La data 28 aprile 2021 verrà ricordata come una delle tappe che hanno contraddistinto la lotta per i diritti civili in Italia. É la data in cui la Corte d’assise d’appello di Genova ha confermato l’assoluzione degli imputati Marco Cappato e Mina Welby, dopo l’appello presentato dal pubblico ministero del tribunale di massa per il reato di istigazione e aiuto al suicidio. Questa vittoria rappresenta un occasione per proporre il referendum abrogativo che potrebbe portare alla decriminalizzazione dell’eutanasia in Italia.
Trentini era malato di sclerosi multipla dall’inizio degli anni ’90. La malattia aveva ormai raggiunto uno stadio di irreversibilità e di progressiva degenerazione che l’avrebbe portato inevitabilmente alla morte, nonostante le diverse terapie tentate.
Come egli racconta nella sua lettera d’addio, la sua vita era diventata “senza nessuna prospettiva”, si definiva “uno sgorbio”, e passava le giornate in bagno tra dolori continui e lancinanti. La vicenda ha quindi inizio con la richiesta di Davide Trentini ai due attivisti di essere accompagnato in Svizzera per ricorrere al suicidio assistito, a causa della situazione ormai disperata, e non prima di una lunga riflessione interiore. Trentini viene così accompagnato in quella che definisce la sua “sognata vacanza” da Mina Welby, con il supporto indiretto di Marco Cappato. Successivamente i due attivisti si autodenunciano in un atto di disobbedienza civile insieme all’associazione Sos Eutanasia, che ha avuto un ruolo fondamentale nella raccolta fondi per pagare la clinica e il viaggio. Il processo ha ufficialmente inizio il 12 novembre 2018 e, dopo due anni, esattamente il 27 luglio 2020, la corte d’assise respinge l’iniziale accusa del p.m., in quanto per l’aiuto al suicidio il fatto non costituisce reato e per l’istigazione al suicidio il fatto non sussiste.
La decisione della corte, così come la conferma in secondo grado, si basa su due cardini, fondamentali anche in un’ottica di una futura legge sul fine vita.
Il primo è la sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, emessa per riempire un buco normativo lasciato dal legislatore. Essa consente un ausilio all’esecuzione del proposito di suicidio, solo se autonomamente formatosi, di soggetti tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetti da patologie irreversibili che sono fonte di sofferenze fisiche o psicologiche reputate intollerabili, a patto che il soggetto sia capace di intendere e volere. In aggiunta, il processo deve essere supervisionato da strutture sanitarie nazionali e un comitato etico territoriale. Pertanto, siccome la corte ha ritenuto che sussistessero tutti i requisiti enunciati dalla sentenza 242/2019, i due attivisti sono stati assolti dall’accusa di reato di aiuto al suicidio, in quanto il fatto non costituisce reato.
È importante citare anche una delle contestazioni che, in sede d’appello, il p.m. Mansi ha posto all’attenzione della corte e che riguarda l’interpretazione di questa sentenza. Infatti, secondo l’accusa, la malattia di cui soffriva Trentini non sarebbe stata da considerare irreversibile, elemento necessario per rientrare nella casistica della 242/2019, poiché la morte non appariva imminente o definibile in un momento nel tempo. La corte d’appello, in risposta, ha prontamente smentito questa interpretazione, specificando che l’irreversibilità pertiene esclusivamente alla possibilità di regressione della malattia, impossibile nel caso in esame, e che la letalità o il periodo di tempo che intercorre prima della morte sono del tutto irrilevanti.
Il secondo elemento chiave, in realtà, si configura come prerequisito del primo, ma è centrale, in particolare, per l’interpretazione di una delle due accuse. Esso consiste nella capacità di autodeterminarsi del soggetto, che, nel caso trentini, è stata reputata sufficiente per prendere autonomamente e consapevolmente la decisione di chiedere il suicidio assistito. A fronte, dunque, del ruolo degli imputati, reputato dal giudice d’appello meramente accessorio, la contestazione del p.m. Mansi che li accusava di condotte “rafforzative” l’intento suicida è stata giudicata senza fondamento, così è stata confermata l’assoluzione per l’accusa di istigazione al suicidio.
Circa questi due aspetti cruciali per comprendere lo snodo del problema, è presente su AlterThink un approfondimento sia tecnico che di ampio respiro, in cui viene anche analizzato lo stato della legislazione sul fine vita in Italia e in Europa.
Perché questa sentenza è tanto importante?
Sebbene questi due capisaldi siano la base della decisione del procuratore generale e la base su cui fondare la legislazione sul fine vita, l’importanza di questa sentenza, nonché ciò che la rende effettivamente un passo avanti per una futura legge, risiede in un dettaglio che risponde direttamente alle ultime due contestazioni presentate in sede d’appello.
