Una finestra sulla storia evolutiva dell’essere umano: Svante Pääbo vince il Nobel per la medicina 2022

11 Ottobre 2022

Studiare i resti dei nostri antenati ci ha permesso di scoprire molto sulla loro vita, ma le cose che ancora non sappiamo sono tantissime. Combinando nuove tecniche di estrazione di DNA antico con il sequenziamento di nuova generazione, il ricercatore svedese Svante Pääbo ha portato alla luce dettagli incredibili sull’evoluzione della nostra specie e gettato le fondamenta di una nuova branca della ricerca, che ci permetterà di guardare indietro nel tempo. Una conquista che gli è valsa il premio Nobel per la medicina.

Bernd Dittrich su Unsplash

Uno dei più grandi sogni dell’essere umano è indubbiamente quello di poter viaggiare nel tempo, così da poter vedere con i propri occhi la storia della Terra e delle specie che l’hanno abitata e che la abitano tuttora. A oggi, purtroppo, questo è destinato a restare un sogno; tuttavia, c’è un ricercatore che, grazie alle sue brillanti e rivoluzionarie intuizioni, ha reso questo viaggio nel tempo più reale, mostrandoci eventi fondamentali nell’evoluzione della nostra specie. Si chiama Svante Pääbo, fondatore dell’istituto Max Planck di antropologia evoluzionistica a Lipsia, e queste sue scoperte gli sono valse il premio Nobel 2022 per la medicina e la fisiologia.

Cos’è l’Homo sapiens? Il DNA ha la risposta, ma trovarla non è facile.

Ci sarebbero tantissime cose da raccontare sui suoi lavori scientifici, ma alcune hanno davvero lasciato un segno e, di fatto, fondato un nuovo campo di ricerca. Semplificando, possiamo dire che la grossa domanda a cui Pääbo cerca di rispondere è: “Cosa rende l’Homo sapiens ciò che è?”. È famosissima, infatti, l’immagine che ritrae le diverse fasi dell’evoluzione umana dall’Australopiteco all’Homo sapiens, passando per l’Homo erectus e l’uomo di Neanderthal. Guardandola, vediamo subito le differenze e possiamo identificare facilmente quale sia la specie più moderna e a cui apparteniamo. Capire però cosa ha reso l’Homo sapiens diverso dai suoi predecessori e come sia avvenuta questa speciazione è tutt’altro che semplice. Qui entra in gioco la paleogenomica, ovvero quella branca della ricerca, di cui Pääbo è pioniere, che ci permette di guardare indietro nel tempo analizzando il DNA di individui vissuti decine di migliaia di anni fa, rivelando così dettagli importantissimi sull’evoluzione dell’uomo moderno. 

Il DNA è una lunga molecola che racchiude le informazioni necessarie per lo sviluppo e la vita di un organismo (e delle sue singole cellule, per essere precisi), ed è rappresentabile come una sequenza di lettere, le quali, in base al loro ordine all’interno di questa sequenza, codificano per informazioni diverse. Qual è quindi l’idea di fondo nel voler usare il DNA per studiare l’evoluzione delle caratteristiche umane? Come il DNA distingue noi esseri umani da altre specie viventi (primati, insetti, piante e così via), allo stesso modo può distinguerci dai nostri antenati ormai estinti. Inoltre, tracciare i cambiamenti nel tempo della sequenza del DNA ci permette di ricostruire i vari passaggi tramite i quali l’evoluzione ha plasmato le caratteristiche dell’Homo sapiens, dando quindi una risposta alla domanda di Pääbo.

Come accade spesso in ricerca, però, mettere in pratica un’idea è molto più difficile di quanto possa sembrare. Infatti, col passare del tempo, il DNA si degrada, si frammenta, e diventa molto difficile da recuperare e sequenziare (ovvero leggerne la sequenza). In certe aree geografiche poi, il clima accelera enormemente questo processo, distruggendo quasi ogni traccia di questa preziosa molecola e limitando quindi le aree dove poter condurre gli studi. A questo si aggiunge anche il problema della contaminazione da parte di DNA più moderni e quindi meglio conservati, i quali, date le scarse quantità di materiale genetico con cui si lavora, possono creare grande confusione nell’interpretazione dei risultati (per esempio: la sequenza che leggiamo, appartiene davvero al resto dell’uomo di Neanderthal, oppure a qualche altro essere umano passato in quella stessa zona?). Infine, nonostante gli enormi passi avanti fatti nel decodificare le informazioni presenti nel nostro DNA, sono ancora tantissime le cose che non sappiamo e, di conseguenza, non sempre siamo in grado di comprendere il significato delle differenze che osserviamo fra noi e un nostro antenato.

