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RENZI E CALENDA: FILOSOFIE POLITICHE A CONFRONTO

Capita non di rado che uomini di politica si rifacciano, direttamente o meno, a uomini della storia: scrittori, intellettuali, filosofi, loro simili, ma di altri secoli. Spesso però è un richiamo di facciata, un atteggiamento per convincere il cittadino della bontà culturale delle proprie scelte e convinzioni. Eppure, quando Renzi dice d’essere machiavellico e Calenda socialista liberale “a la Rosselli”, vi è qualcosina in più.

507 anni fa un grande pensatore politico, Niccolò Machiavelli, scrisse un’opera che parlava delle qualità che un principe doveva avere per diventare tale e per mantenere la sua carica. Il principe deve possedere l’astuzia, poiché tramite essa deve saper aggirare le situazioni volgendole a suo favore. Il principe deve saper simulare e dissimulare. Sul dizionario Treccani la parola machiavellico viene definita come sinonimo de “il fine giustifica i mezzi”, dal momento che Machiavelli scriveva come un governante possa mantenere il proprio potere in maniera efficace e duratura se i suggerimenti che squaderna sono estremamente spregiudicati. In sostanza l’uomo “machiavellico”, secondo una certa tradizione interpretativa e di studio, è un soggetto cinico, subdolo, con un acume smaliziato, che persegue i propri fini per mezzo di trame. Si può certamente sostenere, a ragione o meno, che il leader di Italia Viva possa difettare di qualche virtù: ma di certo d’astuzia, di fiuto, è piuttosto provvisto. Capace d’essere l’interruttore che ha fatto accendere la lampadina sull’alleanza Pd-5 Stelle così che all’interno del secondo Governo Conte vi siano suoi ministri ed altri a lui molto vicini, ci ha ricordato che in politica spesso ciò che conta non è il numero ma il peso specifico. Un’abilità che palesò in occasione della sostituzione di Enrico Letta al governo: MachiaRenzi alla conquista del principato. Ma vi è una grande, profonda differenza fra la conquista del potere e il suo esercizio: lo stesso Principe che oggi trionfa, domani va in rovina, andava sottolineando il Machiavelli. Perché la fortuna cambia capricciosamente: vinci quando il tuo carattere si addice alla qualità dei tempi, rovini quando la contrasta. È dunque vero che il fine ultimo a cui si riferiva Machiavelli era lo stabile e virtuoso, non il vantaggio momentaneo di un uomo politico che, messo ai margini dall’evolversi della situazione politica, cerca ad ogni costo il modo di tornare a essere influente. Scrive infatti Machiavelli che “bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi”. Che Matteo Renzi sia stato in grado di liberarsi abilmente da lacci e lacciuoli che, dal 4 dicembre 2016, lo tenevano relegato ai margini dell’azione politica, è indubbio. Ma per sbigottire i lupi sarà sufficiente la sua pattuglia di parlamentari, per quanto utilizzata con astuzia? Di certo l’uomo di Rignano sull’Arno non è tipo di andare in guerra senza una strategia studiata meticolosamente e senza avere le spalle coperte da un esercito organizzato. Così escluso, non fosse altro che per motivi anagrafici, che Niccolò di Bernardo dei Machiavelli abbia potuto prendere a modello Matteo Renzi per scrivere i suoi testi filosofici, rimane dunque eccezionale, se non incredibile, come l’azione politica di Renzi, a distanza di anni, sia simmetrica con il contenuto (sebbene ridotto solo a qualche celebre concetto) de “Il Principe”. Tu chiamala, se vuoi, fiorentinità.

