“Io dichiaro di essere una di loro: ho avuto un aborto […] chiediamo la libertà di abortire”
Così si apriva il “Manifesto delle 343”, una delle prime dichiarazioni pubbliche e collettive di aborto clandestino. Pubblicato nel 1971 e scritto da Simone de Beauvoir, il Manifesto francese venne seguito, nel giugno dello stesso anno, dall’appello dell’associazione femminista tedesca Aktion 218, firmato da 374 donne per chiedere la liberalizzazione dell’aborto in Germania. Sempre nel 1971 il Movimento di Liberazione della Donna italiano diffondeva un testo di autodenuncia e di opposizione a una legge “clericale, ipocrita e fascista criminalizzante l’aborto”. L’anno dopo, l’onda della disobbedienza civile femminista approdò negli Stati Uniti, con l’autodenuncia di 53 donne che “avevano abortito”, sul giornale femminile Ms. Magazine.

Gli anni Settanta hanno rappresentato la “prima guerra mondiale sull’aborto” combattuta sul corpo delle donne: da quegli anni l’Italia ne è uno degli epicentri. Da pratica completamente criminale, come sancito dal Titolo X del Codice Fascista, la decriminalizzazione dell’aborto è divenuta oggetto di discussione grazie ai numerosi gruppi e movimenti femministi germogliati in Italia nella prima parte di quel decennio. Fra questi, il citato Movimento di Liberazione della Donna, nato come organo federato al Partito Radicale su spinta di Massimo Teodori, dirigente del Partito. Teodori, infatti, nel gennaio 1970 tenne una relazione alla Casa della Cultura di Roma su “il Movimento di Liberazione della Donna nella Nuova Sinistra Americana”. Il dibattito successivo alla relazione dimostrò l’esigenza di tradurre quei temi nel particolare contesto italiano.
Dai primordi della fondazione del Movimento di Liberazione della donna fu posto come pilastro l’obiettivo della liberalizzazione dell’aborto al fine di ottenere un diritto, corrispondente ad un’esigenza, elementare, senza la quale la lotta politica femminista non poteva neanche cominciare. Le guide del Movimento – dapprima Alma Sabatini e poi Liliana Ingargiola, Wanda Raheli Roccella, Maria Adele Teodori e diverse donne contestualmente appartenenti al mondo Radicale – iniziarono ad incardinare la battaglia per la libertà di abortire, presto sostenuta da altre realtà, come ad esempio il Movimento Femminista Romano. In quei primi anni di mobilitazione, ad opporsi con forza ad ogni progetto di liberalizzazione dell’aborto fu l’UDI – l’Unione delle Donne Italiane – vicina al Partito Comunista e favorevole a misure più incentrate sulla tutela della maternità e meno sulla libera autodeterminazione della donna.
Entrambi i movimenti, capostipiti di due filoni femministi opposti, influenzarono il panorama politico italiano, sebbene in modo diverso e lasciando, una volta arrivati alla legge, “scontente” entrambe le parti: se l’UDI riuscì ad ottenere che la prediletta formulazione di tutela sociale della maternità entrasse poi nel testo della legge 194/1978 e determinasse, di fatto, l’intero apparato della imminente non punibilità delle interruzioni di gravidanza, il Movimento di Liberazione della Donna risvegliò le coscienze dell’intera cittadinanza femminile, dando vita a un fenomeno di massa in grado di raccogliere, anche nel paese simbolo del cattolicesimo, le istanze femministe che si stavano diffondendo in tutto l’Occidente. Le due realtà concordavano, però, sullo strumento da utilizzare per regolamentare l’accesso all’aborto: un testo di legge.
Il settimanale L’Espresso e la Lega XIII maggio (data della vittoria sul referendum per il divorzio del 1974) depositarono, dunque, il 12 luglio 1975, 750 mila firme per il referendum abrogativo degli articoli del titolo X del Codice Rocco. Il 18 dicembre di quello stesso anno la Corte Costituzionale dichiarò ammissibile il referendum, ma nel maggio 1976 il presidente Leone sciolse le camere per evitarlo. Nel clima del compromesso storico in cui il tema dell’aborto rischiava di finire in soffitta per evitare ulteriori lacerazioni politiche tra i principali partiti italiani, fu una sentenza della Corte Costituzionale a rimettere in carreggiata gli obiettivi di liberazione prefissati dai movimenti femministi. La sentenza 27 della Corte Costituzionale, arrivata proprio nel 1975, metteva in luce il contrasto tra l’art. 546 (“aborto di donna consenziente”) del Codice Rocco con l’art. 31 e con il primo comma dell’art. 32 della Costituzione, che tutelano la maternità, l’infanzia e la salute individuale e collettiva. L’art. 546 rappresentava un ostacolo di natura politico-economica per il diritto alla salute delle donne e, in sede di discussione, i giudici sollevarono l’ulteriore contraddizione del conflitto tra i diritti dell’embrione e i diritti della donna.
