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L’OSSESSIONE PER HONG KONG SVELA LE PAURE DELLA CINA

13 Novembre 2020

Hong Kong torna nuovamente al centro dell’attenzione internazionale. Il parlamento cinese ha adottato una risoluzione che consente all’esecutivo della città di espellere i membri del consiglio legislativo che si ritiene stiano sostenendo l’indipendenza di Hong Kong, siano collusi con forze straniere o minacciando la sicurezza nazionale, senza dover passare per il giudizio del tribunale. L’ennesima stretta alla libertà dell’ex colonia britannica, per altro ormai estremamente limitata. Perché Pechino colpisca la città, consapevole di attirare le critiche della comunità internazionale, racconta molto del periodo che vive il paese.

Hong Kong è caduta. Quando a giugno del 2019 iniziarono le manifestazioni contro la legge sulle estradizioni, nessuno avrebbe potuto immaginare la velocità con la quale la situazione sarebbe precipitata, sfuggendo di mano a tutti. Manifestanti, governo locale e Partito Comunista Cinese. Alla proposta della legge sono seguite le marce, le proteste violente, la guerriglia urbana. Poi la repressione della polizia, gli arresti, i limiti alla libertà di associazione – mascherati da prevenzione anti Covid – fino a giungere alla liberticida legge sulla sicurezza nazionale. Da lì il diluvio. La legge, promulgata non dal consiglio legislativo di Hong Kong, bensì dall’assemblea nazionale del popolo di Pechino, ha reso manifesta, qualora ce ne fosse stato bisogno, la volontà del partito di prendere pieno possesso della città. Non con l’esercito, non con una nuova Tienanmen, ma con il voto dell’Assemblea Nazionale del Popolo in seduta plenaria.

Sicurezza con caratteristiche cinesi

È difficile anche solo ricordare quante cose siano successe dopo. Le manifestazioni sono ormai vietate, le elezioni posticipate di un anno, numerosi attivisti e personalità del fronte democratico incriminati per violazione della National Security Law. Proprio questa settimana, a sorpresa, quattro consiglieri legislativi, già giudicati non candidabili per le elezioni che si sarebbero dovute tenere a settembre, sono stati espulsi dal LegCo, il consiglio legislativo della città. Nei giorni scorsi il Comitato Permanente del Congresso Nazionale del Popolo ha adottato una risoluzione che conferisce alle autorità locali il potere, senza dover passare per il giudizio dei tribunali, di espellere dal LegCo i consiglieri che mettono in pericolo la sicurezza nazionale, lavorano per l’indipendenza di Hong Kong o cercano di provocare l’interferenza di forze straniere. Tutta l’opposizione ha annunciato le dimissioni. Carrie Lam, di ritorno da una cinque giorni nella Cina continentale, scarica la responsabilità sul Governo centrale. Il messaggio è chiaro. Non ci si può nascondere dietro un dito, il Partito Comunista Cinese ha sempre avuto il pieno controllo di Hong Kong, ma l’apparente rispetto del principio “un paese due sistemi” aveva reso il legame con la madrepatria meno opprimente. Ora Pechino infierisce, ripetutamente, senza sosta. Un mese dopo l’altro vengono imposte nuove e più stringenti regole che sgretolano la libertà di Hong Kong. Le persone vengono accusate di secessionismo, i consiglieri espulsi, la magistratura scavalcata. Non può essere solo la volontà di Pechino di ribadire il proprio dominio sull’ex colonia britannica.

