Manifestazione per la pace a Milano - foto di Francesco Cannucci
/

Reportage alterthinkiano dalla manifestazione per la pace a Milano

A me le manifestazioni non sono mai piaciute: roba da giovanotti ribelli, da rivoluzionari, non fanno al caso mio, pensavo.

Prima di sabato, la mia concezione di manifestazione era la seguente: un mucchio di persone ammassate in un unico posto, che urlano a squarciagola, che sbracciano come degli indemoniati, che si esaltano, che ti toccano, soprattutto che ti toccano. Qualcosa di molto simile a un rave party, in sostanza. 

Partiamo dall’inizio. È sabato 5 novembre, il giorno delle due manifestazioni per la pace: una a Roma, l’altra a Milano. Scelgo quella di Milano e, badate bene, il motivo per cui decido di andare dritto su Milano non è soltanto che la suddetta manifestazione sia a due passi da dove abito, è più profondo, è una questione di dignità.

Alla manifestazione di Roma, infatti, dicono di essere a favore della pace, ma, guardando i fatti, a me pare di capire che siano più a favore della resa: parlano di guerra in senso astratto, senza fare distinzioni tra chi aggredisce e chi è aggredito, fanno una fatica immensa a nominare Putin, sono contrari all’invio di armi alla resistenza ucraina, c’è pure Conte che dice che il governo non si deve azzardare a inviarle.

A quelli di Roma non importa nulla se il popolo invaso si sottomette all’invasore, basta che si smetta di sparare. Io mi chiedo: ma che pace è questa? Insomma, ieri, in Italia, di manifestazione per la pace, la vera pace, ce n’era una sola, e io, non proprio un grande amante di questo genere di cose, c’ero.

Il reportage inizia dalla fermata del tram. Dicevo prima di come la manifestazione fosse a due passi da casa mia, ma perché fare due passi, tra l’altro in uno splendido sabato pomeriggio di sole, se c’è un comodissimo tram che li fa al posto tuo?

Salgo sul tram, mi innervosisco perché è pieno di gente, un minuto e mezzo, scendo, sono arrivato. Un rapido check al cellulare. Leggo due tweet, poi apro Instagram e scopro che c’è pure Lei: ma come, ma io non lo sapevo, ma potevo vestirmi meglio mannaggia, se la becco le chiedo di uscire insieme. Ah, dimenticavo, Lei è Mara Carfagna.

Con gli occhi a cuoricino, trasportato dall’amore, mi dirigo verso l’Arco della Pace. Alzo lo sguardo dal telefono, e la prima persona che vedo è nientemeno che Matteo Renzi: mi passa di fianco rilassatissimo, indossa jeans, giacchetta e sneakers, ha le mani in tasca e quell’aria da sbruffoncello che personalmente adoro. Io un po’ ci rimango, e mi chiedo se sia davvero lui o se sia Mara Carfagna che mi provoca delle allucinazioni, poi soprassiedo perché si comincia. 

Si parte con l’Inno d’Italia. Il me di un tempo, quello sbarazzino e un po’ troppo di sinistra, avrebbe detto: “Buu, sovranisti, ma che è ‘sta cafonata?”. Il me di adesso, per niente sbarazzino e troppo poco di sinistra, dice: “Che bello”, e si porta la mano al petto. 

“Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò. Sì!”… A presentare c’è Matteo Richetti, deputato di Azione, purtroppo senza cravatta. Richetti comincia così: “Milano, Italia, Europa, ciao!”. Io mi giro verso un mio amico e declamo Cruciani: “Italianiiii!”. Iniziamo benissimo.

Poi torno serio. Richetti saluta Mattarella e riprende le magistrali parole di lui sul fermo sostegno a Kiev. Io tra me e me penso: “Per fortuna che ci sei, Presidente”. Un cenno alle donne iraniane e alla loro battaglia per la libertà, ci sta tutto.

Poi quello che a mio avviso è il momento più commovente in assoluto: l’inno ucraino. A interpretarlo è Ulyana Kinash, una cantante lirica ucraina. Indossa uno splendido vestito giallo e azzurro e una corona di fiori colorati in testa. Ha una voce meravigliosa e il pugno stretto sul cuore. A me viene la pelle d’oca.

