Lavorare “a metà strada” si può: a dimostrarlo è la storia. Come? Ripartendo dalle idee, non dalle accozzaglie per tutte le stagioni. Scelte nette in senso liberale e autonomia dalla “vecchia politica” non possono che stare in pole position fra i cardini di un nuovo fronte, orgogliosamente “centrista”. Spunti d’idealismo per un laboratorio moderato nelle idee ma distintivo nei concetti. Con consigli non richiesti a Carlo Calenda.
“Serve un fronte da Bersani a Giorgetti per Mario Draghi a Palazzo Chigi anche dopo il 2023” ha sostenuto Carlo Calenda dalle colonne di Repubblica.
Ora, dell’iniziativa teorizzata finora si è letto finora poco. Non è comunque la prima volta che il leader di Azione manifesta l’ambizione di spezzare quello che lui definisce “il bipolarismo fra populisti e sovranisti” unendo, nel nome “della competenza e del pragmatismo” soggetti parlamentari l’uno agli antipodi dell’altro: dalla sinistra bersaniana alla “corrente presentabile” della Lega di Giancarlo Giorgetti, dagli antisovranisti “tendenza Carfagna” di Forza Italia ai socialisti vecchia maniera guidati da Enrico Letta.
Pur nella fiducia e nella stima che riserva al Presidente del Consiglio in carica, chi scrive trova decisamente provinciale questa messinscena di buona parte dell’arco politico, che individuerebbe nell’ex Presidente della BCE un “capo del governo a vita” dal momento che “l’artri ce fanno schifo”.
Ancor più improbabile è l’ipotesi che la sua disponibilità a spendersi in prima persona per risollevare la povera Italia, travolta dalle macerie del Covid, possa tradursi in un’implicazione politica diretta volta a “compattare” un’armata Brancaleone di inguaribili europeisti indisposta ad accettare Mastella (“Mastella? Ma per favore!” l’istrionico Carlo tuonò) di cui però ricalcherebbe fedelmente, se così concepita, le attitudini politiche.
Un progetto sbagliato per una causa giusta
Se da un lato, infatti, come giustamente spiega l’ex candidato sindaco di Roma, sussiste effettivamente la necessità di costruire un’alternativa ai populismi di destra e di sinistra muovendo da ferme convinzioni filoeuropee e dalla non negoziabilità dei valori liberal-democratici, è francamente mortificante che chi aspira a issare la bandiera di questi principi debba costantemente ricorrere alla teoria sterile, oltre che stucchevole, della morte delle categorie di destra e di sinistra. Omettendo forse che, a sdoganare per prima questa teoria anestetizzante e disfattista sia stata proprio la narrazione populista grillina.
Messaggio ai liberali: siate europei, non solo italiani
La natura ectoplastica di un disegno così largo e malleabile si scorge nell’assenza di specifiche imprescindibili per il rilancio di un soggetto politico d’ispirazione liberale: è abbastanza strano che, per esempio, il leader di Azione non abbia mai toccato, neanche velatamente, il tasto dell’apparentemente accantonato sogno federalista europeo. Eppure “Azione”, il partito di Calenda, nasce, per definizione del suo fondatore, nel solco della cultura liberal-socialista di Carlo Rosselli e poi del Partito d’Azione.
Il complesso di idee consegnato ai posteri dalle suddette esperienze diede un contributo determinante alla stesura del Manifesto di Ventotene e agli atti fondativi del Movimento Federalista Europeo. In ragione di ciò, chi scrive ritiene che, per ricostruire un vero fronte centrista, non si possa ripartire da metodologie astratte, pragmatismi spicci o prerequisiti teorici (“l’Europa” genericamente intesa, o la democrazia liberale), senza rimettere al cuore della propria Carta la funzione politica dell’ideale.
“Credere nell’Europa”, in sé, vuol dire poco: è una frase che qualsiasi sovranista potrebbe fare sua, magari citando a sproposito De Gaulle. In quale Europa si vuol credere? Quali valori europei dobbiamo scolpire ed ergere a punti cardinali di un nuovo “motore riformista”? In quali ordini dovrà innestarsi l’evoluzione del ruolo geopolitico del Vecchio Continente?
