Abbiamo rispetto per il nostro pensiero quando lo deformiamo in conformità a un insegnamento prestabilito? E quando ciò avviene, quali le conseguenze sulla comunità degli uomini? Potrebbe cominciare così, con due domande, questa breve esposizione di uno specifico frammento del pensiero politico di Simone Weil (SW, d’ora in poi) come è presentato nel “Manifesto per la soppressione dei partiti politici” (edizione Castelvecchi) scritto verso la fine della sua vita.
Nel commento introduttivo che ne fa lo scrittore André Breton (che preferisce parlare di “mettere al bando” anziché di “soppressione”, per eliminare ogni sospetto di violenza impositiva) si tratta di un appello “contro il crimine di abdicazione dello spirito”, inteso come rinuncia alle sue prerogative più esclusive ed inalienabili, quale è provocata dall’immodificabile modalità di essere dei partiti, di tutti i partiti. Nella “modalità partito” siamo cioè di fronte ad una manifestazione che non è più il “desiderio incondizionato della verità”, bensì la pressione a conformarsi ad un insegnamento prestabilito.
Breton fa appello ad un salutare “disinganno collettivo”, ossia ad un’autonoma e spontanea capacità dei cittadini di prendere pacificamente coscienza del male prodotto dalla sudditanza alla faziosità del messaggio partitico, non potendosi certo auspicare un’azione di forza, uno scioglimento autoritario delle diverse associazioni politiche.
Ma non siamo del tutto sicuri che SW avrebbe fatto sua tanta delicatezza. Nello svolgersi del suo argomentare, anzi, ci si fa incontro un pensiero perentorio, a tratti duro, intellettualmente e moralmente implacabile. Ma vediamone gli aspetti salienti, che nelle righe che seguono faranno frequente e prevalente appello al testo letterale della Weil, per ridurre al minimo ogni rischio di errore e fraintendimento. Ecco: “il totalitarismo è il peccato originale dei partiti”, dice SW, e non si può fare a meno di associare queste parole con quelle, successive di pochi anni, de “Le Origini del totalitarismo” di Hannah Arendt, e precisamente alle potenti pagine in cui parla delle ideologie – tutte – come portatrici dell’embrione di ogni pensiero totalitario. Ogni ideologia vuole disegnare attorno a noi un’altra “realtà”, fittizia, nel cui steccato rinchiude il suo circolo di adepti.
La ricerca della verità (e della giustizia, e del bene comune) è il supremo bene, dice SW. E dunque si faccia qui attenzione: la democrazia, il potere della maggioranza, non è un bene in sé; esso è solo un mezzo in vista del fine supremo, che è la verità, e la verità è il bene dell’uomo (di ogni uomo concreto, non di un’astratta umanità) nella libertà da ogni oppressione. Per raggiungere questo fine è necessario un meccanismo adatto. Se la democrazia costituisce tale meccanismo, è buona e praticabile. Altrimenti no.
L’ideale repubblicano che deriva interamente dalla nozione di volontà generale teorizzata da Rousseau va letto, per la Weil, esclusivamente in questo senso. Ma appunto il senso di tale nozione è andato perso quasi immediatamente nel corso del tempo, nella concreta declinazione che se ne è fatta negli eventi politici caratterizzanti la storia moderna dalla Rivoluzione in poi.
Nella sua esposizione, SW chiama “passione” quello che noi più banalmente chiameremmo faziosità, spirito di parte. Orbene, “qualunque crimine ha per movente la passione”. E la passione contraddice maleficamente il meglio della natura umana perché contraddice la ragione, che è ciò che contraddistingue e unifica gli uomini: “la ragione è identica in tutti gli uomini”, ed è per questo che esiste ed è possibile il dialogo fra le persone, il libero dialogo nell’agorà della polis. È in virtù della ragione che può formarsi la volontà generale.