La cosa più emozionante è che tra i partecipanti ci sono uomini, donne e bambini ucraini che recitano l’inno insieme alla cantante. Li riconosci non solo perché cantano, ma perché hanno degli sguardi diversi dai nostri, appesantiti, segnati dalla vita, eppure non hanno perso quella dolcezza primitiva, e quei sorrisi sembrano impossibili da sradicare.

Non so cos’abbiano passato, ognuno avrà una storia diversa da raccontare, i bombardamenti, le sopraffazioni, l’abbandono della propria casa, ma adesso loro sono qui, al sicuro, di fianco a noi, e con quell’inno struggente e appassionato è come se ci chiedessero, in una maniera elegante ma potentissima: “Vi prego, non lasciateci soli”. 

Finito il momento di poesia, torna prosaicamente sul palco Richetti, e ci tiene a mettere una cosa in chiaro: “Lo dico a tutti i relatori, oggi costruiamo un mosaico, pezzettini piccoli, due minuti”. Come a dire: “Nun v’allargate”.

Il Richetti intransigente sui tempi sarà il leitmotiv comico dell’intera manifestazione. Grazie alla mia eccezionale minchionaggine, infatti, noto che ogni volta che il tempo dell’ospite sta per scadere, Richetti compare minaccioso dietro il poveretto che parla, e più quello non smette più lui si avvicina con fare intimidatorio. A un certo punto, con una relatrice particolarmente faconda, Richetti le si affianca direttamente mentre lei sta parlando.

Il primo ospite è Pierfrancesco Maran. Dice che “faremo tutto il possibile perché gli ucraini possano tornare nel proprio paese”, che “l’Italia non li lascerà soli”, che il supporto sarà “umanitario, diplomatico e militare”. Aggiunge: “Tutti vogliamo la pace, ma il modo perché cessino le armi è che la Russia torni oltre i confini internazionalmente riconosciuti”. Come primo intervento è ottimo, fissa una linea, mette subito le cose in chiaro. Applausi dal pubblico.

Il secondo è un ospite d’eccezione: il sindaco di Leopoli, in collegamento dall’Ucraina. Il sindaco è circondato dalle mamme dei soldati che stanno combattendo. Una signora inizia a parlare delle micidiali prigioni russe, di soldati partiti per combattere, morti e mai tornati, morti e mai seppelliti. Poi un’altra donna ci ringrazia. Io penso che dovremmo essere noi, in realtà, a ringraziare loro, perché loro stanno combattendo per tutti noi, anche se molti di noi non se ne rendono conto. Poi tocca al sindaco, che ripete la riflessione che avevo fatto un attimo prima: “Stiamo difendendo tutte le persone: francesi, tedeschi, italiani, ucraini, tutti”. Conclude con un meraviglioso “Never give up! Only victory, only victory! Slava Ukraini!”.

Nel frattempo, tra la folla gira una persona di colore che cerca di vendere dei libri. Ne tiene cinque o sei in una mano e io, curiosissimo, riesco a leggere il titolo del primo: si chiama “Poemi della Negritudine”. È un fatto bizzarro, ma che mi rincuora, mi fa capire di essere nel posto giusto. Solitamente, infatti, mi imbatto in ambulanti che vendono fazzoletti, ombrelli, braccialetti o cianfrusaglie varie, ma non mi era mai capitato un venditore di libri. Ora, poiché il venditore si adegua al tipo di cliente che ha, evidentemente intorno a me c’è gente che legge, gente acculturata. Sono certo, per dire, che alla manifestazione di Roma gli ambulanti vendono dello scadentissimo ciarpame.

Torniamo sul palco. Sale un Marco Cappato in formissima, ricorda le “più coraggiose manifestazioni per la pace in assoluto”, quelle di Mosca e di San Pietroburgo, e ricorda i cittadini russi arrestati perché non si riconoscevano con il regime di Putin. Poi fissa con chiarezza due punti: “l’incriminazione di Putin davanti alla Corte Penale Internazionale come criminale di guerra” e “l’Ucraina nell’Unione Europea”. Tanti tanti applausi.