Tutto tace. Dobbiamo veramente rassegnarci all’idea di un’UE prona ai diktat di Orban, ai risvegli storti della Corte Costituzionale polacca? Possono le ultime guarnigioni liberali europee accettare con remissivo silenzio le debolezze di un’intesa, quella fra socialisti e popolari, alle prese con evidenti difficoltà, incrementate dagli scricchiolii dell’uno e dell’altro polo?
No. È dovere di chi ancora si approccia alla politica con una certa fiducia credere che, fra queste due storiche formazioni, si possa stagliare non solo uno spazio di raccordo, ma un vero e proprio versante orgoglioso di porsi al “centro”.
Cosa resterà del pensiero moderato?
A onor di verità, va detto che l’ex candidato sindaco ha tenuto a specificare, nell’intervista rilasciata a Repubblica, di non voler lavorare per sviluppare “nostalgie di moderatismo”.
Nessuno lo aveva accusato di ciò, in realtà. Peraltro, la vergogna e l’imbarazzo di dirsi “centristi” rientrano in un novero di vizi tipicamente italiani. L’antica massima In medio stat virtus sarebbe considerata politicamente ripugnante, nell’epoca del timore di non posizionarsi mai abbastanza agli estremi. Lo stesso Christian Lindner, leader della FDP, forte di un risultato inarrivabile, allo stato attuale, per qualsiasi soggetto liberale italiano, ha più volte detto di volersi impegnare affinché la Germania “venga ancora una volta governata al centro”. Possibile che nessuno dai palazzi romani si metta in ascolto ?
Un vecchio fenomeno di malcostume italiano, alimentato anche dagli stravolgimenti di Tangentopoli, vuole l’instaurazione di una correlazione quasi spontanea fra la “peggior Democrazia Cristiana”, associata alle sue personalità più controverse, come Ciriaco de Mita, e la collocazione centrista. Lo stesso aggettivo “democristiano” viene – quasi sempre impropriamente – utilizzato per accusare di cerchiobottismo chi, politicamente, sposerebbe chiunque pur di ricavare dalle nozze un minimo tornaconto.
Riecheggia ancora la Balena Bianca…
Ora, sulla DC in sé si potrebbero scrivere – e sono stati scritti – articoli, libri, saggi. Rispetto, riverenza, stima, critica puntuta e sagace: convivono molteplici prospettive di giudizio nel pensiero dell’autore di questo articolo, troppo giovane per pretendere di valutare appieno il lascito sconfinato di quella scuola, che, nella sua espressione degasperiana, resta fra le più rispettabili e compiante esperienze politiche della storia del Dopoguerra.
Sicuramente, pare inverosimile assai che un nuovo cartello centrista del XXI secolo possa prendere le mosse dalla tradizione democristiana, per due motivi sostanziali: il bisogno cruciale di un presidio laico, in una fase in cui la caccia al voto cattolico pare essere diventata lo sport prediletto dai politici assetati di consensi, in primis. In secundis, l’importanza di imprimere sull’iniziativa un marchio fermamente liberale.
Sarebbe infatti ridicolo uno schema di gioco contrapposto ai movimenti populisti ma, come loro, nostalgico del discorso statalista primo-repubblicano avallato anche dai governi democristiani. Dimenticabili restano ricordi infausti di esso, fra cui i mitologici panettoni di Stato – con la Motta caduta sotto il controllo dell’IRI – e lo spregiudicato sfruttamento dell’istituto previdenziale pubblico a beneficio di pochi privilegiati.
La necessità di rompere con il passato
A politiche ben diverse spetterà l’onere di assumere una postazione prioritaria nel nuovo “manifesto al centro”: se, sicuramente, le prese di posizione di Calenda circa l’azione ostruzionista e caparbia di alcuni sindacati contro le riforme del sistema pensionistico suscitano un certo interesse, ci si domanda lecitamente come egli possa pensare ancora di intrattenere un dialogo serio con un partito che bollava come “calunnie” le proposte di privatizzare le municipalizzate più in difficoltà.
Congiunture politiche insite nel circuito italiano mettono tuttavia nel mirino chiunque ancora avanzi preoccupazioni sull’indebitamento forsennato o sollevi perplessità su certi capitoli di spesa esorbitanti da “Repubblica dei garantiti” puntualmente reiterati da tutte le leggi di bilancio, additandolo al “pericolo neoliberista” (quando lo stesso segretario del PD Enrico Letta ha candidamente ammesso come “in Italia non vi sia mai stata una politica liberista”).