Il primo passo indietro nel tempo: l’uomo di Neanderthal visto da vicino.

In mezzo a questo quadro estremamente complicato, Pääbo riesce a compiere il primo enorme passo nel 2010, pubblicando il genoma completo dell’uomo di Neanderthal: una conquista incredibile arrivata dopo anni di lavoro mirato a ottimizzare il sequenziamento di DNA estratto da resti di ossa appartenute ai nostri antenati. Le successive analisi comparative tra il genoma dell’uomo di Neanderthal e quello di esseri umani moderni hanno rivelato che non solo questo nostro antenato si incrociava con l’Homo sapiens, ma anche che ciò avveniva principalmente in Eurasia (il macro-continente che comprende Europa e Asia) e molto meno in Africa. Infatti, chi oggi ha origini europee e asiatiche possiede anche fino al 4% di DNA di Neanderthal, una caratteristica che ha un impatto per esempio sul nostro sistema immunitario. In particolare, diversi studi hanno osservato che la risposta immunitaria a seguito di alcune infezioni è più forte e rischiosa in individui con discendenze africane, mentre lo è meno in coloro che hanno origini europee. Questa differenza coinvolge geni (sequenze di DNA) che negli Europei sono molto più simili a quelli dei Neanderthal che non a quelli degli Africani. L’ipotesi è che, tra 100’000 e 60’000 anni fa, l’uomo moderno iniziò a migrare dall’Africa verso il continente europeo, dovendo quindi adattarsi a nuovi patogeni mai incontrati prima. Qui, l’uomo di Neanderthal era già presente da tempo e quindi anche già adattato a convivere con questi microrganismi; l’incrocio fra le due specie potrebbe aver garantito alle generazioni successive una migliore resistenza dal punto di vista immunitario e, di conseguenza, una migliore capacità di sopravvivere. Ci vorranno ancora altri studi per comprendere i dettagli e confermare o smentire alcune ipotesi, ma è importante sottolineare come tutto questo si sia sviluppato grazie alla scoperta di Pääbo e del suo gruppo di ricerca.

L’uomo di Denisova: un’altra sensazionale scoperta resa possibile dalla paleogenomica.

Tornando alla famosa immagine che rappresenta le diverse fasi dell’evoluzione umana, è facile pensare che sia tutto lì, che non ci siano altre specie da aggiungere. Ciò che però rende emozionante la ricerca è proprio la sua capacità di smentirci e metterci davanti a qualcosa di cui, fino a quel momento, ignoravamo l’esistenza. Nel 2008, infatti, nella cava di Denisova, nel sud della Siberia, viene ritrovato un frammento osseo appartenente al dito di un individuo vissuto circa 40’000 anni fa e contenente DNA particolarmente ben conservato. Il gruppo di Pääbo si occupa di sequenziarlo e le primissime analisi rivelano delle caratteristiche uniche rispetto ai genomi delle specie conosciute fino a quel momento. Il timore di contaminazioni naturalmente c’è, ma, grazie ad analisi più approfondite, la risposta arriva: questi resti appartengono davvero a una specie umana nuova, diversa sia dall’uomo di Neanderthal sia dall’Homo sapiens, che viene denominata “uomo di Denisova”.

