimi della società borghese, che pure è la stessa che offre loro la possibilità di sviluppare liberamente le loro tesi, comodamente seduti sugli scranni di prestigiose caffetterie parigine, sono teorici di un’idealismo che conferisce ancora una qualche rispettabilità a un’esperienza che pareva condannata dall’assassinio di Trockij e dalla Realpolitik stalinista.
Stregati dal marxismo, succubi dello stalinismo
Il marxismo, più che “la filosofia immanente del proletariato”, si avvicina più a una veste ideologica circa la quale illustri scribi si dilettano in cervellotiche speculazioni su una classe incapace di comprenderle. Il comunismo sovietico, d’altra parte, altro non è che la variante pseudoscientifica e dogmatica del marxismo.
La scuola di pensiero sartriana non stenta a criticare la dittatura burocratica di Stalin, gli eccessi della polizia sovietica o l’esistenza dei gulag (pur con argomentazioni meno veementi di quelle di altri intellettuali di sinistra, fra cui Albert Camus), ma non esprime verso tali atrocità un rifiuto, quanto piuttosto una riserva. Attribuendo un carattere fideistico di verità assoluta alla filosofia marxista, i pensatori parigini rinvengono in essa l’unica strada per “l’umanizzazione” della società, il cui atto primo sarebbe la rivoluzione proletaria. Una volta preso atto del divario fra lo Stato edificato in URSS e le profezie marxiste, questi “uomini di Chiesa e di fede” assumono giustificazioni paradossali: come condannare l’Unione Sovietica, dal momento che il fallimento della sua impresa implicherebbe quello del marxismo e dunque della storia stessa?
A questo ragionamento, Aron oppone diversi, laconici quesiti. Ne riportiamo qui uno:
“Perché “l’umanizzazione della società” non dovrebbe essere l’opera comune e sempre incompiuta di un’umanità incapace non solo di abolire il divario fra la realtà e l’idea, ma incapace anche di rassegnarvisi?”
Qui si staglia la differenza fondamentale fra storici e idolatri della storia. Questi ultimi non analizzano i fatti, ma sovrappongono loro un sistema d’interpretazione rodato, che tendono ad assolutizzare. La coscienza storica educa alla tolleranza, l’idolatria della storia vede nel vincitore un giudice del vinto e nel vinto stesso un nemico da eliminare.
DOPPIOGIOCHISMO MACHIAVELLICO?
Senza qui addentrarci in ulteriori sofismi, vale la pena di presentare l’ultimo grande tassello della costruzione dialettica dei fanatici: l’ambivalenza di rigore e di indulgenza.
Una volta completata la transizione rivoluzionaria verso la “religione” comunista, non saranno mutate le retribuzioni ineguali, lo sfruttamento delle masse e tutte le nefandezze del caso. Il proletario, non più uomo ma “essere sociale”, sarà però regnante nel corpus del Partito comunista giunto al potere. Gli intellettuali accetteranno con attiva condiscendenza l’assolutismo di matrice giacobina, purché sia “al servizio della rivoluzione”. L’intera opera di civilizzazione politica scaturita dallo Stato liberale diventerà come d’incanto lettera morta, nel silenzio assoluto dello scrittore di sinistra medio.
“Moralista contro il presente, il rivoluzionario è cinico nell’azione, s’indigna contro le brutalità della polizia, i tempi disumani della produzione, la severità dei tribunali borghesi, le esecuzioni di imputati la cui colpevolezza non è stata dimostrata al punto da eliminare tutti i dubbi. Niente, tranne una “umanizzazione totale”, può saziare la sua fame di giustizia. Ma quando decide di aderire a un partito implacabile come lui nei confronti del disordine vigente, ecco che perdona, in nome della rivoluzione, tutto ciò che aveva infaticabilmente denunciato. Il mito rivoluzionario getta un ponte fra l’intransigenza morale e il terrorismo.”
Raymond Aron
La diabolizzazione dell’American Dream
Scrive, sempre il nostro autore, che l’intellettuale “sopporta meglio la persecuzione dell’indifferenza”: per questo, preferisce l’epurazione e la censura dell’Est alla libertà dell’Ovest, a motivo della sua fascinazione per il palcoscenico. Con pochissime eccezioni, l’americano medio preferirà sempre che all’onore delle cronache giunga una stella del cinema o un giocatore di football piuttosto che un grande scrittore.
Un articolo il cui autore – pur insegnando in università borghesi e detestando le testate cui presta la sua firma – critica la borghesia costituirà sempre un fatto politico in Francia e mai in terra angloamericana.
