Il Giornale di Lecco, 5 maggio 1986

Comunicare il nucleare

1 Aprile 2022

Il nucleare è stato dato per morto ed è risorto con clamore diverse volte.

Di solito, i suoi revival sono dovuti all’ennesima crisi energetica, dovuta al peso che tuttora hanno i combustibili fossili nel bilancio energetico, con le loro fluttuazioni di prezzo e le instabilità geopolitiche che caratterizzano i loro maggiori fornitori; ma con tanta più urgenza ora se ne parla in quanto le centrali nucleari sono una fonte di energia a basse emissioni di gas serra.

Anche il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC), l’organismo internazionale deputato allo studio dei cambiamenti climatici, ha affermato che un aumento nell’utilizzo di energia nucleare può contribuire in modo significativo, se non a raggiungere gli obiettivi climatici nel breve termine, a mantenere delle emissioni di gas climalteranti a livelli accettabili.

La giusta ricetta per la transizione energetica a fonti meno inquinanti coinvolge considerazioni difficili da quantificare, che riguardano fattori geopolitici e tecnici, tempistiche di sviluppo, sostenibilità dei costi e vincoli territoriali, oltre naturalmente ai classici timori per la sicurezza del nucleare e il problema, percepito come irrisolto, della gestione e dello smaltimento dei rifiuti radioattivi.

Oggi, con l’aggressione russa dell’Ucraina, il nucleare potrebbe aiutarci nella prospettiva di rinunciare al gas russo, dal quale siamo ancora largamente dipendenti (l’Italia è uno dei più grandi importatori); allo stesso tempo gli eventi ucraini sollevano nuovi timori, essendo sotto attacco, per la prima volta nella storia, un paese con una forte industria energetica nucleare. Gli edifici dei reattori sono progettati per resistere a un’eventuale esplosione di idrogeno e hanno dimostrato di poter reggere lo schianto di un aereo, ma non è mai stato testato il loro comportamento in caso di bombardamenti intensi e prolungati, deliberati o (più probabilmente) no.

Con tutta probabilità, ci vorrebbero missili antibunker per demolirli; una centrale, però, non consta soltanto dei suoi edifici, ma del personale che vi lavora e delle infrastrutture che la circondano. Se, per esempio, la fornitura di acqua o di elettricità viene a mancare per tempi prolungati, se al personale non viene consentito di svolgere il proprio lavoro senza pressioni indebite e con un adeguato ricambio, il rischio che succeda qualcosa di indesiderato, già di per sé mai nullo, aumenta. Vero è che l’invasore non avrebbe interesse a causare un incidente nucleare su un territorio confinante (un eventuale rilascio di una nube di materiali radioattivi potrebbe facilmente raggiungere proprio la Russia), ma le testimonianze degli operatori della ex centrale di Černobyl’ occupata sembrano indicare che le forze russe sul campo non siano consapevoli di cosa una centrale nucleare abbia bisogno per essere gestita in sicurezza.

È diffusa in ambienti tecnici la vulgata per cui se si conosce meglio la tecnologia nucleare si è più inclini ad accettarla, ma è una rappresentazione troppo semplicistica. Oltre alla conoscenza di una tecnologia e della reale entità del suo impatto, altri fattori da considerare sono la fiducia negli enti che la gestiscono e nelle istituzioni che la regolano e la controllano, le inclinazioni politiche, la prossimità geografica e diverse variabili culturali, sociali, demografiche, territoriali che ne influenzano la percezione. Capire il ruolo e il peso di queste variabili è importante per parlarne in modo costruttivo tanto quanto conoscere ciò di cui si parla. Per esempio, sebbene vi sia in generale una differenza tra esperti e non esperti nella percezione del rischio dell’energia nucleare, l’appartenenza politica a movimenti e partiti che promuovono la sovranità energetica è un fattore più incisivo, tanto da creare una tendenza distintiva tra elettori che si definiscono di destra e di sinistra, con questi ultimi in genere maggiormente contrari al nucleare. Sono poi soprattutto le donne a considerare il nucleare un’energia rischiosa.

