boicottaggio diplomatico Olimpiadi

Il boicottaggio diplomatico delle Olimpiadi invernali di Pechino

22 Dicembre 2021

Gli Stati Uniti hanno annunciato che nessuna delegazione diplomatica parteciperà alle Olimpiadi invernali di Pechino. La scelta è una denuncia a tutte le violazioni dei diritti umani in Cina, e in particolare ai crimini contro l’umanità che stanno avvenendo in Xinjiang. Cos’è un boicottaggio diplomatico e che effetti può ottenere? 

Nel corso della conferenza stampa del 6 dicembre, Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca, ha dichiarato che gli Stati Uniti non invieranno una delegazione diplomatica per le Olimpiadi invernali che si terranno a Pechino, Cina, dal 4 al 20 febbraio 2022. 

«L’amministrazione Biden non invierà alcuna rappresentanza diplomatica o ufficiale alle Olimpiadi invernali e alle Paralimpiadi di Pechino 2022, dato il genocidio in corso della Repubblica Popolare Cinese, i crimini contro l’umanità nello Xinjiang e altre violazioni dei diritti umani».

Cos’è un boicottaggio diplomatico

Come spiega l’Associated Press in un articolo di Graham Sunbar, il boicottaggio diplomatico avviene quando un paese decide di non inviare ai giochi Olimpici la propria delegazione, solitamente composta da personalità di spicco politiche, diplomatiche e sportive, ed è un espediente per criticare, colpire e ferire l’orgoglio nazionale del paese ospitante, senza impedire agli atleti di prendere parte alla competizione. È una scelta che impatta in maniera minore rispetto al boicottaggio tout court, ma che manda ugualmente un messaggio di forte critica nei confronti del paese organizzatore dei giochi. 

Sono molti i paesi, grandi potenze in primis, a mescolare sapientemente sport e politica per rilanciare la propria immagine a livello internazionale, spesso ospitando grandi eventi – come per l’appunto le Olimpiadi – al fine di dimostrare la propria capacità organizzativa; proprio per questo il boicottaggio mira a danneggiare l’immagine del paese ospitante.

Nel caso specifico il boicottaggio è stato motivato dalla violazione dei diritti umani in Cina – in particolare, ma non solo, nello Xinjiang -, ed assume un peso politico di una certa rilevanza, soprattutto se si considera che la Carta Olimpica, il codice che riassume i Principi Fondamentali, le Regole e le Norme di Applicazione adottati dal Comitato Olimpico Internazionale (C.I.O.), sancisce che «lo scopo dell’Olimpismo è di mettere ovunque lo sport al servizio dello sviluppo armonico dell’uomo, per favorire l’avvento di una società pacifica, impegnata a difendere la dignità umana. Con tale proposito, il Movimento Olimpico svolge, solo e in collaborazione con altri organismi e nell’ambito delle proprie possibilità, azioni volte a favorire la pace». 

Il C.I.O, nell’enunciare la sua missione, dichiara, inoltre, che il suo ruolo è di «agire per rafforzare l’unità del Movimento Olimpico, per proteggerne l’indipendenza, per mantenere e promuovere la sua neutralità politica e per preservare l’autonomia dello sport». 

Partendo da questi due principi, appare chiaro come il C.I.O si sia trovato tra due fuochi, essendo, da un lato, obbligato, almeno in apparenza, a difendere la dignità umana e, dall’altro, impegnato a smarcarsi da ogni strumentalizzazione politica dei giochi da parte degli stati partecipanti.

Il boicottaggio statunitense è il segnale più importante di un movimento di protesta che è iniziato mesi fa e che ha visto, tra le sue manifestazioni più eclatanti, l’interruzione, o meglio il disturbo, della tradizionale cerimonia di accensione della fiaccola Olimpica del 18 ottobre da parte degli attivisti “anti-Pechino”. In quell’occasione, infatti, tre manifestanti, muniti di bandiera tibetana e striscione recitante “No genocide games“, sono riusciti a entrare nell’area dove si stava tenendo la cerimonia e ad urlare slogan di protesta, prima di essere fermati dagli addetti alla sicurezza ed arrestati dalla polizia greca. Il tutto si è svolto alla presenza del presidente del Comitato Olimpico Internazionale, Thomas Bach, da tempo criticato aspramente dagli attivisti.

