Il dramma della guerra in Ucraina rappresenta uno spartiacque per la storia dell’Unione Europea. Già nel corso della pandemia aveva cominciato a prendere piede una nuova narrazione del progetto europeo, non limitato all’economia monetaria e finanziaria ma orientato alla definizione di un’autonomia strategica nello scacchiere geopolitico.
UN SISTEMA MONETARIO PER LA PACE
I padri fondatori dell’Europa erano convinti che i Paesi si dovessero unire economicamente e politicamente al fine di evitare un nuovo conflitto mondiale. Con questo spirito vennero istituite l’Unione Europea dei Pagamenti nel 1950, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio nel 1951, la Comunità Europea per l’Energia Atomica e la Comunità Economica Europea nel 1957. L’obiettivo era liberalizzare gli scambi commerciali e, in termini brutali, rendere economicamente sconveniente il ricorso alla guerra armata nel cuore dell’Europa. Successivamente, nella seconda metà degli anni Ottanta, tra i policy maker europei si andò diffondendo l’idea che un’unione economico-politica non avrebbe espresso a pieno il proprio potenziale in assenza di una moneta unica. Quest’ultima avrebbe meglio tutelato il potere d’acquisto di famiglie e imprese, eliminato i rischi di cambio e ridotto i costi di transazione. Inoltre, non a caso, la moneta, insieme all’esercito, materializza storicamente l’autorità del potere politico ed è unità di misura della sua credibilità. Con l’Atto Unico Europeo del 1986 si posero le basi per la costruzione dell’Unione Economica e Monetaria e il Rapporto Delors del 1989 mise nero su bianco la road map per la costruzione della politica monetaria europea, confluita poi nel Trattato di Maastricht del 1992, a cui seguì nel 1997 l’adozione del Patto di Stabilità e Crescita che vincola gli Stati membri al rispetto dei criteri di convergenza enunciati dal Trattato di Masstricht; qui ne citiamo a titolo di esempio due: rapporto deficit/Pil non superiore al 3% e rapporto debito/Pil non superiore al 60%. Quest’ultimo parametro è stato integrato dal Fiscal compact del 2012, il quale vieta che il deficit teorico di piena occupazione superi lo 0,5% del Pil nel corso di un ciclo economico e stabilisce che il rapporto debito/Pil, se superiore al 60%, debba scendere ogni anno di un ventesimo della distanza tra il suo livello effettivo e la soglia del 60%.
LA CRISI FINANZIARIA E LA CRISI DEI DEBITI SOVRANI
Nel 2007 il crollo del mercato immobiliare americano, legato a doppio filo al boom delle cartolarizzazioni e dei derivati finanziari nei bilanci delle più grandi banche d’affari del mondo, ha finito per contagiare anche le banche europee e, a cascata, l’economia europea e le finanze pubbliche degli Stati membri, innescando la Grande Recessione del 2008-2009. A partire da questo biennio si è assistito al progressivo deterioramento dei parametri di Maastricht e alla forte riduzione del Pil e dell’occupazione, soprattutto in Grecia, Spagna e Irlanda, culminato con l’esplosione degli spread nel 2011 con il coinvolgimento anche di Portogallo e Italia. Questi Paesi sono stati costretti a adottare politiche fiscali restrittive per contenere il debito pubblico e preservare l’accesso ai mercati finanziari, prolungando la crisi fino al 2013. In quegli anni la narrazione della politica europea è stata influenzata dalle immagini delle proteste nelle piazze greche contro l’euro e la Troika, ponendo le basi per la nascita e il radicamento di movimenti populisti ed euroscettici nei principali Paesi dell’UE colpiti dal crollo del Pil e dall’aumento della disoccupazione. L’UE si è divisa in due fazioni. Da un lato i Paesi economicamente più forti e politicamente stabili, come Germania, Austria, e Paesi Bassi. Dall’altro i Paesi dell’Europa meridionale, come Spagna, Grecia e Italia. Le campagne elettorali di quegli anni, infatti, erano tutte incentrate sull’adesione o meno all’euro e all’UE, alla riforma del Patto di Stabilità e ai Trattati, fino ad arrivare al rifiuto della globalizzazione economica e al ritorno del nazionalismo. L’establishment europeo, indentificato come consesso tecnocratico privo di alcuna empatia e distaccato dalla società, è stato messo sotto accusa da una parte dell’opinione pubblica. Ne è scaturita una fase apparentemente regressiva nel processo di costruzione di un’Europa politica, colpita nelle sue fondamenta.
