Si infiamma dopo anni uno dei “conflitti congelati” più lunghi e conosciuti: il territorio del Nagorno-Karabakh torna ad ospitare scontri armati di un’intensità tale mai vista prima. Si tratta della peggior escalation dalla guerra dei quattro giorni scoppiata nella primavera del 2016. Questa spinosissima disputa difficilmente sarà placata dal cessate il fuoco accordato che, come possiamo dedurre, non sta per niente reggendo. Cosa accadrà nei prossimi giorni? Intanto cerchiamo di capire le cause e i risvolti di questo complesso conflitto.
Domenica 27 settembre sono ripartiti gli scontri tra Azerbaijan e Armenia per il controllo della regione del Nagorno Karabakh, territorio che da anni è conteso tra le due. La denominazione della regione è molto affascinante: Nagorno deriva, infatti, dal termine nagorni, che significa montagnoso, mentre Karabakh è la traslitterazione russa della parola Karabagh, di origine turca, letteralmente significante “giardino nero”. Sotto l’Unione Sovietica il Nagorno Karabakh era una provincia autonoma della Repubblica socialista dell’Azerbaijan, nonostante più del 70% degli abitanti si considerava di etnia armena. Durante il 1988 si dichiarò indipendente seguendo le ondate di indipendentismo e nazionalismo che si stavano diffondendo nell’URSS, tuttavia Mosca e Baku non l’accettarono, facendo così scoppiare le tensioni tra azeri ed armeni con l’intervento dell’esercito sovietico.
Nel 1991 ci fu il crollo dell’Unione sovietica che portò alla nascita della Repubblica dell’Azerbaijan, nel frattempo il Nagorno-Karabakh si era separato da quest’ultima con l’appoggio dell’Armenia, atto che fu considerato illegittimo dal governo azero. Nel corso del 1992 il conflitto si fece molto più intendo fino a diventare una vera e propria guerra civile. Per mediare una pace tra i due fu creato il gruppo di Minsk dell’OSCE che trattò il cessate il fuoco nel 1994. Malgrado il cessate il fuoco, nella primavera del 2016 scoppiò la “guerra dei quattro giorni” in cui l’Azerbaigian recuperò il controllo su alcune aree del territorio violando gli accordi del 1994. Ciò che rende ancora più complessa la situazione è la contraddizione di due principi del diritto internazionale: l’integrità territoriale, riguardante le risoluzioni ONU che riaffermano la sovranità azera sulla regione e l’autodeterminazione dei popoli, ecco perché il conflitto viene definito “congelato”.
Per quanto riguarda la guerra che è in corso in questi giorni si nota un enorme salto qualitativo rispetto agli scontri etnici avvenuti tra i due Stati durante gli anni ’90, in quanto la tecnologia militare è decisamente più avanzata, ma anche i sentimenti di nazionalismo della popolazione armena e in particolar modo di quella azera. Gli attacchi hanno interessato anche aree oltre i confini dell’autoproclamata Repubblica del Nagorno Karabakh e, secondo le dichiarazioni, tra le vittime si conterebbero, purtroppo, anche dei civili.
Oggigiorno gli attori internazionali più influenti in questo conflitto sono Russia e Turchia, si tratta delle maggiori potenze presenti nell’area considerata. L’appoggio all’Azerbaijan da parte della Turchia ha alterato il già precario equilibrio nella montuosa regione del Caucaso. La Turchia mette in atto relazioni diplomatiche, contribuisce attraverso il supporto militare, fornendo armi al paese, e agisce attraverso operazioni offensive. Inoltre, seguendo la narrativa del “brother country”, i due stati condividono stessa la cultura, lingua, religione ed origini etniche, Per di più vi è una dipendenza tra le due anche nel settore energetico. Il governo turco ha addirittura mobilitato i jihadisti radiali arrivati dalla Libia.
La Russia, d’altro canto, ha sempre cercato di rimanere neutrale in questa disputa, Mosca li considera entrambi suoi stati alleati, una volta facenti parte dell’Unione Sovietica. In aggiunta la Russia ha una base militare in Armenia e un patto difensivo che contiene una clausola di assistenza reciproca in caso di attacchi provenienti dall’esterno. Erdogan e Putin si trovano in contrasto in diverse aree, non solo in Nagorno Karabakh, ma anche in Syria e in Libia.
La terza potenza regionale coinvolta in questa guerra è l’Iran, il quale, come la Russia, è in buone relazioni con entrambi i paesi, ma in particolar modo con l’Armenia attraverso una forte alleanza economica. L’Azerbaijan, d’altro canto, vede l’Iran come una minaccia, in quanto la più grande minoranza del paese è rappresentata da azeri, circa l’ 1/5 della popolazione, che si trovano soprattutto a nord-ovest del paese, più precisamente nell’Azerbaijan iraniano. La paura dell’Iran è proprio una possibile richiesta di secessione da parte degli azeri-persiani di questa regione per andare a formare un “Grande Azerbaijan”.
Oltre al sostegno turco, anche Israele svolge un ruolo rilevante visto che si serve dell’Azerbaijan come base per le sue missioni di Intelligence in funzione anti iraniana. Non solo: Tel Aviv ha stabilito un importante partenariato energetico e non ha mai riconosciuto ufficialmente il genocidio armeno del 1915, a causa della sua partnership con Ankara. L’Azerbaijan riceve aiuto dalle lobbies israeliane anche come contrappeso all’ampia influenza delle lobbies armene nella politica estera statunitense.
Un’interessante proposta di soluzione a questo conflitto la formulò Mario Raffaelli, presidente del “gruppo di Minsk” nel 1992-1993. Egli tiene in considerazione che l’indipendenza del Nagorno-Karabakh è praticamente una richiesta impossibile, destinata a non avverarsi in quanto non c’è riconoscimento da parte della comunità internazionale, nemmeno dall’Armenia stessa. Per questo motivo propone di utilizzare la formula del Sud Tirolo come modello per risolvere la guerra.
Infine, per uscire dalla situazione attuale è essenziale agire su due versi: ridurre le violazioni del cessate il fuoco dal punto di vista militare e arrivare ad un dialogo politico-diplomatico tra i due popoli, lasciando da parte i nazionalismi e abbandonando la retorica della guerra.