“Probabilmente, malgrado tutto, l’evoluzione storica, di cui noi saremo stati determinatori, non soddisferà le nostre ideali esigenze; la splendida promessa, che sembra contenuta nell’intrinseca forza e bellezza di quegli ideali, non sarà mantenuta. Ciò vuol dire che gli uomini dovranno pur sempre restare di fronte al diritto e allo Stato in una posizione di più o meno acuto pessimismo. […] Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino”.
Così afferma un giovane Aldo Moro nelle lezioni di Filosofia del Diritto presso l’Università di Bari. Così traccia profeticamente quella che sarà la parabola del suo destino. In questa pensiero accanto e sul pessimismo risalta e prevale il titanismo. Il valore della lotta per un cambiamento, nonostante l’ineluttabile consapevolezza della sconfitta. La nobiltà stessa dell’atto è sempre un grande destino. La giustizia è ineffabile.
Il tempo di Moro è quello del Patto di Yalta e della Guerra Fredda. Il mondo è diviso in due. La Storia e la Politica si giocano sull’instabile equilibrio delle sfere d’influenza: la sovietica e l’americana. L’Italia – paese sotto l’influenza statunitense – è un paese uscito da 20 anni di dittatura fascista: per l’opinione pubblica una destra al governo è un tabù . Allo stesso modo il Partito Comunista, secondo quanto stabilito a Yalta, non può entrare nell’area di governo- neanche col 51%.
Per questo motivo due volte si è rischiato il colpo di Stato fra gli anni 60 e 70, da destra col benestare americano: il ‘Piano Solo’ e il Golpe Borghese. Ovviamente se questi meccanismi autoritari si fossero messi in moto, anche l’instabile equilibrio mondiale, stabilito a Yalta sarebbe precipitato: l’Italia non è Cuba o il Vietnam, ha una rilevanza ben maggiore. In Italia si trova il più importante Partito Comunista d’occidente. Su spinta del ’68 la coscienza collettiva si risveglia e la contestazione di piazza agita sia da destra che da sinistra, in gruppi proletari e studenteschi. L’Italia degli ‘anni di piombo’ è una polveriera: si susseguono scontri, stragi e attentati.
L’Italia politicamente è un paese bloccato, sclerotizzato. Dal ’48 i governi sono stati costantemente guidati dalla Democrazia Cristiana. La DC è ‘partito-stato’, l’unica via democraticamente e pacificamente possibile. Ma chiaramente una democrazia è farlocca e malfunzionante senza vera rappresentatività, senza la possibilità di dar voce di quanto c’è ‘al di là della politica’, alla vita vera. La politica si svuota di ogni vocazione e ideale, per diventare solo un esercizio di ‘potere’.
Così Aldo Moro scrive in una bozza di un articolo, che non uscirà mai, sui movimenti giovanili scaturiti dal ’68: ”Credo che una svolta decisiva vi fu davvero con un risveglio delle coscienze, con il fiorire di atteggiamenti autonomi, con la contestazione di espressioni del potere e di cristallizzazioni politiche, con la valorizzazione dei giovani e del loro diritto di cambiare”[…] (il ’68) ”ha dato uno spessore nuovo alla democrazia, difeso tutto e anche la sinistra dal rischio di cristallizzazioni ritardatrici e devianti. Si tratta di guidare le cose, riconoscendone i valori, ma insieme evitando che esse tralignino e si corrompano.”
Moro parla di togliere ‘spazio e spinta ad ogni iniziativa autoritaria’. Lui che aveva chiuso la porta ad un governo di destra nel 1960- per dare il via alla stagione riformista di centro-sinistra, che accompagna il boom economico e modernizza l’Italia. Dopo questa spinta, la democrazia italiana si trova al collasso. L’instabile equilibrio politico ed un partito dilaniato dal potere non può rappresentare in maniera proficua la realtà e le sue evoluzioni magmatiche.