Il p.g., infatti, ha confermato la sentenza di primo grado che ha interpretato come “trattamento di sostegno vitale” non solo la dipendenza da un macchinario che mantiene in vita il malato, ma “qualsiasi trattamento sanitario alla cui interruzione conseguirebbe, anche se non in maniera rapida, la morte”. Con questa decisione nasce un precedente importante, che, sul piano teorico, estende la pronuncia della Corte costituzionale ad una potenziale maggiore platea, composta da coloro che, come Davide Trentini, sono tenuti in vita da farmaci o altri trattamenti. Nonostante il precedente non dia vita ad una nuova tutela formale, l’influenza sulla giurisprudenza sarà sicuramente rilevante, così come sull’opinione pubblica, che assiste alla normalizzazione di una pratica controversa (anche se il consenso attorno alla questione è ormai appurato da diversi sondaggi) e, talvolta, percepita come lontana dalla vita di tutti i giorni.
Il prossimo passo per ottenere una legge sul fine vita.
Il lavoro di Marco Cappato, Mina Welby, l’Associazione Luca Coscioni, Sos Eutanasia, così come tutte le alte realtà che lottano in prima linea per dei diritti sempre più necessari, non si conclude di certo con questa vittoria.
È infatti partita da poco la campagna “eutanasia legale”, che si pone come obiettivo raggiungere le 500.000 firme necessarie per proporre il referendum abrogativo dell’art. 579 c.p. nelle parti in cui punisce con la reclusione da sei a quindici anni il colpevole di omicidio del consenziente. Se il referendum venisse proposto e approvato, la cosiddetta eutanasia attiva non sarebbe più punibile dall’ordinamento, sia in forma diretta, ossia con il medico che somministra il farmaco eutanasico, sia indiretta, con la persona che assume autonomamente il farmaco; quest’ultima oggi è possibile entro la disciplina della 242/2019.
Pertanto, insieme ai risultati ottenuti con la legge sul testamento biologico e la tutela del paziente nei confronti dell’accanimento terapeutico, questo referendum porterebbe ad una decriminalizzazione dell’eutanasia, in tutte le sue forme, salvo se rivolta a minori, incapaci o individui il cui consenso sia stato carpito con l’inganno. Inoltre, eviterebbe ingiustizie che oggi i pazienti che richiedono un trattamento eutanasico, talvolta, subiscono, a causa della difficoltà di distinguere le diverse casistiche nell’ottica di individuare l’effettiva liceità rispetto al caso individuale. Con la normalizzazione di tutti i tipi di eutanasia non sarebbe più necessario soffermarsi su dettagli giuridici o medici per capire se è permesso concedere l’eutanasia ai malati che lo richiedono, aspetto particolarmente rilevante anche a fronte della frequente ambiguità di questi dettagli, che spesso ha come conseguenza un inevitabile immobilismo. In questo modo verrebbero tutelati sia medici che pazienti.
la responsabilità ora ricade sugli italiani: sarà la loro azione (o inazione) a determinare il futuro del diritto all’eutanasia.
L’iniziativa è supportata da diverse realtà, sia associazioni di promozione sociale che partiti politici, ma anche diverse figure in vista, e dal primo luglio inizierà la raccolta firme in tutta Italia. Tuttavia, così come afferma lo stesso Marco Cappato, l’impresa è tutt’altro che semplice: il termine di scadenza è il 30 settembre, le firme devono essere raccolte necessariamente mediante moduli cartacei, quindi di persona, e successivamente autenticate da un pubblico ufficiale volontario e certificate con certificato elettorale , tutto ciò in una situazione pandemica che è difficile prevedere quanto ostacolerà il processo. Perciò la campagna è già iniziata con l’attivismo sui social network, nelle realtà locali e con il sito web creato appositamente, referendum eutanasia legale, che permette a tutti i volontari di lasciare la propria disponibilità ad organizzare tavoli di raccolta firme, parteciparvi o autenticare le firme raccolte.
Prescindendo dall’esito della campagna e dell’eventuale referendum, in questi mesi si assisterà ad una risposta del tessuto sociale italiano su un argomento che negli ultimi anni è passato, per la maggior parte, sotto silenzio. Si avrà una risposta definitiva, almeno per il prossimo futuro, riguardo a ciò che gli italiani pensano circa un tema che appare tanto controverso, almeno ad una prima lettura superficiale.
Infatti, non sarebbe scorretto pensare che il vero punto della questione non sia ideologico, ma meramente pratico. la risposta che il popolo italiano darà a questo stimolo, che alcune persone hanno offerto al paese rischiando la loro libertà personale, non riguarderà tanto l’eutanasia, quanto più la capacità della maggior parte degli italiani di occuparsi di questioni che non riguardano un interesse nel breve termine e, di rimando, la loro capacità di partecipare al processo democratico come insieme di individui responsabili e consapevoli. Per questa ragione, se il referendum venisse ignorato, non sarebbe più possibile accusare la sola classe politica d’inerzia, comunque colpevole di non aver seguito le direttive della corte costituzionale, semplicemente perché questa inerzia si rivelerebbe, tragicamente, un modo alquanto fedele di rappresentare la volontà del popolo.