Restando sul tema, secondo SW “esistono numerose condizioni necessarie perché si possa ricorrere alla nozione di volontà generale”. Due, in particolare:
La prima: che non sia presente alcuna specie di passione collettiva (ossia, di eccitazione faziosa).
“La passione collettiva è un impulso al crimine e alla menzogna infinitamente più potente di qualunque passione individuale […] Quando un Paese è in preda a una passione collettiva, è [allora] più probabile che qualunque volontà particolare sia più vicina alla giustizia”.
La seconda: che il popolo sia chiamato a esprimere normalmente e regolarmente il proprio volere riguardo ai problemi della vita pubblica, e non solamente a operare una scelta di persone nelle periodiche elezioni.
Se le cose sono correttamente esposte in questi termini, dice SW, dobbiamo riconoscere che “non abbiamo mai conosciuto nulla che assomigli, neppure da lontano, a una democrazia” eccezion fatta per i primi passi della Rivoluzione Francese, quando tutto ciò che era vivo e vitale nel Paese “aveva cercato di esprimere il proprio pensiero attraverso l’organo dei cahiers de revendications”.
Non è facile trovare strade diverse a quelle sinora percorse con sconfortanti risultati, dice la Weil, “ma è evidente, dopo un attento esame, che qualunque soluzione implicherebbe innanzitutto la soppressione dei partiti politici”.
Sembra l’espressione di una mentalità autoritaria. Per noi, in prima battuta, è così, perché la presenza dei partiti è cosa ovvia nel nostro contesto istituzionale e sociale.
Ma, ribadisce la Weil:
“Un partito politico è una macchina per fabbricare passione” cioè, vale ripeterlo, faziosità;
“Un partito politico è un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte”;
“Il fine primo e, in ultima analisi, l’unico fine di qualunque partito politico è la sua propria crescita, e questo senza alcun limite”.
E conclude: “Per via di questa tripla caratteristica, ogni partito è totalitario in nuce e nelle aspirazioni”.
Bisogna avere ben chiaro l’atteggiamento essenziale di SW in merito al rapporto fra individuo e società. È un pensiero che sorprende, che sconcerta le attese più ovvie. La Weil conosceva bene e praticava l’azione politica, l’impegno nella realtà sociale degli uomini. Il suo interesse quasi ossessivo per il mondo del lavoro e per la classe operaia ne è chiara testimonianza, assumendo risvolti quasi religiosi (l’andare in fabbrica, il vivere l’esperienza della fabbrica, come passo moralmente ed intellettualmente necessario per conoscere davvero la realtà operaia ai tempi del fordismo. Ciò che è moralmente valido lo è anche intellettualmente e viceversa, per questa donna con la vocazione dell’assoluto). Ci aspetteremmo dunque da questa pensatrice un sacro rispetto ed una prioritaria considerazione per tutti gli aspetti della vita pubblica, per tutte le espressioni del “collettivo e del sociale”. Invece no. Per la Weil, la società è fatta di uomini concreti, di persone reali, di individui autonomi che soli possono costituire la fonte del pensiero e della creazione. Il pensiero collettivo non esiste, è pura finzione retorica. “Una collettività non ha lingua né penna. Gli organi di espressione sono tutti individuali”.
Esiste solo il pensiero individuale, il pensiero di ogni singola persona, unico, originale, creatore. Esso viene compresso e annientato “ovunque la collettività prenda il sopravvento sugli esseri pensanti”. E per collettività qui s’intende qualunque entità organizzata che trascenda l’individuo.
Si conferma così che nella democrazia fine a sé stessa, non finalizzata al servizio della verità e della giustizia, abbiamo il rovesciamento della relazione tra fine e mezzo. E analogo rovesciamento viene rappresentato dall’esistenza del partito politico, il quale afferma di nascere per servire un obiettivo sociale ad esso esterno – il bene comune – ma che in verità ed inevitabilmente può solo vivere per servire se stesso e per crescere indefinitamente: “È inevitabile, così, che in realtà il partito sia esso stesso il suo proprio fine […]. Ma in realtà nessuna quantità finita di potere potrà mai essere considerata come sufficiente” a soddisfare quella parte politica, qualunque parte politica.
