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PERCHÉ LE ELEZIONI IN PALESTINA SONO STATE RINVIATE

3 Maggio 2021

Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas (conosciuto anche con la kunya Abū Māzen) ha dichiarato il 29 aprile che le elezioni legislative e presidenziali del 22 maggio e del 31 luglio verranno rinviate. Il motivo del rinvio è l’impossibilità di recarsi alle urne per i palestinesi residenti a Gerusalemme Est. Israele, che ha il controllo della zona, non garantirà infatti le procedure di voto.

Mahmoud Abbas/www.kremlin.ru

Era stato lo stesso Abbas ad annunciare, il 15 gennaio scorso, che sarebbero state indette le elezioni legislative e presidenziali, le prime per la Palestina negli ultimi 15 anni. Abbas, che il 25 novembre 2004 succedette a Yasser Arafat come leader di Fath, un’organizzazione politica e paramilitare palestinese facente parte dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, venne eletto Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese il 15 gennaio 2005. Le consultazioni parlamentari, a partire da quel momento, si sarebbero dovute svolgere ogni quattro anni. Pur essendo il suo mandato scaduto il 15 gennaio 2009, avendo prorogato la durata del suo mandato al 15 gennaio 2010 in base ad una clausola costituzionale, e in seguito riconosciuto come legittimo dall’ONU e da tutti gli Stati che riconoscono l’indipendenza palestinese, mantiene tutt’oggi la sua carica.

L’annuncio delle elezioni era stato accolto favorevolmente anche da Isma’il Haniyeh, leader di Hamas, un’organizzazione politica e paramilitare considerata ufficialmente terroristica da alcune nazioni nel mondo (tra cui Stati Uniti) e dall’Unione Europea.

Le ultime elezioni parlamentari del 2006, le prime consultazioni “nazionali”, furono vinte con il 44% dei voti proprio da Hamas, ma la vittoria non fu riconosciuta dalla comunità occidentale. Si scatenò così una guerra con Fath, che nel 2007 perse il controllo territoriale della Striscia di Gaza, da allora roccaforte del movimento islamico. Le due fazioni sono rimaste rivali, almeno formalmente, senza raggiungere nessun accordo di riconciliazione.

In molti sostengono che per Abbas le legislative servivano come mezzo per unificare le fazioni palestinesi sotto la sua guida, e le presidenziali come una formalità volta a legittimarlo agli occhi degli USA e dell’UE.

Da un lato, infatti, Abbas era conscio del fatto che il Neopresidente degli USA Joe Biden avrebbe visto di buon occhio le consultazioni, riattivando le comunicazioni tra Washington e Ramallah (de facto capitale dello stato palestinese), dopo che l’ufficio di rappresentanza dell’Autorità palestinese a Washington venne chiuso sotto l’amministrazione Trump. Dall’altra, però, delle elezioni in un contesto di relativa apertura e trasparenza avrebbero potuto indebolire e in una certa misura delegittimare Fath e Abbas.

A fine marzo, da un sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research, era emerso come l’80 per cento dei palestinesi intendessero partecipare alle elezioni legislative. Fra questi, il 27% erano intenzionati a votare Hamas, mentre il 24% cento per la lista di Fath legata ad Abu Mazen Inoltre, dal sondaggio emergeva un’altra figura potenzialmente candidata ad un buon risultato alle legislative: Marwan Barghouti, ex Segretario Generale di Fatḥ per la Cisgiordania, grande promotore di un processo di pace israelo-palestinese, imprigionato da Israele il 15 aprile 2002 e condannato a 5 ergastoli il 20 maggio 2004 per cinque omicidi provocati da un gruppo armato sotto il suo comando e di tre attentati. Nel corso degli ultimi 15 anni vi sono state numerose campagne per la liberazione di Barghouti. Tra coloro che si sono spesi in questa causa vi sono alcune eminenti personalità palestinesi, membri del Parlamento Europeo e il gruppo israeliano Gush Shalom. La Reuters ha affermato che la figura di Barghouti è assimilata da molti a quella di un “Nelson Mandela palestinese“.