La prossima ospite è Bianca Cimiotta Lami. Non la conosco, chiedo “Chi è lei?”. Mi rispondono che è “quella dei partigiani buoni, non quelli filoputiniani”. Meraviglioso. Per fare chiarezza, i partigiani cattivi, quelli filoputiniani, sono quelli dell’ANPI, associazione che ha dimostrato di avere posizioni piuttosto ambigue sulla guerra. Mi chiedo allora: a che punto saremmo oggi se i partigiani di un tempo avessero seguito l’attuale linea dell’ANPI? A che punto saremmo se i partigiani di un tempo si fossero arresi ai nazifascisti?

Intanto Richetti, ogni volta che annuncia un intervento, ripete quanto dovrà durare: “Due minuti”, “Ecco i suoi due minuti”, “Ti lascio la parola per i tuoi due minuti”. Fa benissimo a essere ligio, ci mancherebbe, ma io sono particolarmente idiota e questa cosa continua a farmi ridere.

Arriva un ragazzo, Ennio Ferlito, militante dei Radicali Italiani e di Più Europa. Dice cose condivisibili, anche se non troppo originali. Il pubblico applaude, io applaudo, poi però fa un’uscita per me intollerabile: il gioco di parole “paci-finti” per riferirsi ai cosiddetti pacifisti, in realtà filoputiniani. È vero, ha ragione, quelli non sono pacifisti, ma la battutina così no dai, ti prego, mi fa troppo assemblea del liceo. Ferlito usa anche un’altra locuzione che mi irrita parecchio: “Opinionisti nostrani”. Non so perché mi dia sui nervi questa cosa, sono le mie stranezze. Poi, alla fine del discorso, ricordo che fa parte dei Radicali Italiani e di Più Europa, e mi torna tutto: deve essere un loro vezzo quello di essere costantemente saccenti.

Mi guardo un po’ intorno e mi rendo conto che è pieno di persone che conosco tramite Twitter. È una cosa incredibile. Avete presente quelle noiose discussioni su Twitter che è una bolla, che è una roba delle élite, che il mondo reale è un’altra cosa? Sciocchezze, siamo tutti qui a Milano.

Richetti chiama sul palco quattro ragazzi, ed è proprio qui che raggiunge il punto più alto della giornata. Richetti si gira, guarda i ragazzi in faccia, azzarda uno strano conteggio e fa: “Sono i vostri due, quattro, cinque minuti!”. Quando dice “cinque minuti” fa un gesto con le braccia come a dire “ma sì, dai, esageriamo!”. I quattro ragazzi fanno parte della comunità ucraina che ogni sera manifesta a piazza Duomo. Brividi, bravissimi, veri, genuini. Una piccola nota: uno dei quattro parla delle manifestazioni sostanzialmente filoputiniane chiamandole “finto pacifiste”, e non “paci-finte”. Io, solo per questo, lo vorrei abbracciare.

Torna un fiabesco Richetti, ancora costantemente fissato sui tempi, che fa: “Verrò licenziato per colpa vostra, avete sforato tutti i minuti, ma ci avete messo un’autenticità che non si ferma a un racconto così forte”.

C’è poi un videomessaggio del sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Un bel discorso, a Gori va riconosciuto il fatto che ogni volta che c’era da schierarsi, prendendo posizioni anche divergenti rispetto a quelle del suo partito, il Pd, lui lo ha fatto. Parla delle fosse comuni di Bucha — città che ha visitato —, delle violenze contro i civili perpetrate dai russi e avverte: “Guai ad abbandonare quel popolo, guai ad annacquare le sanzioni alla Russia, per quanti sacrifici ci possano costare, e guai a negare aiuti alla resistenza ucraina, anche l’invio di armi”. Dice poi che il Pd ha mantenuto una linea solida, ma insomma, mica così tanto: Letta è stato bravo a tenere la barra dritta, ma dentro una certa frangia del Pd, quella più massimalista e più vicina a Conte, ribollono pulsioni putiniane. Comunque, tutto sommato, bravo Gori. 

Dopo Gori, arriva un altro esponente candidato dal Pd, Carlo Cottarelli. Lo stesso discorso fatto per Gori vale anche per lui: poteva non schierarsi e invece ha deciso di farlo in maniera convinta, fermamente dalla parte dell’Ucraina, dei “valori di libertà”, dei “valori di democrazia” che gli ucraini stanno difendendo per loro e per noi. 