E ancora: “Il partito si trova quindi, per effetto dell’assenza di pensiero, in un continuo stato di impotenza, che attribuisce sempre all’insufficienza del potere di cui dispone. Se anche fosse padrone assoluto del Paese le necessità internazionali gli imporrebbero limiti troppo ristretti” verso cui proverebbe una spontanea insofferenza. “Così la tendenza essenziale dei partiti è [intrinsecamente] totalitaria”. Ed anche qui il pensiero ritorna alla già accennata analisi condotta dalla Arendt, che parlando del nazismo e dello stalinismo (le due ideologie totalitarie da lei esaminate in modo superbo) sottolinea la loro insopprimibile spinta interna ad essere conquistatori mondiali, ben oltre i confini di un mero nazionalismo.
Appunto perché non esiste e non esisterà mai alcun “pensiero collettivo”, SW afferma che “l’espressione ‘dottrina di un partito politico’ non può mai, per la natura delle cose, avere alcun significato”, così come la “concezione del bene pubblico propria a uno o all’altro partito è una finzione, una cosa vuota, irreale”.
È un fuoco di fila, quello che la Weil concentra sull’obiettivo che si è scelta, una volta definite l’inversione mezzi-fini e l’impossibilità di un “pensiero collettivo”.
Ogni partito è fine a sé stesso, anche se accampa l’ambizione di essere strumento verso altri fini, verso il bene comune: “Nel momento in cui la crescita del partito costituisce un criterio del bene, ne consegue inevitabilmente una pressione collettiva del partito sui pensieri degli uomini”. Si noti come il ragionamento di SW si sviluppi attraverso espressioni che affermano l’inevitabilità, la necessità logica che un partito sia così e che abbia determinate modalità d’azione e derivate conseguenze. Tutto si presenta e si muove come lo scivolare su di un piano inclinato, la cui logica e i cui esiti siano inevitabili al di là di ogni buona volontà.
Ancora: “I partiti sono organismi pubblicamente, ufficialmente costituiti in maniera tale da uccidere nelle anime il senso della verità e della giustizia”: se si aderisce ad una precostituita posizione di parte, si sappia che verità e giustizia sono altrove. Perché ne è preclusa la loro stessa ricerca, che deve essere libera, spregiudicata, senza una predeterminazione degli esiti, senza premesse arbitrarie. Partiti e ideologie sono dunque questo: premesse che non si possono discutere (come dice il linguaggio comune: “partito preso”). Anche qui ricordiamo il successivo testo della Arendt (cogliamo l’occasione per rilevare come SW abbia precorso alcune riflessioni della Arendt di alcuni anni): ogni ideologia è chiusa e perfettamente coerente in sé, al suo interno; una volta fissate le enunciazioni che ne costituiscono le premesse, il resto si sviluppa logicamente, assioma dopo assioma, secondo un procedere logico che appare convincente proprio per una struttura coerente e coesa che non esiste fra le cose reali. Purché ne sia espulso il contatto con la realtà. È il tipico costrutto paranoico della mente ideologica.
La “pressione collettiva” del partito si manifesta in modo eminente nella sua propaganda: quella verso l’esterno, quella verso i propri adepti. Quest’ultima è forse quella più opprimente o semplicemente quella che nel modo più esatto ne rivela la vocazione oppressiva: “la propaganda è sempre un tentativo di asservimento dello spirito. Tutti i partiti fanno propaganda”.