LA PANDEMIA, IL NEXT GENERATION EU E L’AUTONOMIA STRATEGICA
Dal 2013 al 2019, l’economia europea ha vissuto una fase di stagnazione, contraddistinta dall’egemonia tedesca e da un’inflazione molto al di sotto del 2%. L’Italia nonostante l’adozione di una politica fiscale restrittiva non è riuscita a implementare le riforme strutturali richieste dalla Commissione europea. Il debito pubblico è aumentato e la disoccupazione, soprattutto giovanile, è rimasta a livelli insoddisfacenti. Nonostante la flessibilità concessa in materia di contenimento del deficit pubblico, l’assenza di una politica fiscale comune integrata ha depotenziato gli effetti sull’economia reale della politica monetaria espansiva della BCE guidata da Mario Draghi, decisiva per la sopravvivenza dell’Eurozona dal “whatever it takes” in poi. Nel 2020 la pandemia ha travolto tutti Paesi dell’Unione Europea, innescando una nuova recessione ancor più grave, con uno shock negativo sia sulla domanda che sull’offerta. Ma questa volta l’UE ha risposto con misure efficaci, come la sospensione del Patto di Stabilità e della disciplina sugli aiuti di Stato, e ha introdotto per la prima volta nella sua storia uno strumento di politica fiscale comune in grado di accompagnare adeguatamente la politica monetaria della BCE, il Next Generation EU. Quest’ultimo non mira soltanto a sostenere la ripresa dei Paesi economicamente più colpiti dalla pandemia, ma ambisce a ridisegnare l’economia europea, consentendo agli Stati membri di indebitarsi a bassi tassi di interesse per finanziare investimenti in infrastrutture, transizione ecologica ed energetica, trasformazione digitale e ricerca scientifica, mobilità sociale e contrasto alle disuguaglianze. Se il Next Gen sarà davvero efficace lo sapremo nei prossimi cinque anni, ma in caso positivo porrà le basi per la costruzione di una politica fiscale europea permanente. Molto dipenderà dalla volontà politica dei singoli Stati di raggiungere gli obiettivi prefissati e rispettare le condizioni imposte dalla Commissione europea in materia di riforme.
IL RITORNO ALLA GEOPOLITICA E LA GUERRA IN UCRAINA
Se il 2020 è stato l’anno del rilancio della politica fiscale europea, il 2021-2022 può rivelarsi il biennio decisivo per il rilancio dell’UE quale attore geopolitico. La guerra in Ucraina ha accelerato un cambio di postura dell’UE già in atto. La corsa ai vaccini, il congelamento della supply chain su scala globale, la carenza di semiconduttori, il caro energia sono tutti fattori che hanno portato i leader europei a rimettere in cima all’agenda l’autonomia strategica e la proiezione internazionale dell’UE, sostituendolo al dibattito economicista e autoreferenziale dell’ultimo decennio.
“Credo che l’Europa debba parlare con voce più forte e più unita sulla scena mondiale, e debba agire rapidamente. Per questo motivo dobbiamo avere il coraggio di adottare decisioni di politica estera a maggioranza qualificata e di restare uniti nel difenderle. La pietra angolare della nostra difesa collettiva sarà sempre la NATO. Resteremo transatlantici e dobbiamo diventare più europei. Ed è per questo che abbiamo creato l’Unione europea della difesa. I nostri sforzi per realizzare la nostra Unione europea della sicurezza e della difesa è parte integrante della sicurezza globale. La stabilizzazione non può prescindere da diplomazia, riconciliazione e ricostruzione”.
Queste le parole di Ursula von der Leyen nel suo discorso di insediamento a capo della Commissione europea nel luglio 2019. Secondo molti analisti, la von der Leyen in quell’occasione voleva porre le premesse per un cambio di passo dell’UE in campo strategico e geopolitico. Fedeltà agli USA, raffreddamento dei rapporti con la Cina (stop all’accordo sugli investimenti e sanzioni per violazione dei diritti umani nello Xinjiang), circospezione nei confronti della Russia e maggiore autonomia in campo energetico (Green Deal) e industriale (European Chips Act). Non mancavano e non mancano le ambiguità. Su tutte, la dipendenza energetica di Germania e Italia dalla Russia. Ma il dramma della guerra in Ucraina può determinare il cambio di paradigma definitivo. Dopo qualche tentennamento, la Germania ha sospeso l’approvazione del gasdotto Nord Stream 2 e l’Italia sta partecipando attivamente all’operazione di isolamento politico e finanziario della Federazione Russa (con riserva sull’esclusione dallo SWIFT della compravendita di idrocarburi) e di invio di armamenti per la difesa dell’Ucraina. Intanto, l’Ucraina sotto attacco ha avanzato la richiesta formale di adesione all’UE. Al di là della concreta possibilità di attuazione di questo percorso, siamo in un frangente della storia che può determinare il definitivo salto di qualità dell’UE, da Unione Economica e Monetaria a Unione Geopolitica.