La responsabilità del reddito di cittadinanza e l’irresponsabilità (e irrazionalità) del mercato del lavoro

8 Settembre 2022

Il reddito di cittadinanza è una chimera. Fa tanto bene quanto danno. Da molti è considerato un elemento problematico per la società e per l’economia. Così come moltissime misure assistenziali. Ma siamo realmente sicuri che sia una misura così tanto deleteria? I dati legati alle violazioni, irregolarità e illegalità fanno emergere uno spaccato particolare. Come per ogni cosa in Italia, del resto.

Sul totale degli accertamenti effettuati, le irregolarità nella quantificazione o nella spettanza effettiva sarebbero molto meno di uno su cinque. Nel primo semestre del 2022, i dati attualmente pubblici delineano uno scenario in cui la soglia di irregolarità e violazioni sta al di sotto del 10% del totale degli accertamenti, tra errate quantificazioni dell’INPS e indebite spettanze. In un anno sono poco più di 123.500 le irregolarità appurate su una platea di 3 milioni di verificati. Di questi, 29.000 circa i casi di violazione della legge.

Se da un lato questo fa riflettere, esiste anche il rovescio della medaglia. Stanti i dati degli ispettorati del lavoro, almeno due attività economiche organizzate su tre, in Italia, compiono irregolarità in danno ai lavoratori. Le irregolarità, da quelle bagatellari alle più gravi, sono quasi sempre plurime. E tra le principali irregolarità registrate ci sono elusioni o violazioni delle norme sulle retribuzioni tabellari, comportamenti vessatori, violazione degli orari di lavoro, irregolarità nelle assunzioni, irregolarità previdenziali, violazioni di norme sulla sicurezza sul lavoro eccetera.

Tutto questo non è responsabilità del reddito di cittadinanza. Le violazioni sono accertate dagli ispettorati del lavoro da decenni. Nel solo 2021, su solo 84.679 imprese ispezionate, sono 58.679 quelle in cui sono state appurate delle violazioni in danno ai lavoratori. Un’incidenza del 69%. Complessivamente più di 480mila violazioni verso i lavoratori (Allegato 13-A, rapporto annuale INL 2021). 

Le violazioni di legge dei furbetti del reddito di cittadinanza sono costate 171 milioni, e altri 117 stavano per costarne. Le sole violazioni delle imprese accertate dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro nel 2021 ammontano a 1,1 miliardi, tra danni ai lavoratori e danni ai conti pubblici. Uno squilibrio di non poco conto.

I problemi sono quindi di due ordini. Da un lato l’inadeguatezza del mercato del lavoro. Dall’altro l’inadeguatezza dei mezzi.

Il problema del mercato del lavoro non è dato di per sé dal mercato, né dalla domanda né dall’offerta. Il mercato, semplicemente, non garantisce il giusto: non contempera libertà personale e giustizia sociale. Meglio ancora: non garantisce i datori di lavoro quanto i prestatori di lavoro.

I datori di lavoro non hanno mezzi per abbattere il costo del lavoro, con la conseguenza di ricorrere spesso a sotterfugi o a meccanismi drogati. Uno di questi, che deresponsabilizza il datore di lavoro perché lo Stato non vuole assumersi e fargli assumere responsabilità, è lo strumento della Cassa integrazione.

Per sua natura, il datore di lavoro che abbia un’attività economica organizzata cerca l’utile, il quale è un diritto sacrosanto. Ciò che, tuttavia, bisogna evitare è che per raggiungere l’utile invece di incrementare i ricavi si abbattano i costi sociali. Questo perché l’attività economica ha una funzione non solamente patrimoniale, ma anche e soprattutto sociale.

La responsabilità sociale dell’attività economica è imprescindibile per lo sviluppo economico, umano e sociale di un paese e di una collettività. Per rendere concreto questo postulato serve sicuramente un impegno da parte dello Stato. Ma non serve inimicizia nei confronti dell’economia privata. Al contrario: serve amicizia e supporto.

Ma al contempo serve la responsabilizzazione sociale degli attori economici. Il costo sociale non può essere negoziabile. Può essere il costo del lavoro, che benché funzionale va abbattuto. Non è possibile che ad un datore di lavoro un lavoratore che riceva 1.000 euro di netto costi più di 1.800 euro.

Dall’altro lato non è neppure giusto che il datore di lavoro aggiri le proprie responsabilità scaricandole sui prestatori di lavoro. L’utilizzo di contratti particolari, come i contratti di collaborazione continuata, i part time a tempo determinato, i contratti a partita Iva, scaricano la responsabilità datoriale sui prestatori o la eludono.

Per la deresponsabilizzazione dei datori di lavoro, molti contratti e forme nuove di flessibilità portano i lavoratori a lavorare, spesso, a condizioni molto svantaggiose. Le imprese, spesso, non agiscono più da sostituti di imposta e pagano poco, o a cottimo, i lavoratori. Lavoratori che vengono, conseguentemente, tenuti ad assolvere agli oneri a cui sarebbe tenuto il datore di lavoro. Si pensi alcaso di alcuni dipendenti a partita Iva pagati con un fisso basso e con un cottimo molto aleatorio. Questi, retribuiti a lordo, sono tenuti ad adempiere a tutti gli oneri spettanti, normalmente, al datore.

Per non parlare, ovviamente, dei liberi professionisti. Retribuiti o tantissimo o poco e niente. Il tutto pagando tasse e costi incredibilmente elevati.

La necessità non è dunque quella di abolire il reddito di cittadinanza. È, al contrario, rivedere tutto il mercato del lavoro. Imporre una responsabilità sociale al privato che agisca con uno stato amico è il primo passo. Garantire retribuzioni più elevate ai prestatori di lavoro senza violazioni, irregolarità o elusioni da parte dei datori, è una necessità sociale ed economica.

Come può, infatti, avere garanzie di sopravvivenza un giovane che, al sud, ottenga solo una proposta di lavoro per 300 euro al mese? Come può un giovane in centro Italia a vivere da solo in affitto con 500 euro al mese? O come può un giovane lavoratore a sopravvivere al Nord con una retribuzione di 800 euro lordi al mese?

Rendiamoci conseguentemente conto che esiste una responsabilità sociale anche dello Stato. Se si garantiscono infatti gli strumenti per eludere garanzie retributive e di stabilità lavorativa e reddituale si trasforma, automaticamente, il mercato in una rivendita all’ingrosso di carne da macello.

La macelleria sociale, amabilmente chiamata con il termine anglofono di “dumping” sociale e salariale, in Italia è una realtà. E se non si pongono degli argini seri a questa pericolosa deriva, allora ha ragione il mio collega giuslavorista Niccolò Musmeci: nessuno, soprattutto giovane, sano di mente in Italia può aver voglia di lavorare dal momento che non ci sono le condizioni umane ed economiche per garantire un lavoro equo, giusto, stabile, appagante e giustamente remunerato.

Il reddito di cittadinanza è dunque una misura utile, per quanto contestabile. Sicuramente da migliorare. E necessariamente c’è da intervenire sulle politiche attive per il lavoro, praticamente assente nell’ultima legislatura, sui PUC, quasi ovunque non attuati, e sulla formazione professionalizzante, totalmente assente.

Gli interventi sono necessari. Ma dire che sia una misura da eliminare tout court è lucida follia. Forse cliente di una mentalità che vede il lavoro solo come un accessorio e il prezzo sociale da sostenere solo un accessorio negoziabile.

Italia gioventù di sussidiati? A valutare opportunamente, no. Forse, più propriamente: gioventù privata della speranza dal mercato, ma che non accetta lo schiacciamento proveniente dal mercato stesso.

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