La protesta seguiva quella del giorno precedente, quando due manifestanti erano stati arrestati per essere saliti su di un’impalcatura sita nell’Acropoli di Atene ed aver spiegato su di essa una bandiera tibetana ed uno striscione con lo slogan “Free Hong Kong – Revolution”.

Gli appelli per boicottare le Olimpiadi invernali di Pechino hanno avuto una nuova spinta dopo il famoso episodio di Peng Shuai, campionessa del tennis cinese, scomparsa per giorni dopo aver accusato, tramite un post sul social cinese Weibo, l’ex vice primo ministro della Repubblica Popolare Cinese, Zhang Gaoli, di aggressione sessuale. 

A seguito dell’accusa di Peng Shuai, diverse celebrità sportive, tennisti in testa, hanno iniziato una martellante mobilitazione online rilanciando l’hashtag #whereispengshuai. La tennista è poi riapparsa in alcuni video (per niente rassicuranti) pubblicati dai giornalisti cinesi e, a fine novembre, il presidente del Comitato Olimpico Internazionale ha dichiarato di aver avuto un incontro virtuale con Peng, garantendo sull’incolumità della campionessa. 

I dubbi, chiaramente, non sono stati fugati, gettando un’ulteriore ombra sul C.I.O., reputato dai critici estremamente collaborativo con il governo cinese al fine di non pregiudicare il buon esito della competizione che si terrà a breve.

Boicottaggio Olimpico: i precedenti

Il boicottaggio dei giochi Olimpici non è un fenomeno nuovo. Un articolo di History, a cura di Lesley Kennedy, racconta di sei diversi boicottaggi avvenuti nel corso dell’ultimo secolo. 

Il primo è datato 1956. Ai giochi Olimpici di Melbourne si registrò l’assenza di Cina, Egitto, Iraq, Libano, Paesi Bassi, Spagna e Svizzera per motivi disparati: gli ultimi tre disertarono i giochi come forma di protesta contro l’invasione sovietica dell’Ungheria, avvenuta meno di un mese prima della cerimonia d’apertura; la Cina perché quei giochi permisero a Taiwan di partecipare con una sua squadra olimpica, considerandolo di fatto un paese separato; Egitto, Iraq e Libano, infine, boicottarono i giochi a causa della crisi del canale di Suez in seguito all’invasione franco-britannica dell’Egitto. 

Seguì, nel 1964, il boicottaggio dei giochi Olimpici di Tokyo da parte di Cina, Corea del Nord e Indonesia. La decisione fu motivata dal fatto che il Comitato Olimpico squalificò tutti gli atleti che presero parte ai “Giochi delle Nuove Forze Emergenti”, una competizione sportiva alternativa a quella Olimpica, tenutisi a Giacarta nel 1963. Quelle di Tokyo furono anche le prime Olimpiadi in cui il Sud Africa fu bandito a causa dell’apartheid, evento, quest’ultimo, che come si vedrà a breve avrà ulteriori strascichi. 

Il primo grande boicottaggio dei giochi Olimpici, infatti, avvenne nel 1976, quando 30 nazioni, 27 provenienti dal continente africano più Iraq, Taiwan e Guyana, non presero parte alle Olimpiadi di Montreal per protestare contro la Nuova Zelanda, ed in particolare contro la famosa nazionale di rugby degli All Blacks, colpevole di aver realizzato un tour in Sud Africa nel periodo in cui diverse organizzazioni sportive internazionali avevano già attuato un boicottaggio per protestare contro il regime dell’apartheid

Quattro anni più tardi, alle Olimpiadi di Mosca del 1980, più di 60 paesi, guidati dagli Stati Uniti d’America, non inviarono i loro atleti a prendere parte alla manifestazione, motivando la scelta come una protesta per l’invasione sovietica in Afghanistan. 

All’edizione successiva, quella di Los Angeles del 1984, l’Unione Sovietica, insieme ad altri 12 paesi, restituì “pan per focaccia” agli statunitensi, adducendo al boicottaggio motivi di sicurezza, nonostante fosse una palese ritorsione per quanto avvenuto alla precedente competizione olimpica.

