Una terribile peste dilaga a Napoli dal giorno in cui, nell’ottobre del 1943, gli eserciti alleati vi sono entrati come liberatori: una peste che corrompe non il corpo ma l’anima, spingendo le donne a vendersi e gli uomini a calpestare il rispetto di sé.
Così s’apre il romanzo storiografico di Curzio Malaparte, ‘La pelle’, perla della letteratura italiana. Lo scrittore è anche protagonista della narrazione della Liberazione di Napoli, vissuta come ufficiale dell’esercito italiano, al crepuscolo della seconda guerra mondiale. L’altra protagonista è la Pietà che accompagna il lettore e i personaggi della vicenda.
Non vi sono ideologie nel racconto della sofferenza del popolo napoletano, che pur avendo perso la guerra “non invoca il diritto di sentirsi un popolo vinto“ Questo non si sente né liberato né vinto, ma ancora in guerra. In guerra contro la miseria.
<<Oggi si soffre e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle. Si crede di lottare e di soffrire per la propria anima, ma in realtà si lotta e si soffre per la propria pelle, soltanto per la propria pelle. Tutto il resto non conta>>.
La teatralità dei napoletani dà spunto allo scrittore per inventare molti episodi del romanzo, ora verosimili ora assurdi e irriverenti. A tratti il grottesco e l’esagerazione sono quelli del Satyricon di Petronio. La caratteristica propria dei Napoletani è la Pietà.
<<Tutti piangevano, poiché un lutto, a Napoli è un lutto comune, non di uno solo, né di pochi o di molti, ma di tutti, e il dolore di ciascuno è il dolore di tutta la città, la fame di uno solo è la fame di tutti. Non v’è dolore privato, a Napoli, né miseria privata: tutti soffrono e piangono l’uno per l’altro, e non c’è angoscia, non c’è fame, né colera, né strage, che questo popolo buono, infelice, e generoso, non consideri un tesoro comune, un comune patrimonio di lacrime.>>
Pietà che provano verso sé stessi, mentre sono costretti a vendersi, insieme ai propri figli, per un pezzo di pane; pietà nei confronti degli americani, vincitori in un’Europa decadente; pietà verso il Vesuvio, che assume una grande carica simbolica. “Cristo era napoletano“.
La figura di Cristo è richiamata alla fine del romanzo, non tanto per spiegare finalisticamente il senso della sofferenza, della fame e della miseria, ma per innalzarle e spiegare la grandezza del popolo vinto e martirizzato- che non si sente tale. “La miseria, la fame, la paura, la speranza son cose meravigliose. Più che della ricchezza, più della felicità.“
Anche Cristo ha perso la guerra. Questa magnanimità tragica è dipinta prima nel capitolo la Pioggia di Fuoco e ne Il Dio morto.
La forza descrittiva di Malaparte arriva a far assaporare al lettore una fragranza, un sapore, una sfumatura del mare o del cielo, o un sentimento popolare. “L’alba lunare illuminava gli spenti deserti di cenere purpurea e di livide rocce di lava fredda, simili a rupi di ghiaccio nero“.
Ne La pioggia di fuoco viene raccontata l’ultima attività eruttiva del vulcano partenopeo nel 1944. “il Vesuvio urlava nella notte sputando sangue e fuoco“. E l’ira del ‘mostro’ risvegliava quella sociale, e l’antica fame del popolo napoletano. Tutti i sensi del lettore sono coinvolti nel caos, ed anche la narrazione e la descrizione sono febbrili. La piazza insorge come nei capitoli delle rivolte per il pane dei Promessi sposi. L’irrazionalità soverchia tutto e la paura accomuna i napoletani e i vincitori, gli americani.