Ritratto di Barghouti dipinto sul muro di separazione israeliano a Kalandia, punto di passaggio tra Gerusalemme e Ramallah/Ben Siesta via Wikimedia Commons

Ma il dato più importante che emerge dal sondaggio è che il 93% dei 2,3 milioni di palestinesi si erano registrati per votare alle elezioni. Molti di questi considerano Barghouti l’unica alternativa in grado di dare risposta alle priorità che i palestinesi hanno indicato come preminenti nel sondaggio: riunificazione fra Cisgiordania e Gaza, rimozione del blocco israeliano della Striscia, miglioramento delle condizioni economiche e lotta alla corruzione pubblica.

È dunque probabile che il rinvio delle elezioni a causa di Israele sia un mero pretesto dettato dalla paura di Abbas per una debacle. Va però sottolineato come fin da subito l’argomento della partecipazione dei palestinesi gerosolimitani è stato posto al centro dell’attenzione in quanto avrebbe potuto essere un valido motivo per l’annullamento delle elezioni. Infatti, accettare di non tenere le elezioni a Gerusalemme significa un riconoscimento della sovranità di Israele sulla città. Se Israele rivendica l’intera Gerusalemme come sua capitale, i palestinesi considerano Gerusalemme Est, sulla base dei confini del 1967, come la capitale designata per il futuro Stato palestinese.

Tecnicamente, però, l’Autorità palestinese non ha necessità di chiedere l’autorizzazione a Israele per tenere elezioni, neanche a Gerusalemme Est: gli Accordi di Oslo del 1993, infatti, consentono ai palestinesi di Gerusalemme est di votare. L’articolo VI dell’allegato II del 1995, noto come accordo sul periodo di transizione o Oslo 2, afferma che «un certo numero di palestinesi di Gerusalemme voterà alle elezioni attraverso i servizi resi negli uffici postali di Gerusalemme, conformemente alla capacità di tali uffici postali». Nel 1996, a 5.367 residenti palestinesi di Gerusalemme Est è stato permesso di votare in cinque uffici postali. Nelle elezioni del 2005 e del 2006, il numero degli uffici postali è stato portato a sei con una capacità di 6.300 elettori. Prima dell’annuncio di Abbas, la Commissione elettorale palestinese aveva chiarito che questi 6.300 elettori residenti a Gerusalemme Est avrebbero dovuto presentare le loro schede attraverso gli uffici postali israeliani. Gli altri 150.000 avrebbero potuto votare con o senza il permesso israeliano.

Fino ad ora, non sono giunte dichiarazioni da parte di Israele circa la propria autorizzazione per il processo elettorale a Gerusalemme Est. Prima dell’annuncio del 29 aprile, il Ministero degli Esteri israeliano aveva affermato che le elezioni in Palestina sono una “questione interna” e che Israele non aveva intenzione né di intervenire né di ostacolarle. In ogni caso la questione del voto a Gerusalemme Est ha fornito il motivo, o il pretesto, al leader palestinese per fermare tutto di fronte alla possibilità concreta di un insuccesso di Fath e di una vittoria del gruppo rivale Hamas, meglio organizzato e posizionato per guadagnare terreno in Cisgiordania. Non a caso Hamas, per mezzo di un suo portavoce, ha espresso la propria contrarietà al rinvio.

A livello internazionale, sono state diverse le voci a sostegno delle elezioni in Palestina. Le tensioni a Gerusalemme potrebbero infatti intensificarsi, facendo seguito agli scontri di dieci giorni fa tra suprematisti ebraici di estrema destra e palestinesi e alla contro-protesta di alcuni gruppi palestinesi che hanno accusato la polizia di aver impedito i consueti incontri serali in occasione del Ramadan.

Sono probabili anche proteste contro Abbas in Cisgiordania e Gaza. Hamas, invece, ha al momento il coltello dalla parte del manico, potendo alimentare il fuoco della contestazione senza cercare lo scontro, avendo già guadagnato consensi a danno del primo.

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