Il politico salentino aveva compreso quello che Pasolini definì metaforicamente ‘scomparsa delle lucciole’ (fine dell’Italia agraria e pre-industriale, nelle strutture e nei costumi: evoluzione traumatica della società), il cui sintomo principale fu il ‘‘vuoto di potere’’: ‘’Son certo che, a sollevare quelle maschere,’’- dei politici (in particolare i democristiani) ‘’non si troverebbe nemmeno un mucchio d’ossa o di cenere: ci sarebbe il nulla, il vuoto. La spiegazione è semplice: oggi in realtà in Italia c’è un drammatico vuoto di potere. Ma questo è il punto: non un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé.”
Iconico e più che mai attuale, oggi che della politica c’è solo la comunicazione e l’esteriorizzazione, il termine ‘maschere’. Quello di Pasolini non è altro che lo scenario nichilista, figlio dell’innovazione tecnologica ed amplificato dalle politiche neoliberiste, che noi oggi viviamo in maniera amplificata.
Uno scenario in cui la politica cerca temporaneamente di riempire un vuoto, una posizione di potere, ma in maniera inutile e momentanea: non c’è più potere, perché non c’è più né politica né collettività (nè individuo).

Moro, come Pasolini, aveva visto avanti. E il presidente della Dc voleva provare un estremo tentativo per colmare il divario fra realtà e politica, allargando il più possibile la base democratica nella politica italiana.
Il progetto politico di Aldo Moro avrebbe anticipato di 15 anni il corso delle cose, avrebbe anticipato la fine della guerra fredda e dato nuova linfa ad un paese moribondo. Moro voleva far entrare i comunisti nell’area di governo, secondo quella che da Berlinguer (segretario del PCI) fu definito ‘compromesso storico’.
Il progetto avrebbe consentito l’alternanza al governo dei partiti e la fine del regime democristiano. I comunisti sarebbero stati legittimati ed il sistema politico sarebbe diventato un bipolarismo, magari in un secondo tempo aprendo anche alla destra de-fascistizzata. Questo era un progetto di lungo termine, che avrebbe ridato slancio alla Politica per ‘guidare le cose’, i moti ed i cambiamenti della società e dell’economia. Questa era l’unica risposta seria al drammatico ‘vuoto di potere’. La visione di Moro era particolarmente raffinata e lungimirante, non una politica per l’oggi o per il domani- e solo lui poteva essere l’equilibrista (come Philippe Petit) sull’esile corda sospesa fra le torri gemelle, ignaro che le stesse sarebbero cadute (metafora tratta da ‘Un Atomo di Verità’ di M. Damilano).
Col suo discorso (l’ultimo) del 28 febbraio 1978 Moro convince i gruppi parlamentari della DC alla prospettiva paradossale di un governo monocolore DC con l’appoggio esterno del PCI, per aprire la via ad una nuova stagione politica. In maniera retoricamente non banale traccia una prospettiva temporale per il domani:
”Se voi mi chiedete fra qualche anno cosa potrà accadere, … (e io non parlo di logoramenti dei partiti, linguaggio che penso non sia opportuno ma parlo del muoversi delle cose, del movimento delle opinioni, della dislocazione delle forze politiche), se mi chiedete fra qualche tempo che cosa accadrà, io dico: può esservi qualche cosa di nuovo.
Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a questo domani, credo che tutti accetteremmo di farlo, ma, cari amici, non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà.”
Se noi per un attimo trascendessimo il tempo, ed andassimo in una dimensione ucronica- un tempo che non c’è mai stato- cosa vedremmo? In una dimensione in cui il compromesso storico si è compiuto e così il superamento dei tabù e della politica bloccata dagli attriti internazionali, la normale alternanza al governo dei partiti. L’affievolimento dei dissidi sociali e dell’estremismo. Vedremmo un Moro presidente della Repubblica (era nel ’78 il candidato numero uno per il Quirinale). Un’Italia, di oggi, correre verso gli orizzonti e le sfide del XXI secolo con valori e ideali. Avremmo visto una politica ed un mondo diversi… Chissà sono tutte ipotesi un po’ campate per aria.