In fondo, gli ideali propri della civiltà americana non collidono radicalmente col pensiero dell’intellighenzia incravattata: giustizia e libertà restano comuni a entrambi i progetti. Non a caso, l’élite letteraria europea non contesta tanto i valori alla base del discorso liberale atlantico. Stigmatizza invece i metodi che hanno consentito a quel modello di mutare in una forma di Stato. Con le parole aroniane, “il capitalismo, che ogni buon intellettuale ha il dovere non di conoscere ma di disprezzare.”
Se poi si considera come gli USA tendano sempre di più a considerare come un riferimento l’esperto tecnico rispetto al grande letterato, un’ulteriore constatazione è presto tratta.
Uomini intelligenti, idee stupide?
Tirando le somme, che cos’è L’Oppio degli intellettuali? La prefazione che l’editorialista del Corriere Angelo Panebianco firma per l’edizione italiana ne dà una definizione particolarmente corretta: un documento sulla Guerra Fredda e una spiegazione sociologica delle ragioni che spingono uomini intelligenti ad adottare idee stupide.
Si potrà dire a ragione, forse, che, ai tempi in cui fu scritto questo libro, dagli USA arrivava un modello, mentre al giorno d’oggi, ai popoli europei, la civiltà americana non propina che la subcultura disumana del trumpismo o l’integralismo agrodolce del “woke”. Ciò non ci impedisce tuttavia di constatare la caratura attuale delle profezie de L’Oppio. Un libro che, prima ancora che “contro” le sinistre, si scaglia contro quel fanatismo e quell’esuberanza ideologica che, dopo la caduta del muro di Berlino, non ha smesso di contraddistinguerle, seppur in forme molto diverse da allora.
L’oppio che la crème gradisce ancora
L’impressione fondata è che la sinistra contemporanea abbia mutuato molte categorie dall’ortodossia oppiacea di Sartre e Merleau Ponty. Il ricorso abusato a terminologie quali “padronato” o “redistribuzione” non rappresentano infatti che la trasposizione moderna delle categorie di allora. Nelle polemiche boriose di Michela Murgia o Tomaso Montanari non si cela forse la fascinazione per quella sinistra che al socialismo antitotalitario di Victor Hugo ha preferito il culto giacobino di Sartre e le passioni tristi di Simone De Beauvoir? Che alla tradizione culturale laica e repubblicana ha preferito gli orrori della cancel culture? Che alla socialdemocrazia occidentale di Willy Brandt e Pierre Mendès France ha sempre preferito le autocrazie cinesi e sudamericane o la coscienza politica sporca di uomini come Corbyn e Mélénchon?
A questo spettacolo indubitabilmente sgradevole, il nostro autore – la più efficace Cassandra liberale di cui io abbia mai letto gli scritti – contrappone un sentito “invito a respingere modelli e utopie, se la tolleranza nasce dal dubbio.”
“Invochiamo con tutto il cuore la venuta degli scettici, se hanno il compito di far sparire il fanatismo.”
Facendo mie le parole di Raymond Aron, rivolgo ai miei lettori di sinistra la stessa domanda che l’editorialista di Marianne Jacques Juillard, gauchista tutto d’un pezzo, ha posto ai suoi: “Di quale sinistra fate parte?”
Caro Michele, tento una risposta, tardiva e sicuramente insufficiente. La sinistra accettabile è quella parte (politica, ma anche sociale e umana) che protegge gli esseri umani e la loro libertà, senza dimenticare mai di analizzare le condizioni materiali ed economiche, specifiche del tempo e del luogo, in cui si svolge la loro vita e soprattutto il loro lavoro. Questo resta vivo di Marx credo, l’occhio sulla realtà materiale dei rapporti economici e le loro conseguenze sull’uomo. Poi per equità la stessa domanda bisogna farla ai liberisti, ai neoliberisti eccetera… Complimenti per il pezzo, molto chiaro e interessante
Cara Monica, anche la mia risposta non potrà che essere troppo breve e semplice. Ho scelto di parlare di questo libro perché vi ho trovato il “sale” di un conflitto politico e filosofico che si consuma da anni: come scrissi già tempo fa, credo poco alla fine della dicotomia destra-sinistra, che sarà certamente destinata ad esprimersi in altre forme ma dubito si spegnerà mai del tutto. A mio avviso, Raymond Aron non se la prende tanto con la sinistra in sé o con chi guarda con interesse a quella cultura politica, quanto più che altro all’uso e abuso che dei suoi mantra hanno fatto (e in certi casi tuttora fanno) certi pensatori non poco stimati e stimabili. In ogni caso, staremo a vedere cosa ci riserverà il dibattito nei prossimi anni. Ti ringrazio molto della riflessione e dei complimenti!