All’angolo opposto del ring vi è invece Carlo Calenda: pugile focoso, più impulsivo, “romano de Roma”, che preferisce il gancio al colpo sotto la cinta. In “Orizzonti Selvaggi” chiama la sua strategia “Democrazia progressista”, e spesso fa riferimento storico e ideale al socialismo liberale e alla sua ricerca di un equilibrio tra giustizia e libertà (tralascerei il Partito d’Azione, e il popolarismo di Sturzo, poiché si rischia, in maniera a volte confusa, di mettere troppa carne al fuoco). Twitta Calenda il giorno 27 Maggio: “che un cittadino non conosca il socialismo liberale o il partito d’azione ci sta. Che non lo conosca un “politico” è rivelatore del grado di ignoranza della politica italiana.” Ma cosa è il “Socialismo liberale”? È anzitutto un’opera scritta da Carlo Rosselli durante il suo periodo di confino a Lipari, tra il 1928 e il 1929, che narra, come da sua stessa definizione, la “riflessione dopo la sconfitta”. Costituisce la testimonianza della crisi intellettuale, morale e ideologica che ha pervaso il Partito Socialista negli anni ’20 – ’30 del Novecento. Considerazioni non dissimili da quelle che il leader di Azione fece a proposito dei motivi che lo portarono al divorzio dal suo vecchio partito, il PD, e a difesa della nascita del suo nuovo partito. Il liberalismo, come sappiamo, nel corso della storia ha avuto moltissime accezioni. Rosselli aderisce da un lato alla teoria idealistica del liberalismo, concependo la libertà come fine ultimo dell’uomo, e dall’altro sostiene, sul piano storico, che la libertà non è concepibile come dato di natura poiché “non si nasce ma si diventa liberi e ci si conserva liberi solo mantenendo attenta e vigilante la coscienza della propria autonomia”. Egli per rendere possibile il suo progetto politico doveva necessariamente rifarsi a una rivoluzione delle coscienze: solo così il Partito Socialista Italiano sarebbe diventato partito del realismo, del progressismo, del riformismo e non della chiusura. Un richiamo, quella alla rivoluzione della morale, alla coerenza e al rigorismo nel giudizio come premesse del futuribile che spesso Calenda fa proprio. Non a caso spesso sostiene con forza come il problema più grave del paese sia la scarsità d’attenzione (da parte tanto dei politici quanto dei cittadini) data al mondo dell’educazione e dell’istruzione, autentici e fondamentali presidi di una democrazia autenticamente progressista. Eppure, disse Bobbio, non c’è mai stato un partito socialista liberale: il pensiero di Rosselli non si è mai fatto “carne”. Nell’augurare ai progetti di Calenda un destino più fecondo, sottolineo come il problema sia la tendenza al semplificare, a rimanere nel tradizionale, a non voler percorrere passi non ancora calpestati “tipicamente italiana”. Probabilmente la “lotta per la libertà rosselliana”, l’idea di una “Rivoluzione morale” mirava a dare una svolta a questo tipo di mentalità. Scrisse Rosselli, a questo proposito: «il fascismo non è cioè un semplice fatto di reazione borghese; esso assume caratteri tutti suoi particolari e inconfondibile in relazione al clima storico nel quale e dal quale si è sviluppato. Esso è il logico sbocco di tutta la vita italiana: è la sintesi dei mali antichi e recenti di un paese di scarsa educazione politica, povero e capitalisticamente arretrato dove la libertà conquistata da esigue minoranze attraverso transazioni e riserve restò estranea alla coscienza generale, dove si ebbero tutte le degenerazioni del sistema democratico parlamentare senza che mai fosse esistita una vera democrazia e un vero parlamento, dove al di là dello scenario di cartone della sovranità popolare il potere di fatto sempre risiedette nelle mani di una ristretta oligarchia facente capo al potere esecutivo, al partito di corte, alla burocrazia e a taluni gruppi parlamentari settentrionali, dove insomma difettarono le condizioni elementari per il sorgere e l’affermarsi di una salda coscienza politica». Influenze che possiamo ritrovare in ciò che Calenda scrisse nel suo manifesto sul Foglio: sottolineò come la sua volontà fosse quella di costruire un “pensiero politico nuovo, adatto ai tempi, che recuperi (in parte) e rinnovi quello delle tre grandi famiglie politiche democratiche europee: popolari, liberaldemocratici, socialdemocratici. Un pensiero fondato sul recupero del valore dell’identità (non statica ma in continua evoluzione) e di un patriottismo inclusivo, su un’economica sociale e di mercato, sull’attenzione al progresso della società come obiettivo superiore rispetto a quello della crescita economica”. Che Calenda sia pieno di buoni propositi, difficili da non condividere, è indubitabile. Ma è altresì vero che spesso preferisca vestire i panni dell’intellettuale, del filosofo politico, e ogni tanto, come scherzosamente va sostenendo qualcuno, della “suocera del governo”. Che di fronte a queste legittime denunce, sia qualche volta mancante di un’analisi politichese del fatto politico, cioè di chi, come e perché possa controllare questi processi alternativi. Resta come dato di fatto che l’idea di una politica guidata dalle leggi della morale, idea così cara e così comune a Rosselli e Calenda, non ha ancora avuto grande fortuna, soprattutto in Italia, dove è stata spesso irrisa in nome del realismo politico. Un certo Benedetto Croce ha in tal senso sostenuto che l’onestà politica, nella sua accezione comune, è un ideale degli imbecilli e che l’unica onestà degna di questo nome “non è altro che la capacità politica, ossia la scelta dei giusti mezzi per raggiungere i fini perseguiti: quella fondamentale virtù che Machiavelli chiede al suo Principe.

A chi tra Renzi e Calenda, e ai rispettivi modi di intendere e di volere la politica, il tempo darà ragione, è cosa al momento ancora sconosciuta. Vero è che tre uomini di sinistra in una stanza arriveranno sempre a fondare almeno quattro partiti. Vero è che due galli in uno stesso pollaio combinano poco, intenti a farsi di continuo la guerra. Così concludo con un piccolo “ma forse”: e cioè un po’ di Renzi in Calenda e un po’ di Calenda in Renzi: una forza mica male! Incompatibili? Probabile: eppure se nessuno s’azzardasse a sfidare l’improponibile, poiché incompatibile, oggi non avremmo il vitello tonnato, un antipasto la cui bontà è preceduta solo dalla sua fama. Certo, ci sarà da capire chi farà il tonno e chi il vitello.

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