Invece, proprio per questa visione politica, fu rapito dalle Brigate Rosse in Via Fani e sottoposto ad un ‘giudizio popolare’ col consenso tacito dei partiti dei due partiti protagonisti del suo progetto- DC e PCI. Infine dopo 55 giorni fu assassinato. Il 9 maggio 1978 il suo cadavere fu consegnato in Via Caetani, simbolicamente a metà strada fra le sedi dei due partiti.
Il partito-stato DC aveva governato ininterrottamente per 30 anni. Rappresentava quel potere marcio e logoro che aveva monopolizzato gli apparati statali e che era sempre presente negli scandali pubblici del tempo. Moro ne era il presidente. Oltre e contro lui vi erano diversi uomini di potere, che rappresentavano le più disparate correnti, ideologie e interessi. Ma perché rapire proprio Moro? Il progetto politico, che avrebbe consentito il superamento- in Italia- della guerra fredda era osteggiato dal sistema politico in sè. La DC aveva a stento accettato la sua linea politica, forte di mille correnti che avversavano prospettiva di condividere e rischiare di lasciare il potere. E poi c’era la sinistra extra-parlamentare, che propugnava la rivoluzione armata di classe e che vedeva nella classe dirigente la sintesi dei mali del sistema capitalistico.
Moro, che era stato definito da PPP ‘il meno implicato di tutti’ negli scandali e nella logica democristiana del potere, andava fatto fuori. E le Brigate Rosse ne faceva un capro espriatorio dell’intero sistema. Il 16 marzo 1978 viene rapito e i cinque uomini della sua scorta vengono massacrati. Successivamente viene trasferito in quella che nei comunicati delle Brigate Rosse viene chiamata ‘Prigione del Popolo’, ed in nome ‘del popolo’ viene processato e condannato a morte.
Questa condanna è ratificata dalla classe politica italiana e dal Governo, che avversa ogni prospettiva di trattativa con il gruppo terroristico e la liberazione di suoi militanti politici. Sono sparute le voci che lottano per la liberazione del politico pugliese(gli unici partiti sono il PSI di Craxi e i Radicali). La ‘linea della fermezza’- portata avanti da DC e PCI- vuole evitare ogni trattativa per non dare legittimazione politica alle BR. Ma in questo modo- per tutelare la ragione di stato- si ritorna a quella concezione atomistica dell’individuo: non si guardano ragioni umanitarie e il valore della persona, si fa prevalere la ‘presunta’ ragione collettiva.
Moro era stato membro della costituente ed il primo segno di discontinuità con la prospettiva collettivista e repressiva del Regime fascista era stata l’eliminazione dal diritto penale comune della pena di morte.
Nel caso Moro- uno dei pochi casi in cui si rifiuta categoricamente ogni trattativa con un gruppo terroristico, nella storia- si reintroduce nell’ordinamento la Pena di morte, seppur indirettamente.
Il rapimento e l’omicidio Moro hanno scardinato volontariamente il compromesso storico.
Nei 55 giorni della detenzione e del processo si gioca una vera e propria ‘guerra psicologica’– fatta di depistaggi, comunicati falsi e di un linguaggio bellico- fra lo stato e i terroristi, nei confronti dell’opinione pubblica.
Moro dal carcere scrisse numerose lettere in cui s’appellò ad amici del suo partito, a uomini politici e pubblici. Dalla prigionia cercò in ogni modo la salvezza e la trattativa, ma fu disconosciuto e svilito. In questo sta un primo aspetto della guerriglia psicologica: agli occhi dell’opinione pubblica i suoi colleghi lo dipinsero come ‘un pazzo’. Quello in mano alle BR ‘non era più Aldo Moro’.