Nel 1988, infine, fu la Corea del Nord a guidare il boicottaggio delle Olimpiadi di Seoul, a cui presero parte anche Cuba, Etiopia e Nicaragua. Il motivo fu che la Corea del Nord non venne autorizzata ad ospitare i giochi insieme all’“altra Corea”. «Tenere le Olimpiadi a Seoul sarebbe come averle nella base navale di Guantanamo occupata dagli Stati Uniti» disse in un’intervista Fidel Castro. 

Tutti i casi appena citati erano, però, boicottaggi totali, con i paesi aderenti che non permisero agli atleti di prendere parte alla competizione, mentre non ci sono ancora stati casi di boicottaggi diplomatici come quelli che avverranno alle prossime Olimpiadi, se non per la mancata partecipazione di alcuni funzionari provenienti da USA, Germania, Francia ed altri ai giochi invernali di Sochi nel 2014, come protesta per il restringimento delle libertà della comunità LGBT in Russia. 

Quali paesi hanno aderito al boicottaggio diplomatico

Oltre gli Stati Uniti, ad oggi sono cinque i paesi che hanno preso la decisione di non inviare una delegazione a Pechino.

Lituania

Ad aprire le danze la Lituania; in un articolo del 2 dicembre, LRT, azienda televisiva e radiofonica pubblica del paese baltico, scrive che importanti personalità hanno deciso di non andare in Cina in occasione dei giochi. Su tutti il Presidente Gitanas Nausėda che, tramite dei portavoce intervistati dall’emittente, ha fatto sapere che non si recherà a Pechino. La stessa decisione è stata presa dal Ministro degli Esteri Gabrielius Landsbergis e da quello dell’Istruzione, della Scienza e dello Sport Jurgita Šiugždinienė. 

È difficile parlare di un boicottaggio diplomatico vero e proprio, trattandosi, ad oggi, di dichiarazioni raccolte da organi di stampa, ma la decisione non sorprende, viste le pessime relazioni che da qualche mese intercorrono tra la Cina e la repubblica baltica. 

La Lituania, infatti, memore forse il passato sotto il dominio sovietico, oppure, molto più probabilmente, cercando di intercettare i favori degli Stati Uniti per trovare appoggio nella sua politica contro la Russia, ha da tempo aderito all’agenda anti-cinese dell’amministrazione americana, ingaggiando un braccio di ferro con il paese asiatico. 

Il primo evento significativo è avvenuto a maggio del 2021, quando la Lituania è uscita dal “17+1”, forum di cooperazione tra la Cina e 17 paesi dell’Europa centro-orientale e meridionale, molti dei quali avevano fatto parte in passato del blocco sovietico. 

«Non esiste più il 17+1, poiché per motivi pratici la Lituania è fuori» dichiarava in quell’occasione il Ministro degli Esteri lituano, invitando gli altri paesi aderenti a fare lo stesso e cercando una sponda con l’Unione Europea per bilanciare e limitare l’influenza del gigante asiatico nella regione. 

La Lituania ha poi proseguito, in vari modi, nella sua politica anti cinese. Da ultimo – ed estremamente rilevante – è l’apertura di un Ufficio di Rappresentanza di Taiwan, un’ambasciata de facto del paese insulare, riconosciuto solo da 14 stati in giro per il mondo e che la Cina reclama come proprio territorio. Nonostante siano molti i paesi che ospitano quest’ambasciata de facto, di solito si preferisce nominarla Ufficio di Taipei, dal nome della capitale dell’isola. Dalla prospettiva cinese, infatti, l’utilizzo del nome Taiwan o Repubblica di Cina rappresenta una sorta di “legittimazione all’esistenza” del piccolo stato che, da più di mezzo secolo, vive sotto la costante minaccia di un’annessione forzata da parte della Cina. [ndr: del caso di Taiwan ne abbiamo parlato qui

Come risposta la Cina ha degradato i rapporti diplomatici con il paese, poiché, come affermato dal ministero degli Esteri cinese, la mossa ha «creato la falsa impressione che Taiwan sia separata dalla Cina, ha gravemente danneggiato la sovranità e l’integrità territoriale della Cina e ha creato un precedente eclatante nella comunità internazionale». 