Cosa accadrebbe, si chiede la Weil, se un uomo politico, o un semplice militante, dicesse in pubblico di pensarla diversamente dal suo partito, di volere dire e fare solo ciò che considera giusto e vero a prescindere dalla linea ufficiale? “Questo linguaggio sarebbe accolto in modo negativo. I suoi, e anche molti altri, lo accuserebbero di tradimento. I meno ostili direbbero: «Perché, allora, ha aderito a un partito?», ammettendo così ingenuamente che entrando in un partito si rinuncia a cercare unicamente il bene pubblico”. Infatti, “Se si compisse un tale sforzo, si rischierebbe – colmo dell’orrore – di esprimere «un punto di vista personale»” […]. “Perché ai giorni nostri la tensione verso la giustizia e la verità è vista come rispondente a un punto di vista personale”, ossia qualcosa di parziale, privato, del tutto accidentale. Anche qui, un’altra inversione di valore e significato.
Eppure, “È impossibile esaminare i problemi spaventosamente complessi della vita pubblica prestando attenzione contemporaneamente da un lato a discernere la verità, la giustizia, il bene pubblico, dall’altro a conservare l’atteggiamento che si conviene a un membro di partito”.
È una condanna senza appello: “la nostra democrazia [è] fondata sul gioco dei partiti, ognuno dei quali è una piccola Chiesa profana armata della minaccia della scomunica. L’influenza dei partiti ha contaminato l’intera vita mentale della nostra epoca”.
Le conseguenze sulla vita pubblica di un Paese e sulla stessa personalità dei cittadini sono devastanti. SW arriva a parlare di “lebbra” che tutto contagia e altera: “lo spirito di partito è arrivato a contaminare ogni cosa”.
Del resto, in un qualsiasi Paese “le istituzioni che determinano lo svolgersi della vita pubblica influenzano sempre la totalità del pensiero, a causa del prestigio del potere. Siamo arrivati al punto da non pensare quasi più, in nessun ambito, se non prendendo posizione «pro» o «contro» un’opinione e cercando argomenti che, secondo i casi, la confutino o la supportino”. Questo modo d’essere “È esattamente la trasposizione dell’adesione ad un partito”. Mi rendo conto che si tratta di poca cosa rispetto alla nobiltà degli argomenti weiliani, ma il pensiero di chi scrive – e forse anche di chi legge! – corre istintivamente alle avvilenti ed offensive modalità di stare sui social network e sui “talk” televisivi.

L’appello morale della Weil deflagra ad un certo punto in tutta la sua forza: “Se riconosciamo che esiste una verità, allora non ci è permesso pensare ad altro che a ciò che è vero”. È, questo, un pensiero perentorio, persino duro, con qualcosa di implacabile nel suo proporsi senza riserve o cautele. Filosofia, esistenza, azione politica si fondono qui in un tutto, un blocco dove non è concesso barare, aggirare ostacoli e contraddizioni senza affrontarli. È un pensiero che presuppone l’esistenza della verità, ed è solo per antipatia della retorica che non scrivo qui questa parola con l’iniziale maiuscola, ma è così che l’intendeva SW. Si profila allora una vetta altissima, oppure si apre un abisso: esiste la verità? E se esiste, la possiamo trovare? E cos’è? Si combattono qui scetticismo e fede, vi sono argomenti per l’uno e per l’altra, e dobbiamo essere consapevoli della definitiva vocazione religiosa, addirittura mistica, della Weil quando esponeva questi concetti. Ma, d’altro canto, i partiti, le ideologie e gli slogan politici ci assicurano che la verità esiste ed è quella da essi proclamata; ciò li impegna, e al contempo li mette sotto il fuoco della contestazione più radicale.
Ho accennato al misticismo di SW. Non a caso ricorre in questo suo scritto l’espressione “luce interiore”, che è anche una prima risposta alle domande sulla verità. La verità è luce: sempre l’idea della luminosità viene associata al concetto di verità, come qualcosa la cui evidenza e incontrovertibilità si manifesta come scoperta abbacinante e radiosa: possibilità di “elevare l’anima e di inondarla di luce”, dice in un passaggio che diventa quasi preghiera.
