The keys to the White House è un saggio politico scritto nell’ormai lontano 1996 da Allam Linchtman, uno storico statunitense, celebre per il sistema previsionale formulato attraverso 13 domande a risposta dicotomica (VERO o FALSO), che tenta di pronosticare il candidato vincente delle presidenziali americane. Il modello si incentra sulla convinzione che l’esito elettorale non sia frutto delle capacità carismatiche dei candidati in corsa, ma piuttosto dettato dalle prestazioni offerte dall’amministrazione uscente. Le 13 domande sono pertanto focalizzate sulle prestazioni di quest’ultima nei 4 anni di governo. Qualora di tali risposte 6 o più risultino false, le chiavi della Casa Bianca passerebbero al partito sfidante.
Il modello in questione ha mostrato nel corso di diverse elezioni la sua efficacia indicando puntualmente il vincitore del voto popolare, ma mancando di prevedere in due occasioni l’elezione dell’effettivo presidente. Seppur questo possa sembrare controintuitivo in effetti lo è solo in parte. Infatti nel 2000 e nel 2016, il modello prevedeva la vittoria di Al Gore e Clinton, quest’ultimi vinsero il voto popolare ma non conquistarono la presidenza a causa del sistema elettorale tuttora vigente di natura maggioritaria e articolato per grandi elettori, che non necessariamente rende presidente colui che ottiene più voti. In ogni caso, trattare degli opinabili deficit democratici propri del sistema elettorale statunitense non è l’intento dell’articolo qui presentato, che si prefigge piuttosto di prendere in prestito il modello del dott. Linchtman per analizzare brevemente l’operato dell’amministrazione trumpiana, cercando di individuare il futuro vincitore del voto popolare rispondendo alle 13 domande.
LE 13 CHIAVI
- dopo le elezioni di medio termine il partito in carica ottiene più seggi alla camera rispetto alle precedenti elezioni? FALSO. Il partito repubblicano ottenne notevolmente meno seggi alle ultime midterm election perdendo la maggioranza alla camera. Questo corrispose ad un azzoppamento dell’esecutivo che si vide fortemente indebolito nell’azione di produzione legislativa mediata dal parlamento
- non esiste competizione in seno al partito in carica per la nomination? VERO. Con Trump assistiamo al proseguimento del processo di personalizzazione politica e partitica già precedentemente in atto. Trump è egli stesso il partito repubblicano, ciò che dice e fa diviene la linea politica del partito e nessuno all’interno di quest’ultimo è politicamente forte abbastanza per poterne sfidare la leadership.
- il candidato designato dal partito in carica è il presidente uscente? VERO.
- non esistono significative campagne da parte di un terzo partito? VERO. Il bipartitismo americano resta, come direbbero oltreoceano: “rock solid”
- economia nel breve periodo: l’economia non è in recessione durante la campagna elettorale? FALSO. Causa Coronavirus gli USA si trovano in un momento di chiara recessione economica. In aggiunta, non sarebbe motivo di stupore apprendere che buona parte dell’elettorato americano incolpi direttamente il presidente attualmente in carica per la crisi in corso. Sono infatti state almeno parzialmente le avventate decisioni di quest’ultimo in materia di prevenzione del contagio che hanno intensificato i già dirompenti effetti economici di COVID-19.
- economia nel lungo periodo: la crescita economica è uguale o superiore alla crescita media durante i due periodi precedenti? FALSO. Nonostante Trump venga spesso elevato a grande statista in campo economico, la crescita del paese sotto la sua amministrazione, seppur percentualmente positiva, non è aumentata a tassi percentuali superiori rispetto agli otto anni dell’amministrazione Obama.
- l’amministrazione in carica ha effettuato importanti riforme nella politica nazionale? VERO. Seppur non esattamente un uomo di sinistra Obama tentò di implementare dei modelli di welfare che, anche se considerati rudimentali in comparazione ai sistemi di previdenza sociale europei, rappresentarono comunque svolte rivoluzionare per gli States. Inoltre, si attivò concretamente per una politica di stampo progressista, volta a garantire un ampliamento dei diritti individuali, evitare conflitti sociali, tutelare le porzioni più svantaggiate della fortemente diseguale società statunitense. Trump e le sue politiche hanno inequivocabilmente rappresentato l’esatta antitesi alla visione di intendere la presidenza propria del suo predecessore.
- non si sono verificati disordini sociali prolungati durante il mandato? FALSO. Gli scontri sociali sono stati molteplici, intensi e prolungati. La società americana appare sempre in maggior misura razziale e polarizzata. Lo scontro sociale è inevitabile conseguenza di tali tendenze.
- l’amministrazione in carica non è contaminata da scandali? FALSO. Di scandali se ne possono citare molteplici. Si può spaziare da denunce per molestie sessuali, ai processi di impeachment per il Russiagate o per le pressioni esercitate sul governo ucraino, per passare poi ad atti politici quantomeno questionabili come la nomina a segretario di stato di Rex Tillerson, CEO di ExxonMobil (compagnia petrolifera da oltre 270 miliardi di fatturato) e il conflitto di interessi che tale nomina rappresentò quando quest’ultimo firmò accordi miliardari con la Russia. Ma la lista è chilometrica e questi non sono che alcuni esempi.