Lo spannung emotivo trova il suo scioglimento al sorgere del sole, quando i bambini gridano ‘è fornuta! è fornuta!’. A fare da contraltare alla tragedia passata, Malaparte -con toni biblici- indica i sopravvissuti come purificati dalla comunione emotiva tra vincitori e vinti. <<Lavati dai loro peccati. Assolti della viltà, della miseria, della fame, dei vizii e dei delitti degli uomini. Avevano già scontato la morte, la discesa all’inferno, e la resurrezione.>> Per aspera ad astra.
Il capitolo il Dio Morto invece suggella la fine del romanzo. Viene raccontata la morte del Vesuvio.
Nonostante il terrore precedentemente provocato, anche il Vesuvio diviene oggetto di pietà.
Per il popolo il Vesuvio è un totem, un protettore che vigila dalla montagna, un dio. E quando “il gelo della morte aveva impietrito le sue vene di lava ardente“, lo spegnimento del vulcano è vissuta come un lutto collettivo dalla folla: <<qualcosa in lei era spento, la gioia della fame, perfino la sua miseria era triste, pallida, spenta. La folla alzava gli occhi rossi di lacrime mirando il Vesuvio sorgere bianco, freddo, spettrale contro il cielo nero.>>
La miseria e la fame dei napoletani costellano il romanzo, ma sempre accompagnati dalla effervescenza e da uno spirito vitale inscalfibile. La morte del Vesuvio è, però, simbolo di una ferita ben profonda dell’animo.
La folla compone una vera e propria processione, che s’avventura sui fianchi del vulcano offrendo offerte votive e pregandolo di “non abbandonare il suo popolo“, di dare ancora a questo linfa vitale nella sofferenza:
<<ogni tanto qualcuno s’inginocchiava, ficcava le dita nelle screpolature della fredda crosta di lava come fra gli interstizi delle lastre di marmo di una tomba, per sentir se il fuoco antico bruciasse ancora nelle vene del vulcano: e ritraendo la mano gridava con voce rotta dall’angoscia e dal ribrezzo: ‘È muorto! È muorto!>>
La morte del Vulcano nel romanzo di Malaparte è fortemente simbolica.
L’autore dice in maniera provocatoria che “vincere la guerra è una vergogna“. Lo è in quanto sorgerebbe un innato diritto sul vinto, che pone in una posizione di superiorità e prevaricazione. La vera vittoria è quella dei napoletani, perché fra i tanti morti c’era sicuramente “qualche Cristo“. Lo spirito e la libertà stanno nella pietà dei Napoletani. E così la morte del Vesuvio si deve intendere come possibile premonizione di uno spegnimento della spinta vitale e pietosa, dell’emozione, della compassione nella persona e nei popoli. E quindi il mondo morto descritto da Malaparte.
<<Rimasti soli, Jimmy ed io ci avviammo verso il luogo dove avevamo lasciata la nostra jeep. Mi sembrava di camminare sulla fredda crosta di un pianeta spento. Eravamo forse i due ultimi uomini della creazione, i due soli esseri umani sopravvissuti alla distruzione del mondo. Quando giungemmo sull’orlo del cratere, la tempesta era passata, la luna splendeva pallida nel cielo di un verde profondo. […]
Eravamo uomini vivi, in un mondo morto. Non avevo più vergogna d’essere un uomo. Che m’importava che gli uomini fossero innocenti o colpevoli? Non v’erano che uomini vivi e uomini morti, sulla terra. Tutto il resto non contava. Tutto il resto non era che paura, disperazione, pentimento, odio, rancore, perdono, speranza. Eravamo sulla vetta di un vulcano spento. Il fuoco che per migliaia d’anni aveva bruciato le vene di quel monte, di quella terra, di tutta la terra, s’era spento a un tratto, e ora a poco a poco la terra si raffreddava sotto i nostri piedi. Quella città laggiù […] era popolata non già d’innocenti e di colpevoli, di vincitori e di vinti, ma d’uomini vivi vaganti in cerca di che sfamarsi, d’uomini morti sepolti sotto le macerie delle case. >>