È un richiamo alla profonda discesa in sé stessi, a quell’entità che chiamiamo (chiamavamo?) “coscienza” e in rapporto alla quale sappiamo sempre, con una chiarezza che non si lascia comunicare, se siamo onesti nella ricerca della verità o smarriti nella menzogna, e quindi nel male: “Un uomo che non abbia preso la risoluzione di fedeltà esclusiva alla luce interiore insedia la menzogna al centro stesso dell’anima”. E dunque “se l’appartenenza a un partito obbliga sempre, in ogni caso, alla menzogna, l’esistenza dei partiti è assolutamente, incondizionatamente, un male”.
Il pensiero weiliano si slancia con decisione verso il più intenso impegno spirituale: l’individuo pensante deve invocare “le parole che esprimono una perfezione inconcepibile all’uomo – Dio, verità, giustizia – pronunciate interiormente con desiderio, senza essere unite ad alcun’altra concezione”. È un vero esercizio spirituale, quello che qui suggerisce SW, qualcosa di molto simile ad una preghiera concentrata o ad una profonda meditazione di impronta orientale: “È desiderando la verità a mente sgombra e senza tentare di indovinarne in anticipo il contenuto che si riceve la luce. A questo si riduce l’intero meccanismo dell’attenzione”. Sono, quasi alla lettera, le parole di un Krishnamurti. Alla fine, “La verità è costituita dai pensieri che sorgono nello spirito di una creatura pensante, unicamente, totalmente, esclusivamente desiderosa della verità”.
Parole come mantra, rivestite di luce, pronunciate “con desiderio” (questa parola, così enorme!) e in assoluta concentrazione, ogni altra immagine distraente restando esclusa.
È insomma l’appello all’apertura spirituale cui deve disporsi colui che cerca la verità, l’alba della luce interiore, nella più concentrata solitudine della propria individualità. L’esatto contrario di ogni tumulto politicante. Ma ancora una volta, l’assoluto atto di fede nell’individualità pensante non è negazione dell’impegno nella società, bensì sua necessaria premessa; non un “individualismo” cinico e malinteso, ma la condizione unica ed irrinunciabile per una società non oppressiva, una collettività di uomini liberi.
Abbiamo “l’obbligo imperioso di proteggere per quanto possibile la facoltà di discernimento che portiamo in noi stessi”.
Verso la conclusione del proprio “manifesto” SW tenta di proporsi in positivo. Se il problema si manifesta concretamente nella cristallizzazione delle posizioni nei diversi partiti, si tratta di introdurre una “terapia” all’insegna della fluidità delle posizioni e della concretezza delle questioni pubbliche, un libero gioco delle parti (dove le parti sono persone, individui reali!) non più vincolate dalla disciplina di partito.
Non più partiti cristallizzati in etichette rigide, dunque, bensì “circoli” di persone che si formano, si modificano e si sciolgono a seconda delle questioni di rilevanza pubblica da affrontare. Sarebbero persone concrete con soluzioni concrete a candidarsi nelle elezioni, e “i candidati non direbbero agli elettori: «Ho quest’etichetta» – il che, dal punto di vista pratico, non spiega rigorosamente nulla al pubblico sul loro atteggiamento concreto relativo a problemi concreti”. E di volta in volta si formerebbero le contingenti alleanze nutrite dalle affinità sui temi trattati.
Pertanto, candidati ed eletti “si assocerebbero e si dissocerebbero secondo il gioco naturale e mobile delle affinità […]. Ma questi circoli dovrebbero essere mantenuti in stato di fluidità”.
Chiudo qui. Ho cercato di limitare all’essenziale lo spazio riservato alle mie personali considerazioni. La parola è rimasta soprattutto a colei il cui pensiero ha attraversato come una meteora luminosa la prima parte del ‘900. Credo che le domande, i dubbi e le provocazioni che ne sortiscono non abbiamo perso importanza e valore nel mondo d’oggi.