Negli stessi giornali che hanno fatto campagna incessante per il No, il giorno dopo il referendum si titolava parlando delle regionali. Editoriali passionevoli, interviste di costituzionalisti intimoriti, politici della prima, seconda e terza repubblica mobilitati insieme a senatori a vita ed ex calciatori come Costacurta. Il fatto che dopo questo voto che sembrava dovesse essere il muro ai populismi mostrando una rimonta spettacolare del fronte del no (giravano nelle ore del voto anche fantomatici exit poll della Ghisleri col no al 40-45%) già non si parlasse più del referendum è significativo: non è stata la fine del mondo.
Mi ha colpito assai il voto degli italiani, lento, composto, con affluenza tiepida fino ad almeno alle 19:00 della domenica e poi in risalita e contenuta fino al giorno dopo. Non è stato un plebiscito, ha votato un numero calibrato di persone interessate che hanno mostrato un risultato netto e inequivocabile. Anche la mancata campagna del sì, che inizialmente mi sembrava un punto di debolezza, totalmente assente sui social, invece si è manifestata con linearità quasi da manuale politico: non alzare i toni è servito a non esasperare un elettorato già teso e preoccupato per altre motivazioni, e lasciare il voto basato sul quesito. C’è stato un limitato voto politico, soprattutto nel nord est leghista che probabilmente ha risentito delle grida dei marescialli leghisti come Giorgetti, Fontana, Centinaio o Fedriga, ma in ogni caso non è servito a far prevalere il no. Questo clima credo sia stato positivo e sia un ulteriore punto di forza per il cammino da intraprendere.
Un altro punto di forza è il 70% di sì, omogeneo, con poche differenze territoriali, qualche differenza di orientamento politico (seppur con una netta prevalenza di sì in tutti gli elettorati), per nulla alterato da una partecipazione più alta nelle regioni già al voto per eleggere il Presidente. Un 70% che ha confermato una legge costituzionale già approvata dal Parlamento a grande voce e da tutti i Partiti.
Il risultato costituzionale si mischia anche con quello politico: Zingaretti quasi sapientemente ci si è buttato sopra con molta più decisione di altri riferimenti politici come Lega (dove il sì sussurrato di Salvini veniva coperto quotidianamente dai no dei capoccia) e Fratelli d’Italia (dove la meloni arrivò a dire il venerdì prima del voto che se avesse vinto il no sarebbero stati guai per il governo). Il M5S avrebbe potuto sfruttare questa situazione –d’altronde i media stessi continuano scioccamente a dipingere la riduzione del numero dei parlamentari come cavallo di battaglia solo del movimento- ma lo stesso giorno ha subito una batosta alle amministrative e regionali.
Per fare un quadro della situazione ora lo scenario riformistico che ci si apre davanti è interessante.
Il governo durerà due anni e mezzo almeno perché molti di quei parlamentari temono la non riconferma. Allo stesso tempo, il M5S è assalito da contrasti interni alimentati da una pessima performance elettorale. Chi si aspettava tagli a striscioni e balconcini è rimasto deluso.
Paradossalmente il voto sulla riforma ha messo in soffitta le frange populiste e per eterogenesi dei fini potrebbe avere marginalizzato quegli attori politici per anni dediti agli schiamazzi.
Come ho avuto modo di sottolineare nel mio intervento su AlterThink scorsa settimana, tra le ragioni che mi hanno portato a sostenere con forza il sì c’era anche quella strumentale che vedeva questa riforma come mezzo per giungere ad altre, confermando e rafforzando la volontà parlamentare. A mio avviso, per rendere fede a questo intento nell’immediato, dal punto di vista pratico, i punti da toccare sono i seguenti: una serie di aggiuntivi costituzionali per cercare di dare piena funzionalità alle Camere e, ovviamente, la legge elettorale. Badate bene, parlo di aggiuntivi e non correttivi perché io, come per altro altri interpreti come il Costituzionalista Fusaro, non ho mai ritenuto si dovesse correggere qualcosa in questa riformetta che anzi pecca di semplicità e puntualità.
Riguardo il primo punto mi pare quindi importante proseguire sulle proposte di riforma già presenti nelle commissioni quali l’allineamento dell’età per eleggibilità nelle due Camere, permettendo quindi candidature “giovani” anche al Senato, e il superamento della base elettorale al Senato, favorendo maggioranze simili tra le due Camere.
Oltre agli intenti già citati, la sostanziale parificazione delle due Camere è un percorso che potrebbe portare ad una successiva unificazione, o comunque a concepire una unificazione come maggiormente fattibile, perché su numeri contenuti, e ragionevole, perché maggiormente simili. Questa è la direzione già indicata dal vice-presidente emerito della Corte Enzo Cheli in diversi interventi pubblici.