- l’amministrazione in carica non ha subito gravi fallimenti negli affari esteri o militari? VERO. Nonostante la politica estera e militare di Trump sia spesso giustamente oggetto di critica, sarebbe fazioso decretare che quest’ultima abbia portato ad effettive sconfitte militari o abbia fallito nel tutelare gli interessi nazionali. Di certo l’uccisione di Qasem Soleimani poteva essere un pretesto per un conflitto ad alta intensità tra IRAN e USA ma di fatto poi la tensione si è rapidamente spenta. Chiaramente la lotta commerciale e daziaria con la Cina poteva destabilizzare l’economia mondiale e compromettere al contempo il benestare di quella americana; ma si è finora sostanziata nel quasi esclusivo soddisfacimento degli interessi americani. Non vi è poi dubbio che il progressivo ritirarsi delle forze militari americane in Medio Oriente e altrove abbia rappresentato causa di instabilità e sofferenze per altre popolazioni (basti guardare all’esperienza curda; in seguito alla ritirata americana essi si videro militarmente invasi dall’esercito turco al confine con la Siria) ma questo non ha rappresentato una sconfitta militare diretta per gli americani né un ingestibile perdita di influenza internazionale. In sostanza, la politica estera USA nell’era trumpiana può essere soggetta a critiche etico-morali di diverso tipo, ma non pare finora aver decretato sopraffazioni militari o precluso la tutela della sicurezza nazionale.
- il candidato in carica ha ottenuto un grande successo negli affari esteri o militari? FALSO. Come è intellettualmente giusto sostenere che Trump non ha recato danno eccessivo all’interesse nazionale, è al contempo inesatto sostenere che l’azione estera di quest’ultimo abbia portato a importanti vittorie o ad una rivalorizzazione del ruolo internazionale degli USA nel mondo.
- il candidato in carica è carismatico? VERO. Il carisma di Trump non è questionabile. Con la sua astuzia politica e propagandistica ha saputo intercettare al meglio un momento storico di rinnovato nazionalismo e, forse inconsapevole, necessità di populismo e demagogia da parte dell’elettorato. Questi caratteri lo hanno reso presidente e sono sinonimi di carisma, nel senso moderno del termine.
- il candidato sfidante non è carismatico? VERO. Se Trump possiede un indiscussa qualità è quella di saper attribuire nomignoli particolarmente provocatori ai suoi oppositori. Quello toccato a Biden, sleepy Joe, descrive ottimamente come lo sfidante all’attuale presidente si presenta. Un uomo che seppur competente e politicamente attivo da decenni manca fortemente delle doti carismatiche fondamentali a qualsivoglia politico.
In conclusione i “FALSO” raccolti sono 6. Per il modello di Linchtman l’esperienza politica di Trump si affaccia dunque al suo capolinea. Ma, presupponendo vero l’esito ottenuto grazie al modello previsionale utilizzato, l’ottenere meno voti di Biden sarà sufficiente ad allontanare Trump dalla White house?
UNA POSSIBILE RADICALE INVERSIONE DI TENDENZA?
Joe Biden avanza una visione presentata come diametralmente opposta a quella Trumpiana; ma questo non necessariamente significa che una sua eventuale elezione porterebbe a un radicale rimodellamento della politica estera e domestica americana. Infatti, il potere relativo degli Stati uniti è in una fase di oggettivo declino in seguito all’inesorabile ascesa cinese. Di conseguenza l’onnipresenza globale americana nello scacchiere internazionale è destinata a ridursi, indipendentemente dal presidente in carica, per motivi di mera sostenibilità economica. In egual modo la sfida alla Cina non è frutto della pazzia o dell’egocentrismo di Trump ma rappresenta piuttosto una vitale necessità per gli USA e per la preservazione del primato globale. Quello che in tal senso potrebbe cambiare con Biden è un approccio più multilaterale nel contrasto al dragone, coadiuvato dal supporto degli alleati storici statunitensi che l’attuale presidente ha in questi 4 anni quasi escluso dai suoi calcoli strategici. Riguardo la politica interna la crescente disuguaglianze e polarizzazione è frutto di decenni di tendenze neoliberali che difficilmente verrebbero invertite da Biden, ben lontano dagli ideali social-liberali che descrivevano al contrario un forse più auspicabile candidato alla presidenza come Bernie Sanders. Nonostante tutto questo, un presidente democratico e moderato rappresenterebbe un importante svolta. Potremmo assistere ad un rinnovato interesse nella questione dei diritti umani, nella tutela delle relazioni amichevoli con gli storici alleati, a un nuovo tentativo di delineare politiche estere maggiorente allineate alle istituzioni internazionali di cui gli Stati Uniti sono padri fondatori come l’ONU. Resto convinto del fatto che il mondo in cui viviamo non necessiti di un’altra presidenza Trump. L’elezione di un uomo come Biden può ricondurre gli USA e forse il mondo intero, sulla retta via interrompendo così un’epoca storica che ricorda temibilmente, con il suo rinvigorito protezionismo e nazionalismo, la fase prebellica antecedente al 1945. Rieleggere Trump porterebbe alla continuazione di una già in atto degenerativa tendenza illiberale dagli esiti incerti e potenzialmente esplosivi.