La disinformazione è uno dei fenomeni più interessanti del mondo digitale, che naturalmente si sviluppa ed evolve molto in fretta. Come gestire, quindi, le fake news? Se lo chiedono governi, amministratori dei social e tutti i singoli utenti che ogni giorno si relazionano con decine di notizie sul web. A questo proposito Matteo Hallissey ha intervistato il giornalista professionista Giovanni Zagni. Zagni, dopo aver pubblicato su Le Scienze, Il Foglio e Rivista Studio e aver lavorato nei quotidiani online Il Post e Linkiesta, è entrato a far parte di Pagella Politica nel 2015. Pagella Politica è l’unico sito italiano dedicato interamente al fact-checking delle dichiarazioni dei politici. Oggi Zagni è il direttore proprio di Pagella Politica e di Facta. Quest’ultimo è un progetto di fact-checking che si occupa di bufale, notizie false e disinformazione. Entrambe le testate appartengono all’International Fact-Checking Network.
Come stanno lavorando attualmente le istituzioni nazionali e internazionali in merito alle fake news? Riescono ad approcciarsi adeguatamente a un tema così complesso come la disinformazione, per un giusto equilibrio tra una censura sui social e invece delle piattaforme completamente libere?
La domanda è molto bella e quindi la risposta piuttosto complicata. Le autorità sono veramente in difficoltà di fronte a questo fenomeno, che sfugge ad ogni possibilità di essere normato. Nessun Paese occidentale, infatti, ha varato leggi nuove o particolarmente incisive sul tema. Hanno scelto di intervenire molto su questi argomenti quei Paesi illiberali e non democratici, dove queste leggi spesso si traducono in strumenti di censura usati, ad esempio, per perseguitare gli oppositori politici. In fondo si tratta di legiferare, dal punto di vista concettuale e filosofico, intorno alla verità e alla correttezza dell’informazione. Riguarda inoltre una sfera giustamente iper tutelata nelle nostre democrazie: la libertà di pensiero. Non a caso non rappresenta mai un reato non dire la verità, se non di fronte al giudice.
Ogni tentativo anche solo di analizzare o contrastare il fenomeno da parte delle autorità viene, giusto o sbagliato che sia, visto come un tentativo di censurare e limitare la libertà di espressione. Qualsiasi iniziativa che non sia di mera osservazione, come quella dell’AGCOM, viene accolta con una levata di scudi e non va molto in là. Si veda il breve e piuttosto infelice episodio della task force della Presidenza del Consiglio legata alle fake news sul Covid, subito criticatissima. Io ne ho fatto parte per qualche mese ed è stato difficile arrivare a risultati concreti. Non è quindi né necessario né auspicabile, secondo il mio personale punto di vista, un intervento legislativo da parte delle istituzioni. Trovo che quella per la corretta informazione sia una battaglia da combattere il più possibile nel libero mercato delle espressioni e delle idee.
Bisognerebbe che almeno nel campo dell’informazione, a differenza di quanto accade in ambito economico, dove la moneta cattiva “scaccia” quella buona, l’informazione buona scacciasse quella cattiva. Ciò dovrebbe avvenire in un libero scambio dove il singolo cittadino deve essere l’unico a scegliere in cosa credere. La promozione di una “buona informazione” non andrebbe fatta nel censurare un’idea o nello sponsorizzare un’altra, ma semmai più alla base nel dare gli strumenti corretti per relazionarsi con il mondo digitale ai cittadini, oltre che nel fornire un’istruzione adeguata per informarsi autonomamente.
Mi ha anticipato sulla questione della Commissione nei primi mesi della pandemia di Covid-19: quell’evento effettivamente ha fatto tornare alla ribalta una tematica importante come questa delle fake news.
Sì, è stato un episodio breve e per quanto mi riguarda piuttosto inglorioso. I fini erano neutri, come si nota dal decreto di nomina: studio e monitoraggio di un fenomeno ancora compreso pochissimo dal punto di vista delle autorità, che hanno le idee piuttosto confuse sia in merito al fenomeno della disinformazione, soprattutto per come si presenta oggi nel nostro ecosistema informativo, che su come funziona l’attività di fact checking. Nello specifico, dalla Commissione in questione avevamo anche pubblicato quasi subito un comunicato in cui si sottolineava che l’intento non era per nulla censorio, ma di mera osservazione, analisi e comprensione del fenomeno.
Questa cosa, per quanto non difficile da comprendere, non la si è voluta capire. Purtroppo anche la disinformazione, infatti, risulta ormai una battaglia politicizzata: chi parla di disinformazione e difende la necessità della correttezza dell’informazione viene aprioristicamente incasellato in una determinata parte politica e tra i volenterosi censori di un qualche ordine superiore, che sarebbe interessato al cosiddetto “pensiero unico”. Tutto ciò, ovviamente, è deprimente per chi si occupa di questa attività.
Era quindi un’iniziativa interessante che però non aveva proprio il consenso di base per essere portata a compimento.