Inoltre, proprio di recente, l’agenzia Reuters ha scoperto che la Cina sta lavorando per attuare un boicottaggio commerciale ai danni della Lituania, spingendo le multinazionali a recidere i legami con quest’ultima e impedendo l’accesso al vastissimo mercato cinese di tutta la merce che ha componenti prodotte nel paese baltico. 

Australia

Altro paese che ha aderito al boicottaggio diplomatico è l’Australia. Il paese Oceanico è da anni in rotta con la Cina a seguito dei numerosi tentativi di penetrazione all’interno del paese. 

L’influenza cinese in Australia, fortemente percepibile anche dall’alto numero di cittadini cinesi che vivono, viaggiano o studiano nel paese, è poi rafforzata dal fatto che la Cina è il primo mercato di esportazione dei prodotti australiani. 

Approfittando di questo vantaggio, la Cina ha tentato di condizionare il paese in vari modi, e la situazione è apparsa assolutamente chiara durante le proteste di Hong Kong, quando gruppi di studenti universitari cinesi in Australia, supportati dall’ambasciata di Cina, hanno organizzato numerose manifestazioni, molto ben organizzate, contro gli abitanti dell’ex colonia britannica, dando mostra della capacità dell’ambasciata cinese di esercitare un’enorme influenza nel paese, soprattutto facendo leva sullo spirito nazionalistico dei cittadini cinesi residenti in Australia. [ndr: della città cantonese e del suo rapporto con la Cina abbiamo parlato qui e qui

La situazione è poi definitivamente esplosa quando l’Australia ha chiesto all’OMS un’indagine indipendente sull’origine del Covid-19, mandando su tutte le furie la Cina che, di contro, ha risposto con severe limitazioni alle importazioni di merci australiane, in particolare carbone e prodotti alimentari. In quell’occasione il Ministro degli Esteri australiano Marise Payne accusò pubblicamente la Cina di coercizione economica. 

Il governo di Pechino ha poi rincarato la dose nel novembre del 2020, presentando pubblicamente un’irricevibile lista di “14 rimostranze”, contenente i comportamenti che l’Australia avrebbe dovuto correggere per normalizzare le relazioni. «La Cina è arrabbiata. Se rendi la Cina il nemico, la Cina sarà il nemico», avrebbe detto un funzionario del governo cinese ai giornalisti. 

Gli effetti dell’assalto economico contro l’Australia sono stati in verità modesti, mentre l’atteggiamento aggressivo della Cina, ben sintetizzato nelle “14 rimostranze”, ha convinto diversi paesi della necessità di non piegarsi alle pratiche scorrette e coercitive del governo cinese, con l’inevitabile effetto di un netto peggioramento della reputazione della Cina. 

La competizione tra i paesi è presente anche sul piano militare, con l’Australia che ha rafforzato la cooperazione con il Regno Unito e gli Stati Uniti, il cosiddetto “AUKUS”, dando così il via ad un progetto di costruzione di sottomarini a propulsione nucleare, con il chiaro l’intento di contrastare militarmente l’influenza cinese nella regione Indopacifica. 

Regno Unito

Ad aggiungersi alla lista anche il Regno Unito. Fin dall’uscita dall’Unione Europea, ma in verità già da diversi anni, il governo di Londra ha deciso di allineare totalmente la sua politica estera agli Stati Uniti, partecipando a molteplici iniziative di Washington.

Non a caso proprio negli ultimi mesi il Regno Unito ha inviato un gruppo di portaerei in una missione che, partita dalle coste britanniche, è giunta fino in Giappone, passando per il Mar Cinese Meridionale – territorio militarmente “caldo” e reclamato quasi totalmente dalla Cina come parte integrante del suo territorio -, mostrando bandiera al fine di sostenere la strategia americana e dei paesi asiatici nella regione dell’Indo-Pacifico.

Nuova Zelanda

Più riottosa nell’aderire al boicottaggio, essendo tra i paesi anglofoni il più restio ad assumere una posizione di aperto contrasto alla Cina, è stata la Nuova Zelanda, che infatti ha giustificato il boicottaggio con motivi legati al Covid-19, senza mancare però di esprimere preoccupazioni per le violazioni dei diritti umani in Cina.