Gli ospiti successivi sono i membri dell’Associazione cristiana degli ucraini, arrivati numerosi da Roma, in pullman.

Successivamente, Richetti chiama sul palco Matteo Hallissey. Accidenti, ma lui lo conosco, scrive su AlterThink e ho anche il suo numero di telefono. Avete capito? Ho il numero di telefono del ragazzo che sta parlando proprio ora sul palco, mica bruscolini! Il mio carissimo amico Matteo cita un discorso di Berlusconi in cui quest’ultimo chiede di smettere di armare l’Ucraina, poi contesta questa tesi: “Smettere di armare l’Ucraina è la condizione preliminare per lo sterminio del popolo ucraino, per non avere mai più l’Ucraina”. Aggiunge che “mentre noi ci lamentiamo delle bollette, c’è chi a mille chilometri da noi paga con la propria vita e combatte per la libertà”. Alla fine urla tre Slava Ukraini, i più sgolati del pomeriggio. Bravo. 

Mentre penso al fatto che Matteo ha tre anni in meno di me, e ha appena fatto un discorso di fronte a una folla, mentre io sono un idiota che sta qua a ridere con il cronometro di Richetti, ecco che sale sul palco Francesco, studente delle scuole superiori. Avete capito bene: delle scuole superiori. Mi sale l’angoscia. Si vede che Francesco è un giovane pieno di entusiasmo, e proprio sulle ali di quell’entusiasmo pronuncia una frase un po’ infelice: “La Russia, se necessario, va distrutta”.

Intendiamoci, io condanno aspramente la condotta criminale della Russia di Putin, ma credo che lasciarsi andare a espressioni come questa sia sbagliato, perché è un linguaggio violento e, in quanto tale, non sta bene in bocca a un democratico come Francesco, a cui auguro il meglio.

Gli ospiti successivi sono Lisa Noja, che parla di come quella costruita da Putin sia una prigione non soltanto per gli ucraini, ma anche per gli stessi russi, e Alessandro Alfieri, del Pd, che si schiera dalla parte delle democrazie liberali contro Putin, a favore delle sanzioni alla Russia e dell’invio di armi all’Ucraina: “Non c’è pace senza giustizia, quella è resa; non c’è pace senza libertà, quella è sottomissione e servitù”. Molto bene Alfieri, fin quando, sul finale, si lancia in uno sconsiderato appello all’unione delle opposizioni “contro la destra”, anche in vista delle prossime elezioni regionali lombarde. Poteva evitare.

Arriva Simona Viola di Più Europa. Vediamo se pure lei ha quel vezzo là da saputella, oppure se con l’età poi svanisce. Dunque, almeno le battutine non le fa, però esagera un po’ con i “lo dicevamo da tempo”, “Più Europa lo ha detto subito”: forse lo speechwriter di Più Europa è Massimo Cacciari. Allora, finché si scherza va tutto bene, ma poi Simona Viola fa una cosa che mi fa uscire pazzo.

Viola prende una serie di temi e li butta sul tavolo, a casaccio: parla del governo Meloni, dei mille migranti lasciati in mare, dei diritti LGBT, ricorda alla presidente che “non esiste una lobby LGBT” e polemizza pure sulla norma sui rave party. Poi, in maniera totalmente sconclusionata, cerca di collegare questi temi con la battaglia che sta combattendo il popolo ucraino contro l’invasore russo.

Il sangue mi inizia a ribollire. Cerco di rimanere calmo. Ma io dico, capisco che siano dei temi rilevanti, ma ti sembra il caso di proporli a una manifestazione come quella di oggi? Ma con che coraggio? Ma non pensi che, facendo ciò, tu stia togliendo valore a quello che fanno i soldati ucraini? Ma non credi che ci sia una leggera differenza tra una guerra di resistenza, che si combatte con le armi, e una guerra ideologica, che si combatte con gli articoli determinativi? Simona Viola bocciata.

Poi interviene Samira Ardalani, dell’Associazione Giovani Iraniani residenti in Italia, che ricorda la rivolta nazionale per la libertà e la democrazia in 214 città dell’Iran, i 500 manifestanti uccisi dalle forze repressive e i 25.000 attualmente in carcere. Molto brava, soprattutto dopo la precedente ospite. Applausi.

