Per quale motivo i mercati pendono dalle labbra delle banche centrali? La risposta è semplice, hanno fiducia. Fiducia nel loro operato. Nelle scelte già prese e in quelle da prendere. Il fatto che non siano in però in grado di raggiungere i loro obiettivi deve preoccuparci?
Il prestigio delle banche centrali, nell’era moderna, dipende essenzialmente dalla capacità di mantenere la stabilità dei prezzi e tenere a bada l’inflazione. Questa autorità discende dagli anni ’70 e ’80 con una feroce guerra alla corsa dei prezzi . Da lì è sostanzialmente rimsasto immutato. Sino ad ora. L’obiettivo del 2% di inflazione, considerato ottimale, in Europa è più lontano che mai e anche negli USA ancora non è stato raggiunto. E tutto questo non nell’indifferenza delle banche centrali, ma con il più grande sforzo monetario mai tentato. I vari quantitative easing e programmi di acquisto hanno raggiunto livelli mai visti prima. Le stampanti delle varie zecche hanno lavorato a pieno regime. Eppure ancora l’inflazione tarda il proprio comparire. L’incapacità delle banche centrali di centrare il proprio obiettivo dovrebbe teoricamente minare la loro credibilità. Eppure ciò non sembra accadere in alcun modo.
Il tema, che oggi sembra passare in secondo piano (anche giustamente per certi versi), è quanto ancora potrà durare questo attivismo delle banche centrali. Perché è vero che ci troviamo di fronte ad un periodo eccezionale, ma il mandato, per quanto riguarda la BCE almeno, rimane ancora solamente quello di avvicinare il target di inflazione ossia il 2%. A causa del Covid i vari istituti centrali sono dovuti tornare ad operare in modo massiccio sui mercati. La ragione è semplice: garantire lo spazio necessario ai vari Paesi per tirarsi fuori da una crisi che rischia di diventare drammatica. L’ultima riunione del board BCE ha confermato quello il mercato attendeva: la banca centrale farà ancora una volta tutto quell che le sarà possibille. L’intervento è sacrosanto ma mette in luce sempre di più come da questo interventismo molti Paesi, primo fra tutti il nostro, dipendano ormai in maniera strutturale per finanziare il proprio debito. Se questo supporto dovesse venire a mancare, cosa che per forza di cose dovrà prima o poi avvenire, la situazione potrebbe diventare estremamente seria. Come già detto prima, nello statuto della BCE è previsto come principio guida quello della stabilità dei prezzi. Oggi è in discussione un rinnovamento del mandato con aggiunte più o meno sensate e fantasiose –dalla piena occupazione all’ambiente– ma la stabilità dei prezzi è, e al momento rimane, l’unica prerogativa. E il 2%, o un numero vicino, è considerato il livello ideale. Per farlo, nel corso degli anni, si sono tagliati i tassi con cui la BCE presta denaro alle altre banche. Fino a 0 e anche in territorio negativo e sono stati avviati enormi programmi di acquisto titoli sui mercati. L’effetto avrebbe dovuto essere quello di una espansione del credito, quindi della moneta circolante e per conseguenza ultima un aumento dell’inflazione. Ciò non è accaduto perché il collegamento tra le politiche monetarie e l’economia reale non è più così diretto. La famosa distanza tra Wall Street e Main Street. Le banche, infatti, preferiscono tenere l’eccesso di riserve generato dai programmi di acquisto titoli presso la Banca centrale stessa. Così facendo non espandono il credito e la disponibilità di moneta non aumenta.