La Roma dei 55 giorni era una città paramilitare. Moro però non fu trovato. L’ ‘Affaire Moro’’, come lo definì Sciascia, ha molte sfaccettature misteriose e inquietanti. Ad esempio si andò molto vicino, perquisendo vari appartamenti di una palazzina popolare- seguendo una soffiata-, ma non si entrò casualmente proprio in quello dove era prigioniero, perché ‘nessuno rispose al campanello’: i terroristi erano proprio al di là della porta con le pistole in mano.
Oppure, per un’altra congiuntura astrale, dopo una seduta spiritica (cui partecipo il futuro Premier Prodi) venne fuori una parola, il nome di un comune nel Viterbese, il nome di una via di Roma: Gradoli (dove si trovava l’appartamento sopra citato e non perquisito). Fra le due si preferì setacciare un intero comune piuttosto che una via. Nell’appartamento le forze dell’ordine vi entrarono a metà aprile del ’78, ma i terroristi non c’erano più. Stranamente gli stessi avevano provocato volontariamente una perdita nelle tubature e la vicina del piano di sotto, non trovando nessuno dentro chiamò i pompieri per sfondare la porta. Così si scoprì uno dei covi delle BR.
Nel caso Moro ci sono anche misteriosi apparizioni della Banda della Magliana, di cui un membro (Antonio Chichiarelli) confeziona il falso comunicato N.7 delle BR, in cui si afferma- il 16 aprile- l’esecuzione di Moro e l’occultamento del cadavere nel Lago della Duchessa. Questo falso fece saltare ogni timido spiraglio d’apertura delle trattative, e non si capisce ancora oggi chi moralmente ne fu l’autore: ambienti vicini allo stato o vicini alle BR? La seconda ipotesi sarebbe priva di senso. Come i tanti non sensi della vicenda.
Anche qui si vede chiaramente l’intento della Guerriglia, fare pressioni psicologiche alla contraparte. Ma la domanda è ‘chi sono le parti del gioco?’

Altra inquietante, ma non misteriosa convergenza era l’antipatia degli uomini d’apparato americani verso Moro, tra cui il Segretario di Stato Kissinger- che lo aveva ammonito di non imboccare la strada del governo con i comunisti.
Il gabinetto del Ministro degli interni Cossiga pare fosse frequentato da uomini dei Servizi americani. Una certezza è però l’affiliazione alla loggia P2 del nucleo strategico che s’occupò del caso. Quindi, al di là e prima di ogni ipotesi di trattativa si deve cercare una reale volontà di trovare Moro nelle forze speciali che sovra-intendevano il caso. Questa volontà non si manifesta nei fatti, anzi sembra che l’intento sia proprio l’opposto: non trovarlo.
Fu abbandonato a sé. Il caso moro portò con sé un’enigmatica scia di morte. Tutti i soggetti che presero visione dei verbali e dei documenti segreti del Caso trovarono la fine in situazioni sospette, tra cui il giornalista Mino Pecorelli– il pentito Tommaso Buscetta accenna ad un interesse di Andreotti all’uccisione del giornalista, sempre in relazione al Caso Moro. Ancora oggi, nell’Affaire ci sono misteri e nebbie, scorie degli interessi- palesi e occulti- in gioco, che sono destinate a rimanere tali. Proprio come Moro era destinato a morire nel momento in cui fu rapito, o forse prima ancora quando cerco di sfidare ‘’le difficoltà’’ del suo tempo.
La vicenda di Moro ha una cifra letteraria affascinante, che va dal giallo, al noir e, nei momenti più intimi e personali del protagonista- nelle lettere alla famiglia-, finisce col diventare poesia.
Il presidente si spoglia definitivamente di ogni legame dalla vita pubblica, che gli costò cara e si congeda a chi a lui è più caro. Così nella lettera d’addio alla moglie:
”Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo.”
E proprio oggi avremmo bisogno d’un po’ di luce- sui misteri del Passato, che ancora ci tormentano. Un po’ di luce- segno di speranza- per il domani.