Assolutamente, il progetto era potenzialmente molto interessante e poteva arrivare a capire cosa sappiamo e cosa non sappiamo della disinformazione in Italia, organizzando magari anche qualche buona campagna informativa su queste tematiche. Invece noi ad oggi non sappiamo, ad esempio, se ci siano influenze straniere e hub di disinformazione strutturati e radicati in Italia. Sarebbe sempre meglio comprendere di più questi fattori. Nei primi mesi abbiamo prodotto un documento e, almeno fino a quando sono stato presente io, eravamo ancora in fasi comunque molto preliminari.
Visto che le abbiamo citate, qual è il ruolo che hanno in questo contesto le iniziative nazionali e internazionali di fact-checking e come andrebbero gestite? Dovrebbero essere maggiormente finanziate e promosse dalle istituzioni, oppure ciò andrebbe evitato per mantenere indipendenza e neutralità?
Avendo due progetti di fact-checking ovviamente mi sento parte in causa e credo sia fondamentale che rimangano iniziative indipendenti, quindi non finanziate dal pubblico. Enti pubblici nazionali che vanno a finanziare progetti di fact-checking pongono sicuramente problematiche di terzietà e di indipendenza. Le iniziative di fact-checking, però, dovrebbero essere in grado di risultare un servizio valido ed essenziale per i cittadini, riuscendo perciò a stare sul mercato, in un certo senso. Anche se c’è chi dice che non servono, il ruolo dei siti di questo genere è importante per proporre dei luoghi dove viene detto analiticamente e razionalmente perché alcune notizie sono false.
La sfida è invece trovare un modo per sostenersi con le proprie gambe, magari facendo contribuire gli stessi utenti che lo desiderano o attraverso collaborazioni con giornali e social media – ambiti in cui noi abbiamo lavorato e lavoriamo. Il compito delle autorità è semmai quello di mantenere alta l’attenzione sul fenomeno delle fake news, come si trattasse di dinamiche come il dissesto idrogeologico o le scuole da riparare.
Certo, quindi sempre tematiche che colpiscono da vicino tanti cittadini e che è necessario non trascurare. Si è accennato precedentemente anche al ruolo dell’istruzione: come possiamo favorire un approccio alle notizie migliore attraverso il sistema scolastico? Andrebbero finanziati in questo senso più progetti di scuola lavoro, laboratori e magari anche lezioni dedicate a tali argomenti?
Ecco, questa è un’altra ottima domanda perché solleva due questioni fondamentali. La prima riguarda l’idea, a mio avviso un po’ ingenua, che la scuola debba favorire lo “spirito critico”: in realtà spesso la gente crede nelle fake news per un eccesso di spirito critico, non si fida di nulla e cerca di indagare sempre più a fondo dietro agli avvenimenti, fin troppo a volte, cercandovi sotto cose nascoste.
La questione dell’insegnare lo spirito critico mi pare troppo generica. Saremmo disponibili invece a fare fact-checking nelle scuole, ma penso sarebbe complesso e molto scivoloso rimanere neutrali nel farlo. La seconda riflessione, che invece mi convince di più, è l’introduzione di lezioni di base dedicate a come funziona l’ecosistema informativo in cui siamo immersi. Quando andavo a scuola io, e si stavano diffondendo i computer, c’erano lezioni volte all’insegnamento di alcuni aspetti fondamentali del loro funzionamento, per capire almeno perché un computer è una cosa diversa da una lavatrice.
Oggi non mi pare ci siano dei momenti in cui si possa parlare con gli studenti di come guadagnino le grandi piattaforme online come Facebook, di come funzioni lo smartphone che hanno in mano, del perché l’ecosistema informativo oggi si basi principalmente sull’attenzione, di come gestire le centinaia di notizie a cui siamo esposti ogni giorni e così via. Ci dovrebbe essere un’ora di educazione ai social network, o educazione al mondo digitale. Qui si possono fornire strumenti più descrittivi agli studenti, in maniera tale da renderli meno fruitori passivi e disarmati di fronte al digitale.
Una delle letture che più mi ha aiutato a mettere a fuoco questa esigenza è stata “Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere” di Roberto Casati. Si sottolinea proprio come abbiamo in mano un’arma potentissima, da cui riceviamo molte informazioni di cui spesso non conosciamo la provenienza. Le basi per comprendere questo mondo mancano di frequente anche alla classe dirigente e questo è un problema che va affrontato.
Dare questi strumenti ai ragazzi potrebbe essere un buon modo per insegnare loro delle basi solide per relazionarsi con il digitale, in maniera però neutra e senza il rischio di fornire un’accezione valutativa a queste lezioni.
Assolutamente, perché lo “spirito critico” invece vuol dire tutto e niente: ogni materia ha già bisogno di spirito critico. Fornire gli strumenti di base per navigare nel mondo digitale mi sembra un modo più concreto di affrontare il tema all’interno del sistema scolastico.