Le cause della bassa inflazione non sono solo però legate a questioni di natura finanziaria. Sono anche, e soprattutto, di natura strutturale. Il livello dei prezzi non cresce perché la globalizzazione ha reso disponibile una enorme massa di lavoro a basso costo. Persone nei Paesi in via di sviluppo che -sfruttate perché l’alterativa è la fame- permettono di produrre grandi quantità di merci a prezzi molto bassi. Merci che però sono solitamente quelle a basso valore aggiunto. Se infatti isoliamo i prezzi dei beni di lusso, che richiedono manodopera qualificata, specializzata e ben pagata, questi hanno tassi di crescita decisamente sopra la media. L’altro fattore cruciale per la bassa inflazione osservata è lo sviluppo tecnologico. Questo agisce in due sensi: lo sviluppo di strumenti sempre più potenti ed efficienti riduce i prezzi dei prodotti. Un cellulare, anche top di gamma, costa comunque meno oggi dei primi modelli usciti. E non solo costa meno ma, e qui entra in gioco la seconda via di cui parlavo prima, ha molte più funzioni che rendono inutili alcuni oggetti. Le fotocamere digitali di fascia medio-bassa, il fax ecc.…
Le misure che si è deciso di adottare per combattere questa cronica patologia rischiano però paradossalmente di peggiorare la situazione oltre a causare notevoli altre conseguenze per nulla trascurabili. Il primo di questi problemi è che i bassi tassi di interesse consentono ad imprese che si trovino al margine della profittabilità, le cosiddette aziende-zombie, di riuscire a continuare la loro attività. Ciò porta ad un aumento della normale capacità produttiva disponibile, soprattutto per le attività a basso valore aggiunto, e dunque, con una maggiore offerta, il livello dei prezzi non sale. Le politiche nate quindi come reflazionistiche, in questo senso peggiorano solamente la situazione. Non solo accade questo, ma la teorica maggiore disponibilità di credito non si mostra uguale per tutti. La ragione è ovvia: le banche comunque preferiscono allocare le loro risorse nelle aziende più sicure che abbiano garanzie da offrire. Garanzie che normalmente sono espresse in termini di asset. Il problema è che proprio grazie al QE il valore di questi asset è enormemente aumentato rendendo ancora più sproporzionato il vantaggio delle grandi compagnie. Queste, infatti, con una grande facilità di accesso al credito, sono in grado di posticipare i loro flussi di cassa per poter allargare la loro quota di mercato. Rimandare gli utili, con i tassi a zero costa poco o quasi nulla. Le quote di mercato così conquistate hanno però un valore enormemente superiore. Tralascio inoltre ogni aspetto sulle conseguenze per le disuguaglianze. È abbastanza evidente tuttavia come sia assolutamente regressiva una politica che aumenti il valore degli asset. Asset che per definizione sono in mano alle fasce più abbienti della popolazione.
In tutto questo la FED, che è molto più vicina a raggiungere il proprio target rispetto alla BCE, ha deciso a partire da agosto di imprimere una svolta nella propria politica monetaria. Ha infatti deciso che il 2% non era sufficiente a compensare i numerosi anni in cui la crescita dei prezzi è rimasta al di sotto di tale soglia. Per questo motivo ha deciso di adottare un average inflation target. Il che significa che la media della crescita dei prezzi sarà considerata su un numero di anni maggiore di uno (non specificato per evitare speculazioni). Detto in parole povere, se questo numero di anni fosse due, ad esempio, nel caso il primo anno la crescita dei prezzi fosse sotto il 2%, il secondo anno tale soglia dovrà essere superata in modo da compensare. La ragione di ciò non è troppo chiara e la spiegazione sul sito della FED è quantomeno fantasiosa. Secondo la loro visione questo impegno a parole di inflazione sopra il 2% dovrebbe automaticamente, come per magia, generare una aspettativa nel lungo periodo di inflazione. Il tutto senza spiegare come si cercherà di superare questa fatidica soglia nel breve periodo. Il fatto è che neppure nel decennio precedente il livello dei prezzi abbia centrato il target in Europa, eppure nessuno sembrava esserne così ossessionato. Una spiegazione diversa per questa improvvisa voglia di inflazione potrebbe però essere di carattere politico. Abbiamo tutti visto il gigantesco piano di sostegno da 2000 mld di dollari del presidente Trump. E un altro piano, con lo stesso ordine di grandezza, è in via di definizione. Questo cosa significa? Che probabilmente quest’anno il deficit federale supererà il 15% del Pil e il rapporto tra debito e Pil sfonderà il 100%. Quello che forse la FED e le altre banche centrali stanno dunque cercando di fare, senza però dirlo esplicitamente, è spingere i prezzi in modo tale da inflazionare il debito che gode dei tassi negativi (artificialmente tenuti bassi proprio dagli istituti centrali). Questo permetterebbe quindi di tenere sotto controllo conti pubblici che altrimenti rischiano di esplodere. Tale operazione è estremamente rischiosa perché nel momento in cui il mercato avesse sentore di questa tendenza inizierebbe a scaricare la propria quota di debito pubblico, lasciando la banca centrale con il cerino in mano. Tassi reali negativi non sono sostenibili nel lungo periodo. Il gioco ancora può rimanere in piedi proprio per via della grandissima fiducia di cui godono le banche centrali. Ma quanto ancora potrà durare?