Il mondo punta i fari sulla Cina

La Cina attraversa la sua peggiore fase degli ultimi vent’anni. La pandemia ha ulteriormente esasperato gli animi, inasprendo rapporti già tesi e facendo scoppiare la crisi. Lo scontro con gli Stati Uniti è ora alla luce del sole, così come la diffidenza di tutti i paesi asiatici ed europei, piombati in una crisi economica che si trascinerà per anni. Con i fari puntati addosso, sono riesplose le polemiche sui campi di concentramento dello Xinjiang, sulle minacce a Taiwan, sul controllo di massa e la violazione dei diritti umani durante la pandemia. La Cina è consapevole di non godere di un’ottima reputazione in Occidente. Il mondo è con il dito puntato, pronta ad evidenziare ogni passo falso del partito. L’aver pensato inevitabile e necessario colpire Hong Kong, la città che più di tutte le altre è proiettata nel mondo – e che del mondo, più che della Cina, vorrebbe fare parte – mette in luce qualcosa che vale la pena osservare. Se è vero che il pragmatismo è tratto tipico del popolo cinese, allora questa recrudescenza repressiva non è un semplice esercizio tirannico del potere. È un effetto, e la causa è il senso di vulnerabilità che prova la Cina. Un bisogno troppo impellente perché possa preoccuparsi eccessivamente del giudizio altrui. Consapevole che sarebbe stata additata come l’untore del mondo, la Cina ha reagito in maniera aggressiva, sguinzagliando gli ambasciatori “lupi”, insinuandosi nel dibattito pubblico occidentale, facendo pressioni nei consessi internazionali, adoperando la diplomazia coercitiva contro altri stati, provocando militarmente Taiwan e reprimendo le libertà di Hong Kong. Consapevole che il virus è un affare troppo grosso perché potesse passare in sordina, sentitasi alle strette ha attaccato per prima, sapendo che i colpi sarebbero arrivati inevitabilmente.

Il sentimento anticinese e lo spirito nazionalista

Raramente durante una crisi internazionale gli stati sono disposti ad ammettere le proprie colpe. La Cina ancor meno. Apparentemente poco propensa all’autocritica, tende invece a considerarsi vittima delle ostilità e pregiudizi altrui, raccontando di un mondo dominato da un sentimento anticinese che, ad onor del vero, non è molto distante dalla realtà. Su questo la propaganda gioca un ruolo formidabile e sofisticatissimo, accarezzando un sentimento patriottico che, nei suoi estremi, oscilla tra l’eccessiva autocelebrazione e le manie di persecuzione. Non bisogna pensare, però, che ci sia esclusivamente il dolo del partito, né che il giudizio della maggioranza della popolazione sia il risultato del vivere in dittatura e del lavaggio del cervello che inizia fin dai primi anni di vita, scolpendo l’animo ultranazionalista della popolazione. Nulla funziona solo con la repressione e la coscienza collettiva non è plasmata dalla propaganda, semmai questa insegue i sentimenti profondi e ne dà una forma tangibile. È qualcosa di intimo, la reazione ad un’atavica paura delle forze esterne che, se colpiscono con troppa veemenza, rischiano di crepare l’unità del paese, quanto di più importante ci sia, ciò che separa l’ordine dal caos. Quando la grande muraglia non basta a fermare l’orda dei barbari, o le dighe ad impedire che lo Yangtze esondi distruggendo il raccolto, quando le necessità più basilari non vengono soddisfatte ed il paese è vulnerabile, ecco che la tanto agognata stabilità viene meno e gli scossoni fanno tremare le fondamenta del gigante cinese.

La Cina si guarda dentro per paura della divisione

Le forze esterne, però, non sono le sole ad impaurire la Cina. La stabilità dipende anzitutto dalla compattezza del popolo, governata e garantita dal potere centrale. Le proteste dopo la morte del dottor Li Wenliang sono state un messaggio chiarissimo ed il partito lo ha recepito. I cinesi, usi a ragionare più in termini di risultati concreti che di diritti e libertà, pongono a fondamento della società il principio secondo cui se non si governa in maniera virtuosa, se il popolo è scontento, se non è garantito il benessere e la stabilità, allora viene meno il patto sociale che legittima il potere del governo. Ecco che quindi l’aggressività del Partito Comunista Cinese non va intesa come un tentativo di arrembaggio. Al contrario, è il sintomo di una Cina incapace di distogliere lo sguardo da sé stessa, impaurita dal fatto che le sue debolezze possano rallentarne il cammino, intenta ad evitare che vengano usate dagli altri per “inserire un cuneo tra il popolo ed il partito”, per usare un’espressione cara alla propaganda cinese. Hong Kong si inserisce in questa narrazione. Strappata alla madrepatria dai britannici a metà dell’ottocento, il “Porto Profumato” ha iniziato a pensarsi diverso rispetto alla Cina. La Cina però non ha mai dimenticato Hong Kong, né quello che ha rappresentato il suo ritorno a casa. Anzi, ne è stata a lungo ossessionata. Riprendersi la città ha rappresentato il riscatto, lo spazzar via l’ultimo residuo del secolo delle umiliazioni, quando gli occidentali osarono attaccare il Regno di mezzo, violando l’unica vera civiltà del pianeta. Il pieno controllo di Hong Kong, quindi, è la conditio sine qua non per tentare di risolvere tutti i problemi strutturali che minacciano un paese in realtà attraversato da tensioni che, seppur non immediatamente visibili, né eccessivamente intense, ribollono nelle viscere della nazione. Per far fronte all’attacco dei paesi occidentali, così come per riuscire ad imporre definitivamente il dominio su tutte le etnie che vivono nel vastissimo territorio della Cina, è necessario che almeno l’intero gruppo etnico degli han sia unito e si compatti attorno alla patria ed al partito. Non a caso le questioni di Hong Kong e di Taiwan sono tra le più sentite dalla popolazione. Il fatto che cittadini han si rifiutino di riconoscere l’autorità ed il dominio della Repubblica Popolare su di loro, che si rifiutino di definirsi cinesi, rende impossibile il pieno raggiungimento dell’anelata unità. Nel commentare i fatti di Hong Kong, i cinesi pronunciano con enfasi la frase “La Cina è una ed indivisibile”. Gli Hongkongers non esistono. Esistono solo i cinesi.