Modelli gloriosi per un nuovo programma
A rendere ipotizzabile che un’iniziativa nata da una spinta moderata possa avere una sua cittadinanza e degli orizzonti di successo anche nelle fasi storiche contraddistinte dall’invaghimento di massa per gli opposti estremismi, sono numerose esperienze fortunate: il pensiero corre per esempio alle glorie dell’Unione per la Democrazia Francese di Valéry Giscard d’Estaing, eletto Presidente in Francia nel 1974, in una République d’Oltralpe ancora sconvolta dai riverberi sessantottini, o alla vittoria messa a segno dall’homo novus Emmanuel Macron alle elezioni del 2017.
VGE e Macron si assomigliano solo sotto alcuni profili – fra cui proprio l’indomito e passionale europeismo – ma condividono sicuramente il successo nell’impresa, da pochi completata, di essere riusciti a scalzare la destra gollista dal secondo turno della partita per l’Eliseo.

Era, poi, sicuramente una donna di centro Simone Veil, prima esponente politica a dare battaglia per la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza in Francia, che riuscì a fare approvare piegando le resistenze provenienti soprattutto dal governo di sensibilità conservatrici di cui era Ministra della Salute. Madame Veil sarebbe poi divenuta anche prima Presidente del Parlamento Europeo, e ispiratrice di un progetto politico umanista e liberale rimasto senza interpreti.
Per molti aspetti, si è contraddistinta per una linea “centrista” anche la leadership di Angela Merkel in Germania: una strategia che ha pagato, anche in termini di autorevolezza internazionale. Nessuno si sognerebbe di affibbiare a due statiste del loro calibro l’etichetta “né carne né pesce” propria di molti ultimi mohicani del centrismo all’italiana, fra cui il già citato Clemente Mastella. Nella difesa arguta, ma garbata ed eloquente, di idee tutt’altro che scontate o polverose sta forse la sfida più difficile del nuovo “centrismo”.
La lezione di Giovanni Spadolini

Con l’amaro in bocca, si incontrano difficoltà a citare frontiere sviluppatesi non oltreconfine: molti sono stati i tentativi di offrire, a un Paese che al “centro” è stato governato per quasi cinquant’anni, nuove prospettive politiche di equilibrio e stabilità. Molti di essi sono scaduti nella vana tentazione di ricalcare la Balena bianca democristiana – si pensi all’Unione di Centro – mentre altri hanno risentito dell’eccessiva polarizzazione del clima politico, si vedano gli esempi poco edificanti del Patto di Mariotto Segni o di Scelta Civica di Mario Monti.
Il più radioso degli spiragli laici in terra nostrana, forse, resta rintracciabile solo in un’esperienza tanto di nicchia quanto unica nel suo genere: il Partito Repubblicano Italiano di Giovanni Spadolini, rimasto per molti anni nell’ombra a causa della prepotenza dei due pesi massimi del mitologico Pentapartito (DC e PSI) e della massiccia opposizione del PCI di Berlinguer. Un partito di valore, un laboratorio quasi futuristico, rimasto schiacciato dall’italianissima commistione fra l’arte del compromesso, una delle cifre della politica, e la spartizione arbitraria degli spazi di potere.
Il fronte repubblicano…
Gli agglomerati e le mescolanze pasticciate, ancorché protette dal buon samaritano Draghi, non producono solitamente nulla se non effetti antitetici a quelli per cui erano stati faticosamente messi in piedi. A riprova di ciò, ricorrono noti precedenti storici: molti italiani non ricordano forse quel presidio elettorale nato nel 2002 per mano di Jacques Chirac quando, a seguito della débâcle netta del Partito Socialista, la Francia si trovò costretta a fare i conti con lo spettro di una vittoria, al secondo turno delle elezioni presidenziali, del frondista di estrema destra Jean Marie Le Pen, ideologo ante litteram del populismo reazionario.
O l’autolesionismo della buona destra?