Non è praticamente possibile parlare di centrali nucleari senza citare gli incidenti di più alto profilo: Three Mile Island nel 1979, Černobyl nel 1986 e Fukushima nel 2011. A questi incidenti e al terrore mediatico che li ha seguiti si attribuisce spesso l’origine della paura del nucleare, ma la diffidenza nei suoi confronti, perlomeno in diversi paesi europei e negli Stati Uniti, si era già fatta sentire ben prima di Three Mile Island. Il momento in cui l’energia nucleare si è mostrata al mondo è stato nell’agosto del 1945. Le campagne di propaganda sugli usi pacifici del nucleare degli anni Cinquanta non cancellarono la memoria di Hiroshima e Nagasaki, né l’ansia della minaccia nucleare in guerra fredda; anzi, il parallelo sviluppo del comparto nucleare militare e civile (medicina, agricoltura, energia) mandò messaggi contrastanti al pubblico e finì per intrecciare i due volti del nucleare nell’immaginario collettivo anziché scinderli.

Oggi gli aspetti civile e militare dell’atomo possono procedere su strade separate (tant’è che ci sono paesi dotati di un’industria energetica nucleare ma non di armi atomiche, e viceversa) ma l’imprinting ormai era stato dato. Non aiutò il fatto che in tutti i paesi dotati di armi atomiche i due comparti fossero gestiti dagli stessi enti e, almeno fino alla fine del Novecento, con analoga mancanza di trasparenza e di responsabilità sociale. L’industria nucleare è stata colpevole di vari episodi di contaminazione ambientale, minimizzandone al contempo i rischi mentre faceva esperimenti di opportunità sulla popolazione. Le esternalità negative ricaddero specialmente sulle comunità marginalizzate (ciò che viene definito razzismo ambientale); negli Stati Uniti, le terre delle comunità indigene furono occupate, danneggiate o inquinate per far luogo agli impianti della filiera nucleare – estrazione di minerale, purificazione, produzione di materiale fissile e stoccaggio dei rifiuti. I test condotti dalle varie potenze nucleari nel Pacifico, nel Nevada, nel Kazakistan, in Algeria e in Australia misero a rischio l’incolumità delle popolazioni locali.

Se nel comparto non bellico va leggermente meglio, comunque a cavallo tra gli anni Cinquanta e Settanta ci fu una enorme spinta per saltare sul “carro nucleare”: da una parte la propaganda prometteva energia abbondante a costi irrisori, dall’altra si costruivano centrali che fin troppo spesso privilegiavano efficienza e profitto alla sicurezza, in un periodo in cui l’industria nucleare era ancora estremamente giovane e i rischi per il territorio e per le persone di un eventuale rilascio di materiale radioattivo erano ancora poco noti e comunque non condivisi con le comunità circostanti.

I movimenti ambientalisti, che si svilupparono a partire dagli anni Sessanta e Settanta, crebbero mantenendo uno stretto legame col pacifismo, col quale trovarono nell’antinuclearismo una nota comune. Di fatto, il confronto pubblico sul tema è stato a lungo lasciato a chi vi si opponeva, cioè all’ambientalismo tradizionale.

È stato fin troppo facile identificare nel comparto nucleare un classico nemico “da film.

La comunicazione emotiva sul nucleare è rimasta completamente in mano ai movimenti di opposizione, a cui hanno aderito numerose personalità dello spettacolo e della letteratura, ossia coloro che meglio di chiunque altro potevano parlare ai sentimenti del pubblico: da una parte paure profonde e primordiali nei confronti delle radiazioni, dall’altra la sfiducia nella grande industria e nelle istituzioni che dovrebbero sì vigilare, ma sono legate all’industria da conflitti d’interesse. La fiction ha colto e sfruttato questa “mitologia” del nucleare, creando un’influenza così radicata che ancora oggi, alcune credenze errate vengono date ampiamente per scontate nel pubblico: per esempio, che le radiazioni provenienti da una centrale nucleare siano intrinsecamente più dannose di dosi uguali a cui si è esposti per esempio mentre si viaggia in aereo; che non ci siano modi per controllare la radioattività, mentre invece può essere facilmente rilevata anche a bassissime dosi; che chi vive vicino a una centrale nucleare per un anno riceva più radiazioni di una radiografia toracica, e così via.