Essere cinese

Il concetto non è secondario, è essenziale. Nel comune sentire della popolazione, essere cinese è qualcosa che prescinde la mera nazionalità, ma sfocia in una dimensione etnica, culturale, filosofica, di differenza dal resto del mondo e di supremazia razziale su tutte le altre etnie che insistono sul territorio. Essere cinese impone di amare la Cina, ed amare la Cina impone di sostenere il partito. Tutti, nessuno escluso. Gli abitanti di Hong Kong sono vittime, ma la città è caduta perché loro stessi si sono sentiti diversi dal resto del popolo cinese, perché l’aver introiettato l’idea dei diritti umani, lascito di un passato coloniale che tutto è stato tranne che democratico, ha fatto pensar loro che potessero esistere al di fuori della Cina, che potessero farcela da soli, magari cercando una sponda in un mondo occidentale che non andrà mai oltre una dichiarazione di condanna o qualche sanzione. Hanno pensato che la volontà popolare e la lotta avrebbero prevalso sul potere tirannico del partito. Errore fatale causato da una visione troppo romantica della rivoluzione. Hong Kong è caduta perché è semplicemente una realtà troppo piccola per poter imporre le condizioni, specie se il partito teme per le sorti di tutto il paese. È istinto di sopravvivenza. Hong Kong è Cina, che i suoi abitanti lo accettino o meno, e non potrà esserci la liberazione ad Hong Kong senza la liberazione di tutto il paese, o la sua frammentazione. Se il partito sente di dover reprimere così violentemente le proteste, allora si prepara ad affrontare il mal tempo, e non accetterà di doversi proteggere anche da chi dovrebbe essere dalla sua parte.

La Cina si prepara per il mal tempo

La Cina non è sul punto di crollare, anzi. Crescerà ancora, ma si appresta ad affrontare anni molto difficili. Il prossimo decennio sarà quello dell’assestamento. I problemi da risolvere sono molteplici, dalla differenza di sviluppo tra la costa e le province interne all’assimilazione delle minoranze etniche, l’annessione di Taiwan, il controllo del Mar Cinese Meridionale, uno scontro militare con gli USA, oramai non così improbabile. Il partito è consapevole che la pandemia, accelerando la crisi internazionale, ha sottratto anni preziosi per potersi preparare al meglio ad affrontare le sfide che verranno. Per questo non è più ammesso che Hong Kong sia in tumulto. Il germe della rivoluzione non può impiantarsi in altre province del paese, dallo Xinjiang al Tibet e alla Mongolia meridionale. Tutte ansiose di vedere una Cina in affanno, per potersi liberare dal suo giogo. Deng Xiaoping considerava la stabilità politica e l’unità dello Stato i requisiti essenziali per la modernizzazione, il benessere materiale e la potenza nazionale, i frutti più autentici del “socialismo con caratteristiche cinesi”. Questo è ciò che hanno in mente i cinesi, questi sono i loro obiettivi e questo perseguiranno. Per questo Hong Kong è caduta.

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  1. La Cina non può permettersi oasi di libertà e diritti civili nel suo territorio, senza rischiare che altre zone le pretendano. Essendo un popolo fondamentalmente privo di etica, l’unica ragione che sentono è il denaro. L’occidente però non inizierà mai una guerra commerciale contro la Cina, perché anche da noi il denaro ormai conta più dei princìpi.

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