Non solo, la datazione dei resti ci dice anche che quando l’uomo moderno è migrato verso Nord ha incontrato sia i Neanderthal sia i Denisova, aprendo le porte alla possibilità di nuovi incroci e quindi nuovi impatti sul nostro patrimonio genetico. Come accaduto dopo la pubblicazione del genoma dell’uomo di Neanderthal, questa ipotesi è stata testata tramite analisi comparative e si è scoperto che, effettivamente, in certe zone del Sud-Est dell’Asia, alcuni individui possiedono fino al 6% di DNA dell’uomo di Denisova, confermando che, decine di migliaia di anni fa, questa nuova specie ha dato vita a nuove generazioni insieme all’Homo sapiens, condividendo sequenze di DNA che sono sopravvissute fino ai giorni nostri. Infatti, alcuni geni denisovani si sono rivelati vantaggiosi per l’adattamento all’ambiente circostante. Un esempio è il gene EPAS1, il quale ha un ruolo importante nella risposta corporea a condizioni di scarsa ossigenazione. La popolazione Tibetana possiede una variante di questo gene che gli permette di vivere senza problemi anche oltre i 4’000 metri sopra il livello del mare, un’altitudine proibitiva per la maggior parte della popolazione mondiale. Questa variante si è scoperta derivare direttamente dall’uomo di Denisova tramite incroci diretti con l’Homo sapiens e, mentre in altre popolazioni si è persa in quanto non particolarmente vantaggiosa ad altitudini meno estreme, è rimasta conservata in quegli individui che abitavano e che abitano tuttora la regione dell’Himalaya, dove tale variante garantisce un importante vantaggio. Un’ennesima cascata di scoperte nate dal lavoro pionieristico di Svante Pääbo.

Non solo esseri umani, ora possiamo studiare anche la storia dei patogeni.

Come esseri umani, sicuramente, conoscere la nostra storia e come siamo arrivati a essere ciò che siamo è qualcosa che ci affascina e interessa. Tuttavia, la paleogenomica rende possibile anche studiare l’evoluzione di altre specie viventi, delle quali magari abbiamo solo informazioni limitate. In questo periodo storico, più o meno chiunque avrà sentito dibattere riguardo l’origine del SarsCoV-2 e di come esso si sia diffuso fra la popolazione mondiale (oltre alle infinite varianti che si sono evolute nel tempo). Analogamente, patogeni antichi che hanno causato gravi epidemie e magari plasmato la popolazione mietendo numerose vittime, possono essere studiati con queste nuove tecniche per scoprirne origini e diffusione, dandoci indirettamente informazioni anche su alcune dinamiche interne alle civiltà dell’epoca.

Un esempio è stato pubblicato recentemente dal gruppo di Johannes Krause (prima ricercatore nel laboratorio di Pääbo e ora condirettore dell’istituto Max Planck a Jena, in Germania), che è riuscito a risalire all’origine del batterio della peste che colpì l’Europa medievale nel 1350, decimandone la popolazione. In particolare, lo studio conclude che un antenato di questo batterio causò un’epidemia inizialmente localizzata in una specifica regione dell’attuale Kyrgyzstan e che poi, probabilmente tramite rotte commerciali, si diffuse nel resto d’Europa, evolvendosi e dando il via all’epidemia di peste. Naturalmente, le dinamiche esatte sono difficili da ricostruire e tantissime domande restano senza risposta; domande riguardanti, per esempio, il luogo d’origine del batterio che causò l’epidemia in Kyrgyzstan, oppure i contatti chiave che hanno iniziato gli eventi di diffusione, e così via. Ci vorranno anni e molti altri studi per rispondere, ma ora, grazie alla paleogenomica, abbiamo dei nuovi ed efficaci mezzi per affrontare queste sfide, e chissà quante cose restano in attesa di essere scoperte con questa “macchina del tempo” che studia il DNA di specie ormai estinte.

Per concludere, possiamo dire che, anche se non abbiamo ancora la risposta definitiva alla domanda “Cosa ci rende ciò che siamo?”, l’immenso lavoro di Pääbo ha creato i presupposti per poter finalmente arrivare a delle risposte, ottenendo già alcuni risultati che fino a pochi anni fa si ritenevano impossibili. La ricerca, infatti, si muove sempre un passo alla volta e, per quanto grandi siano le scoperte fatte, molte domande a cui cerchiamo di rispondere richiedono tantissimo tempo e lavoro. A volte l’obiettivo è così ambizioso che quelli che da fuori possono sembrare dei semplici primi passi nella giusta direzione, possono in realtà valere addirittura un premio Nobel.

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