Devono essere stati terribili i cinquantasette giorni che separarono la morte di Giovanni Falcone dalla sua. E quei momenti, rievocati in libri, film, serie tv, fanno ipotizzare un Paolo Borsellino che sapesse bene quale fosse il suo destino dopo la Strage di Capaci. Era solo una questione di tempo. Eppure, l’ex procuratore di Marsala non scappò. Continuò anzi a fare il proprio dovere in maniera minuziosa, con il peso sulle spalle di una condanna a morte già scritta. La Mafia non dimentica. Per anni il giudice aveva dato la caccia al crimine organizzato che, in un momento drammatico per lo Stato italiano, colpiva i rappresentanti delle istituzioni. E il 19 luglio 1992, trent’anni fa, al numero 21 di via D’Amelio a Palermo, assieme ai cinque agenti della scorta – Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina – Paolo Borsellino venne assassinato con il tritolo.
L’unico sopravvissuto all’attentato fu Antonino Vullo, scampato perché stava parcheggiando uno dei veicoli della scorta del magistrato. Borsellino si era recato nella periferia del capoluogo siciliano per un saluto alla madre, Maria Pia Lepanto. Qui la Mafia lo colpì a morte. La decisione di eliminarlo l’aveva presa Totò Riina, arrestato qualche mese dopo l’attentato, sempre a Palermo. La strage di Via D’Amelio s’inserì in un periodo travagliato per l’Italia contemporanea. Allora Cosa Nostra tornò ad alzare la testa anche in protesta alle condanne del maxiprocesso del 1991. Nella prima settimana del luglio 1992 Giuseppe Graviano si recò in via D’Amelio per fare un sopralluogo della zona. Gaspare Spatuzza ed altri rubarono una Fiat e la imbottirono di esplosivo militare. Di lì a pochi giorni tutto era pronto. Alle 16:58, quando il magistrato giunse sul posto, la vettura deflagrò.
L’uomo che con Falcone rappresentava più di tutti la lotta al crimine organizzato veniva eliminato a distanza dalla Mafia. Il paese rimase sotto shock per la seconda volta in due mesi e la sera stessa il ministro della Giustizia Claudio Martelli firmò con urgenza l’applicazione del carcere duro per i mafiosi, il 41 bis, per trecento detenuti. Il 21 luglio nella Cattedrale di Palermo si celebrarono i funerali dei cinque agenti. «Fuori la Mafia dallo Stato», gridavano i partecipanti. Il 24 luglio, si tennero le esequie in forma privata di Borsellino giacché la famiglia aveva rifiutato il rito di Stato. Come Rosaria Costa, la vedova dell’agente Vito Schifani morto con Falcone, anche Agnese Borsellino, moglie di Paolo, fece appello allo Stato che si era rivelato incapace di proteggere il marito. L’orazione funebre fu pronunciata da Antonino Caponnetto, che aveva diretto l’ufficio di Falcone e di Borsellino.
Un anno dopo la Strage di Via D’Amelio, la signora Lepanto fece piantare un albero di ulivo proveniente da Betlemme come simbolo di pace e giustizia nel cratere. L’albero è ancora lì. Oggi è il punto di riferimento del quartiere palermitano. Ed è cresciuto: agghindato di nastrini e fotografie, cappellini e braccialetti. Un luogo della memoria per celebrare i sei martiri di Stato. Giunti sul posto, alla base, su una piastrella multicolore si legge: «Tu che vieni qui a contemplare ricorda che: non tutti i siciliani siamo mafiosi e non tutti i mafiosi sono siciliani». Ai rami, anche i disegni dei bambini e i nomi degli istituti che hanno appeso gagliardetti, fazzoletti ed effigi. Qui c’è come un’aria sacra: di pace e necessaria meditazione. Si scorge, dietro al tronco, anche una lapide di marmo verde scuro con i nomi di battesimo dei sei caduti.
Ci si augura che i visitatori abbiano appreso le lezioni di Borsellino: fare il proprio lavoro in maniera onesta, incoraggiare la legalità, mostrare coraggio. In una delle sue ultime interviste, Borsellino disse: «La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in […] estremo pericolo, […] non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me». A pochi passi da Via D’Amelio due murales: uno con il volto di Falcone, l’altro con quello di Borsellino. Due martiri della Repubblica: lì quasi come a scrutare la città. A vedere se davvero la lotta per la legalità continua. «L’emozione di un momento diventi l’impegno di una vita», come riportato alla base dell’albero nelle parole di Caponnetto.
Amedeo Gasparini