È il momento di uno degli interventi più attesi, quello di Letizia Moratti, dimessasi qualche giorno fa dalla giunta regionale lombarda guidata da Attilio Fontana e candidata alle prossime elezioni regionali con il Terzo Polo. Per lei questo è il momento dell’accreditamento a sinistra, dopo una storia nel centrodestra. Mi giro verso un mio amico e gli dico: “Oggi cerca l’aggancio”. Moratti inizia a parlare, il pubblico non sente e le grida: “Voce!”. Non partiamo benissimo. L’ex sindaca di Milano inizia in maniera un po’ incerta: parla della discriminazione delle donne, che avviene anche in Italia, e di inclusività.

Ripeto, capisco, però parlare di discriminazione femminile in Italia e di inclusività, nel giorno in cui si manifesta a sostegno di un popolo invaso, bombardato, torturato e stuprato, beh, come dire, mi pare di dubbio gusto. Ma magari per l’aggancio a sinistra va più che bene, tanto a sinistra di buongusto ne hanno poco.

Poi, finalmente, arriva alle donne ucraine (“Siamo con voi”) e, sempre in riferimento all’invasione russa, cita San Giovanni Paolo II: “Non c’è pace senza giustizia”. Bravissima, ci siamo ripresi. Il finale è bellissimo: Letizia Moratti ricorda suo papà Paolo, “fiero partigiano liberale” che ha combattuto contro il nazifascismo e, mentre lo fa, si commuove. In questo caso il collegamento con la resistenza ucraina è azzeccatissimo. Pienamente promossa.

Per finire, è il momento dell’organizzatore della manifestazione, Carlo Calenda. Calenda inizia raccontando un fatto storico: la crisi dei Sudeti e la Conferenza di Monaco, eventi che portarono alla Seconda Guerra Mondiale. Questa l’aveva già detta, l’avevo già sentita su Instagram, ma ci sta riproporla oggi. E poi quella storica frase di Churchill non smetterei mai di ascoltarla: “Potevate scegliere tra la guerra e il disonore, avete scelto il disonore e avrete la guerra”. Applauso.

Calenda fa un bel discorso, chiaro, senza ambiguità, con posizioni nette e condivisibili. Va segnalato che il Terzo Polo è il soggetto politico che si è schierato in maniera più decisa nel sostegno all’Ucraina e nella ferma condanna alla Russia. Calenda is on fire: “Io sono con tutti quelli che manifestano per la pace, tranne una categoria: quelli che manifestano per la pace e dicono ‘disarmiamo l’Ucraina’, perché manifestano per la resa”. E poi: “Non capisco come un pezzo del mondo che parla continuamente di resistenza e che canta Bella Ciao si dimentica che quella si chiamava resistenza, non resa”. Poi si scaglia dritto per dritto contro Orsini, la De Cesare e Il Fatto Quotidiano (“Ha fatto propaganda a Putin dall’inizio di questo conflitto”).

Ne ha pure per Conte, ma che meraviglia che sei, Carletto, quando fai così: “Il mio amico Conte cacchio se è confuso, è da quando è apparso sulla scena politica italiana che è confuso, è da quando appoggiava Trump, quando faceva lo scendiletto di Salvini putinista, da quando andava a firmare la Via della Seta che è confuso”. Boom baby.

Poi non ce la può fare, è più forte di lui, non riesce proprio a trattenersi: “Diceva Pericle…”. Tra il pubblico tutti si guardano e sorridono: è lui, è fatto così, lo amiamo anche per questo.

Il finale è una delle scene più cool dell’anno. Calenda ringrazia, fa ciao con la mano, sta per andarsene, poi ci ripensa, torna al microfono e, tutto energico, fa: “Alt! E adesso noi siamo titolati a cantare Bella Ciao, porcaccissimo Giuda!”. Quel porcaccissimo Giuda è poesia, è un grido calendiano di libertà. Carletto si mette al microfono e inizia a intonare Bella Ciao. È stonato, non va a tempo, ma a noi non importa, a noi va bene anche così. Slava Ukraini!

LASCIA UN COMMENTO

Your email address will not be published.

Netanyahu, di nuovo

A new deal: il trionfo di Franklin Delano Roosevelt