Insomma, il problema della scarsa accettazione sociale sul nucleare non è solo una questione di mancanza di informazione ma, da una parte, di quanta fiducia e credibilità si assegna a chi fornisce questa informazione e, dall’altra, dai valori più o meno espliciti che sono (o non sono) trasmessi con essa. Per costruire una fiducia con un pubblico scettico, è importante che ci sia un flusso di informazioni non solo dai tecnici al pubblico, ma anche un feedback e una partecipazione in direzione opposta; questa deve diventare una consuetudine, per la quale si sviluppino delle buone pratiche, senza limitarsi a un singolo tentativo improvvisato o due.

Per il pubblico non tecnico il rischio non si valuta soltanto in termini quantitativi, ma dipende anche da valori più qualitativi e immateriali, morali e comunitari; ciò porta a incomunicabilità e incompatibilità apparente di interessi, almeno finché non si mettono a fuoco questi valori e finché il comparto tecnico continuerà a bollare le paure del pubblico come “radiofobia” irrazionale. Di per sé, trattare i cittadini come interlocutori irrazionali e quindi poco degni di nota non ha molto senso, dato che stiamo parlando di un ambito scientifico profondamente innestato in un settore della società a cavallo tra industria e politica, che può essere influenzato da potere politico, conflitti d’interesse e avidità – e che senz’altro può covare al suo interno irrazionalità, priorità personali, disonestà e meccanismi poco puliti. Tutto questo si coniuga con un potenziale distruttivo e di contaminazione percepito come enorme, a ragione o a torto; se si può affermare che i reattori di ultima generazione, contrariamente a quelli delle generazioni precedenti, sono effettivamente costruiti secondo progetti centrati sulla sicurezza più che sul profitto, perché fidarsi quando in passato la stessa industria ha rassicurato che la fusione del nocciolo di un reattore era un evento estremamente improbabile da osservare nel tempo di vita di un reattore?

La creazione di un mercato equo dell’energia pulita, dove ciascuno rende conto delle esternalità che produce (ossia dell’impatto sul benessere della società), è un processo complesso che richiede l’apporto costruttivo di una serie di portatori di interesse – esperti, industria, pubblico, associazioni, enti regolatori, decisori politici ed esperti di comunicazione. Questo apporto non arriverà se non si riconosce la natura politica della questione nucleare e si continua a pretendere che si tratti solamente di scienza. Finora quello a cui si assiste è il consolidamento di due schieramenti contrapposti, che parlano poco tra di loro ma molto (e male) l’uno dell’altro: da una parte l’ambientalismo storico, tradizionalmente antinuclearista e spesso oltranzista; dall’altra i sostenitori del nucleare che, forse inconsapevolmente, adottano nei confronti dell’ambientalismo tradizionale toni gratuitamente sarcastici e denigranti, sentendosi in ciò giustificati dalla prospettiva scientifica. Non aiuta, quanto a credibilità, il fatto che, per esempio, alcuni sostenitori nostrani strizzino l’occhio al negazionismo climatico, andando proprio a minare uno dei motivi principali per cui si torna a parlare di una tecnologia energetica così controversa.

Le eccezioni a questo muro contro muro sono poche, ma ci sono.

Per esempio, contestualmente alla costruzione e alla messa in attività del primo reattore europeo di terza generazione avanzata a Olkiluoto, nonché al completamento del deposito geologico permanente collegato alla centrale a Onkalo, i Fridays for Future della Finlandia hanno dichiarato come l’energia nucleare, pur riconoscendo le sue problematiche (tra cui i tempi di costruzione lunghi e spesso dilatati da ritardi tecnici e regolatori, un alto costo iniziale e una storia non proprio edificante nella gestione dei rifiuti radioattivi) e i suoi rischi, debba essere considerata in vista del rischio più grande, ossia le conseguenze dei cambiamenti climatici.

È su questo, appunto, che si dovrebbe investire: non dipingere il nucleare come la panacea tutta rose e fiori che non è, ma aprirsi a un dialogo informato e onesto, che metta a confronto il rischio di dotarsi di un’industria energetica nucleare col rischio di non farlo, che renda conto delle responsabilità passate e riconosca la dignità del cittadino, nell’interesse del quale l’industria energetica dovrebbe orientarsi.

LASCIA UN COMMENTO

Your email address will not be published.

Piove. Ed è una Notizia

“A TAVOLA, È PRONTA LA MINESTRA!”