Il Parlamento dunque doveva intervenire.
Tre anni e diverse proposte di legge dopo, per evitare che un nuovo referendum fosse presentato, il Parlamento approvò la legge 194/1978. Il compromesso risultante venne bollato da Adele Faccio, figura di spicco del Partito Radicale e del Movimento di Liberazione della Donna, come il “punto più basso del compromesso storico fra Partito Comunista e Democrazia Cristiana”. In piedi restava infatti il divieto di abortire, con delle eccezioni normativamente costruite in nome delle quali è permesso tutt’ora accedere al servizio. Una legge del genere sull’aborto rappresentava, per Faccio, l’ultimo tentativo di un potere conservatore ormai battuto nell’opinione pubblica. Non è un caso che la legge parli di tutela della maternità e della vita umana dal suo inizio e non di “libertà con il corpo”, cittadinanza femminile responsabile e autodeterminazione; come non è parimenti un caso che venga richiesto per legge ai consultori e alle strutture socio-sanitarie coinvolte di aiutare la persona incinta a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione volontaria di gravidanza, imponendo al momento della richiesta dell’intervento sette giorni obbligatori per “soprassedere” alla decisione.
44 anni di legge 194 hanno garantito una sponda certa contro l’aborto clandestino; questa sponda, tuttavia, si è presto trasformata in una trincea dietro cui arroccarsi per parare i colpi assestati a ripetizione dai movimenti no-choice nazionali e internazionali, e che ha anche ostacolato qualsiasi auspicato progresso verso una maggiore autodeterminazione della donna.
Abbiamo oggi paura di chiedere a gran voce un superamento della legge 194, per non correre il rischio di compiere pericolosi passi indietro.
Ma a così tanti anni di distanza, e a fronte degli effetti negativi che una tale legislazione ha avuto, far prevalere i propri timori significa sacrificare l’esperienza abortiva di troppe donne in Italia, costrette ad affrontare obiettori di coscienza, stigma e violenze psicofisiche.
Oggi, grazie all’art.9 della legge 194 che ha garantito il diritto all’obiezione di coscienza individuale, vi sono alcune regioni d’Italia completamente sprovviste di personale non obiettore e intere aziende ospedaliere che esercitano illegalmente obiezione di struttura senza conseguenza alcuna.
Le persone che scelgono di abortire in alcuni nostri ospedali pubblici vengono lasciate sole a vomitarsi addosso, non viene somministrata l’anestesia durante l’aborto e vengono lasciate a contorcersi dal dolore sotto l’impossibilità di intervenire dei pochi medici non obiettori perché occupati a coprire anche le sale parto. Alle stesse persone viene sottratto molto spesso anche il diritto di scegliere la destinazione del feto, con accordi riservati fra strutture ospedaliere e associazioni no-choice, che si appropriano dei prodotti abortivi delle donne e li seppelliscono con rito cattolico nei cosiddetti “cimiteri degli angeli”.
Oggi l’aborto è divenuto in tutto il mondo un argomento cardine al centro di un conflitto che riguarda la società aperta, il progresso e i suoi nemici.
Un argomento utilizzato dalla nuova destra e da governi autocratici per costruire la propria identità valoriale conservatrice, forgiata su una retorica anti moderna e patriarcale. Tuttavia, mentre il fronte antiabortista si dota di nuovi strumenti finanziari, ideologici e di pressione politica, in Italia il fronte progressista e femminista non agisce in maniera compatta. È essenziale dunque unire le forze così da far fronte a un’opinione pubblica sostanzialmente disinformata sul tema. Anche molti progressisti infatti considerano l’aborto un diritto ormai “garantito” e intoccabile.
Nulla di più sbagliato.
Se nei prossimi anni ci sarà la forza di respingere i tentativi reazionari e arrivare a realizzare il diritto di scelta per ciascuna, molto dipenderà dalla capacità di ammettere le difficoltà che vivono le nostre strutture pubbliche, dove il diritto vive o muore, e di trasformare tutte queste esperienze in consapevolezza, opinione pubblica informata, per passare dalla trincea di questi decenni all’attacco.
Buongiorno, manca, ed è grave data l’importanza della questione, qualunque riferimento a fatti, dati o testimonianze quando si parla di aborti senza anestesia e persone lasciate “a vomitarsi addosso”. Se è vero, sono reati e vanno quanto meno citate le fonti, come correttamente avviene per i dati sulle obiezioni di coscienza. Se no è propaganda. Grazie