La terza proposta che è già stata avanzata in Parlamento e sarà oggetto di discussione concerne la riduzione dei delegati regionali per l’elezione del Capo dello Stato. Comprendo la visione proporzionalistica che concepisce una naturale rimodulazione dei seguenti a seguito della riduzione del numero dei parlamentari. Io non ne vedo particolare necessità perché già ora i delegati delle regioni sono sostanzialmente rappresentanti dei partiti e non portano, nell’ambito della scelta del Capo dello Stato, un particolare squilibrio o particolari interessi di settore.
Un percorso naturale da intraprendere è invece quello attinente alla modifica dei regolamenti parlamentari, principalmente per quanto attiene alla numerologia delle commissioni al Senato e alla relativa composizione.
Ultimo punto è quello particolare della legge elettorale. Questo è un tema che scalda gli animi e porta da sempre a facili scontri tra partiti minori e maggiori. Gli interessi da tenere fede in questo ambito sono rappresentanza e governabilità. Il primo, di cui tanti si sono riempiti la bocca sul quesito referendario, viene protetto infatti principalmente da una buona legge elettorale e poi, ovviamente, dalla democrazia interna ai Partiti. Dal mio punto di vista gli interessi pare vengano maggiormente salvaguardati da una legge proporzionalistica, con collegi, e sbarramento almeno al 5% su base collegiale. Lo affermo un po’ a malincuore perché son sempre stato maggioritarista e un modello collegiale e uninominale all’Inglese (più che alla francese dove con i ballottaggi, vedendo lo scenario politico attuale, temerei il generarsi di maggiori squilibri a vantaggio delle forze più sovraniste) mi affascina, anche se sarebbe molto gravoso per un buon numero di forze, da quelle più di sinistra a quelle più liberali. Un sistema proporzionale darebbe invece democraticamente modo anche a loro di concorrere.
In conclusione ci tengo a sottolineare che questo scenario riformistico è diretta conseguenza e quindi merito del voto di domenica e lunedì, e ne sono consapevoli anche molti elettori del no che nelle ore successive al suffragio già si apprestavano ad elencare le riforme di cui necessita il sistema istituzionale ora. Si è rotta una cortina che da decenni riteneva intoccabile il sistema istituzionale. Ora bisogna approfittarne a pieno cercando di non far calare i riflettori ed ignorando le lamentele dei benaltristi del “i veri problemi sono altri”.
Mirko Boschetti
Gentile Mirko, la Costituzione fu redatta in circa un anno e mezzo di lavoro dell’Assemblea Costituente, ovvero il Parlamento, tra il 1946 e la fine del 1947. È fatta di 138 articoli. Non ti sfiora il dubbio che metterci le mani un pezzo alla volta da parte di partiti che hanno solo obiettivi di consenso a breve termine e di sopravvivenza sia un grossolano errore di principio? Orgasmi populisti come la Brexit o come il taglio dei Parlamentari daranno più problemi che soluzioni. Prevedo poca chiarezza in tema di legge elettorale e spinte per il referendum propositivo. A mio avviso stiamo scambiando il problema con la soluzione, non è il Parlamento che non funziona, ma gli Italiani, e demolire la mediazione del primo a favore dei secondi non mi sembra una scelta felice. Per quanto scarso sia il livello dei rappresentanti che ci siamo scelti, specie se confrontato con quello dei componenti dell’Assemblea Costituente. Speriamo in bene.
Ciao Emiliano, in verità quando venne inserito il 138 e quindi previsto che la nostra Costituzione assumesse caratteri di “Costituzione rigida”, l’intento dei costituenti era quello che non venisse stravolto l’impianto originario con nuove “costituenti”, ma che le proposte di modifica fossero “chiare” (aggettivo ripetuto a più riprese), sentite dalla popolazione (addirittura inizialmente si voleva rendere obbligatorio lo strumento referendario) e coerenti formalmente. A livello di interpretazione originaria della carta costituzionale, le modifiche puntuali hanno più appiglio storico e dottrinale. Ovvio, non avendo mai sopportato particolarmente i puristi della Costituzione, mi sono fatto andare bene anche la riforma renziana, complessiva, che toccava più materie senza un’apparente ratio unitaria.
Questo per quanto riguarda le modifiche costituzionali.
Per quanto riguarda gli attori politici con me sfondi una porta aperta. Credo però che le proposte vadano giudicate in sè, non a seconda di chi tra gli attori numerosi le approverà in parlamento. Credo inoltre che il mancato riformismo agevoli il successo di questi attori a noi avversi. Se le istituzioni si fossero, diciamo, “attualizzate” anni fa forse ora non saremmo qui a parlare di forza antisistema che in modo grossolano hanno preso il potere denunciando la mala politica e la lentezza istituzionale.