L’appello di Chirac, teso alla compattazione di un “fronte repubblicano” largamente popolato da elettori e partiti di varie estrazioni in funzione anti-estremista, riuscì sì nell’intento di riportare la destra gollista all’Eliseo, ma spianò contemporaneamente la strada all’implosione della stessa, agevolando l’ascesa micidiale del partito di casa Le Pen sotto la guida di Marine. L’ultimo addio ai sogni di gloria di chi ancora riponeva le proprie speranze – forse idealisticamente – in istanze conservatrici, liberali e repubblicane, certo lontane da quelle propugnate dall’eversiva macchina lepenista.
Sostituite, nello scenario in questione, l’estremismo con il populismo e papà Le Pen con Giorgia Meloni, quindi ponete a un elettore liberale (del Pd, di Azione, di Italia Viva o anche di Forza Italia) la seguente domanda: a quale scopo, l’esercito dei moderati “per Draghi forever”? Ha senso abbozzare un collage politico di persone che fra di loro hanno in comune, oltre all’indubitabile serietà, solo i capelli ben pettinati e la cravatta correttamente annodata?
Contro le ammucchiate, la politica delle idee
La buona politica individua la propria ragion d’essere in discorsi tranchant, urticanti, divisivi: non v’è buona politica che prescinda dalla battaglia delle idee. Il francese, mediante l’espressione combat des idées, rende meglio il concetto. Ciò non esclude a prescindere strumenti quali l’interlocuzione o l’alleanza, ma scommettere sull’idea di aggregare, partendo da alcuni scampoli dei singoli partiti, socialdemocrazia spinta, cristianesimo democratico e liberalismo in un calderone raccogliticcio “per chi crede nella democrazia liberale” equivale ad annichilire la natura pluralista della medesima: la concorrenza fra i Davide e i Golia, basata sullo scontro dialettico di prospettive variegate e fra di esse antitetiche.
Un primo mezzo funzionale alla resistenza contro le recrudescenze oltranziste e demagogiche non potrà che trovarsi in una riscoperta delle identità politiche: solo sul campo delle idee, ferme, caratterizzanti e opportunamente suffragate, si troverà l’opportunità di dare filo da torcere a chi ancora pensa di sciogliere nel semplicismo e nella superficialità le complesse partite del nostro tempo.
L’importanza di chiamarsi Carlo
Individuare in Carlo Calenda un punto di riferimento politico è cosa naturale per chi oggi ancora crede in un repertorio valoriale liberale: è infatti lui l’esponente politico che, per ora, sta portando avanti il discorso più serio in questo campo, affrontando le giuste tematiche – si pensi all’istruzione o al dissesto idrogeologico – con un approccio obiettivo e intellettualmente onesto.
Tuttavia, alla luce delle riflessioni condotte, ci permettiamo di sottolineare – garbatamente – la differenza che intercorre fra un cantiere vero, di lungo termine, e una coalizione mirata solo ed esclusivamente ad ancorare Mario Draghi alla poltrona di Palazzo Chigi, peraltro senza un consenso manifesto dell’interessato. Sarebbe deleterio per Azione trasformarsi in un annaffiatoio di voti per partiti nati nel brodo di coltura del bipolarismo, sotto la maschera di “soggetto federatore” di “maggioranze Ursula”. Un disonore, più che per i vertici nazionali, per i tanti ragazzi e le tante ragazze che, compiendo una scelta di campo, hanno prestato, in questi due anni, il loro impegno a un partito dalle sorti non prevedibili.
Evitare i guazzabugli, costruire sul campo
In termini di redditività governista, una rincorsa di nuovi baricentri in situazioni restie al rinnovamento – quello di Forza Italia soprattutto – potrà forse risultare più profittevole. A farne le spese, invece, saranno il prestigio e la stima di cui gode, presso tanti giovani ma non solo, l’unica figura vagamente “nuova” da cui possa trarre giovamento il polveroso scenario politico di casa nostra.
Cercare la matrice di una nuova intesa liberale in perimetri politicamente troppo estesi rischia di rivelarsi invece dannoso, salvo che al posto di un vero laboratorio non si intenda mettere in piedi un classico rendez-vous di politique politicienne per far fluttuare i voti di una parte della piccola borghesia italiana. Confidiamo tutti che negli intenti di Calenda non ci sia un tale obiettivo.