In merito ad un’altra proposta che alcuni studiosi hanno posto (cfr Giovanni Riva in Fake News): reputa che la possibilità di creare un patentino certificato per accedere ai social media da parte delle istituzioni, a seguito di un’esame, sarebbe un’idea attuabile e utile o al contrario pericolosa e da evitare?
Valuto la proposta in sé, senza conoscere da dove proviene. Credo che sia un po’ un’illusione, analoga a quella di chi vorrebbe un patentino per andare a votare. L’unico modo per introdurlo sarebbe infatti quello di valutare la conoscenza di nozioni. Sui social sarebbe difficile trovare queste conoscenze neutre e risulterebbe comunque poco efficace: anche un esame del genere non ci garantirebbe un uso migliore dei social da parte degli utenti. L’unico criterio a mio avviso deve rimanere quello anagrafico: dare lo smartphone a un bambino di sei anni è rischioso, ovviamente. Al di là dell’età non trovo, però, che dovrebbero esserci altri criteri.
Quali sono ulteriori accorgimenti che potremmo adottare individualmente per migliorare il nostro rapporto con il mondo digitale?
La cosa che a me affascina di più è essere in grado di individuare e valutare le fonti di ciò che leggiamo. Anche sui giornali, che sono pur ricchi anche di contenuti interessanti e ben fatti, è spesso difficile comprendere da dove derivino alcune informazioni. Sembra un lavoro banale, questo, ma non lo è. Se pensiamo ad esempio agli articoli sul mercato immobiliare, come facciamo a comprendere se chi li pubblica ha un conflitto di interessi o meno? Spesso neanche io riesco a ricavare se un determinato centro studi che ha dato quel numero sugli affitti di Milano ha le mani in pasta con gli immobiliaristi. Sono questioni che comunque danno forma alla nostra realtà.
Andare a ricostruire quali sono le fonti delle fake news ci permette di arrivare a coloro che le hanno create o diffuse. Spesso si tratta di persone e gruppi che vi hanno costruito sopra una carriera, oppure della propaganda di Paesi esteri. Mi è capitato una volta di imbattermi in quella iraniana, ad esempio. Dobbiamo poi renderci conto che oggi essere informati non è unidirezionale e diretto: leggo la notizia e sono informato. Questo poteva accadere cinquant’anni fa. Oggi venire a contatto con una notizia per la prima volta rappresenta l’inizio di un processo di elaborazione alla fine del quale forse saremo informati sul tema in questione.
Consideriamo ora alcuni casi particolari come quello di Byoblu o di Trump: a seguito di reiterati comportamenti scorretti e contro le norme della piattaforma, sono stati messi alla porta da YouTube o da social come Facebook e Twitter. È giusto in questi casi estremi che ci siano dei ban oppure crea solo maggiore polarizzazione?
Qualsiasi piattaforma non moderata e completamente libera diventa in poco tempo un luogo invivibile, come nel caso di 4chan. Nemmeno sul web può esserci una totale libertà. D’altra parte, però, le piattaforme non dovrebbero diventare nemmeno entità di fatto editoriali, che scelgono cosa pubblicare e cosa no. Le piattaforme online, tra l’altro, fanno di tutto per sottolineare che non sono editori e non desiderano esserlo. Non vogliono avere, infatti, la responsabilità diretta di qualsiasi contenuto pubblicato. Ci sono quindi in mezzo molte sfumature possibili. In generale non vedo bene i ban di queste piattaforme, che rendono quel fatto una notizia e danno maggiore visibilità alle persone escluse. Nel caso di Trump, hanno deciso di optare per il ban quando era ormai a fine mandato. Sarebbe stato più interessante vedere cosa sarebbe avvenuto, invece, con Trump ancora in carica.
Sicuramente questi social hanno anche riflettuto bene sul momento in cui attuare restrizioni nei confronti di Trump. In fondo da anni diffondeva fake news e disinformazione, ma sono arrivati provvedimenti molto forti soprattutto a fine mandato.
Certamente, sia Twitter che Facebook si saranno fatti tutti i loro conti. Io come dicevo, al netto dei casi di diffamazione e dei reati, credo che si debba lasciare tutti liberi di dire ciò che vogliono e sperare che sia l’informazione corretta a vincere. Possiamo immaginarci un mondo in cui Byoblu è più visto del TG1? Non è auspicabile ma potrebbe accadere. Dobbiamo avere fiducia nelle capacità di raziocinio delle persone e sperare che l’informazione corretta ne esca vittoriosa. Questi sono spesso fenomeni di reazione: tutti siamo d’accordo su una questione, come i vaccini, e allora qualcuno esce fuori con l’idea opposta, come nel caso di chi crede che i vaccini siano creati per impiantare microchip. Sono fenomeni di reazione rispetto a idee largamente condivise che avverranno sempre. Dobbiamo sperare che rimangano una nicchia di dissenso, anche utile, ma non esageratamente diffusa.