Canada

Chiude il cerchio dei Five Eyes il Canada. Anche in questo caso si potrebbe pensare che la mossa sia solo una manifestazione di sostegno verso i confinanti Stati Uniti d’America, ma in realtà esistono elementi di frizione anche tra Canada e Cina. 

Il 28 gennaio del 2018, infatti, su mandato degli Stati Uniti, il Canada arrestò Meng Wanzhou, CFO della Huawei Technologies Co., Ltd. e figlia di Ren Zhengfei, fondatore del colosso tecnologico cinese. L’accusa era di frode finanziaria, avendo raggirato la HSBC Holdings utilizzando una filiale di Huawei, Skycom, per evadere sanzioni commerciali contro l’Iran. 

Di tutta risposta la Cina arrestò due cittadini canadesi, Michael Kovrig e Michael Spavor, accusandoli di spionaggio. La mossa, che era chiaramente una ritorsione per l’arresto di Meng Wanzhou, fu denominata la “diplomazia degli ostaggi”, e si risolse solo a fine settembre del 2021 quando Cina e Stati Uniti raggiunsero l’accordo per il rilascio e lo scambio dei prigionieri

Il grave episodio, che anche in questo caso ha visto forme di boicottaggio economico delle merci canadesi, ha convinto il paese nord americano a schierarsi a fianco degli USA in prospettiva anti cinese. 

Giappone

Più ambigua, invece, la posizione del Giappone: secondo i quotidiani nipponici, che citano fonti governative, nessuno dei ministri presenzierà alle Olimpiadi invernali di Pechino, senza però aver fatto ancora nessuna dichiarazione ufficiale al riguardo. 

Al tempo stesso, tuttavia, circolano voci sulla presenza di importanti personalità del mondo sportivo giapponese, come il presidente del Comitato Olimpico, il presidente del Comitato Organizzatore degli ultimi Giochi Olimpici e Paralimpici di Tōkyō, e si discute anche dell’eventuale presenza del commissario della Japan Sports Agency. 

Il governo di Tōkyō, che sempre secondo i quotidiani nazionali prenderà una decisione definitiva entro la fine dell’anno, sembra maggiormente attendista, aspettando l’evolversi della situazione per decidere di conseguenza se allinearsi o meno al boicottaggio. D’altronde il Giappone ha sempre preferito non contrapporsi direttamente alla Cina, preferendo invece perseguire una strategia più accorta ed incisiva mirante al bilanciamento dell’influenza politica, economica e militare di Pechino nel continente asiatico. 

Quali paesi non hanno aderito al boicottaggio

Ad oggi l’unico grande paese occidentale che ha deciso di non aderire al boicottaggio è la Francia. Tanto il Ministro dello Sport Roxana Maracineanu quanto quello dell’Istruzione Jean-Michel Blanquer hanno dichiarato pubblicamente la loro contrarietà al boicottaggio, mentre è stato più cauto il Ministro degli Esteri Jean Yves Le Drian, il quale ha invocato la necessità di una posizione comune dell’Unione europea. 

A tagliare la testa al toro, però, ci ha pensato il Presidente in persona, Emmanuel Macron, che ha definito “insignificante” il boicottaggio, dichiarando inoltre che le Olimpiadi non dovrebbero essere terreno di scontro politico, preferendo invece azioni che abbiano un “effetto utile“. 

«Per essere chiari: o hai un boicottaggio completo e non mandi atleti, o cerchi di cambiare le cose con azioni utili – ha detto Macron -. Non credo che dovremmo politicizzare questi argomenti, soprattutto se si tratta di compiere passi insignificanti e simbolici». 

Nel continente asiatico, invece, un paese intenzionato a prendere parte ai giochi anche diplomaticamente è la Corea del Sud. Durante una visita in Australia, il presidente sudcoreano Moon Jae-in ha dichiarato che il suo governo non sta prendendo in considerazione il boicottaggio diplomatico. 

Il presidente ha comunque precisato che la Corea del Sud non ha «ricevuto alcuna richiesta di partecipazione da nessun paese, inclusi gli Stati Uniti». 

Altre adesioni sono arrivate da paesi meno influenti, come il Pakistan, alleato formale della Cina. 

La reazione delle autorità cinesi

Come prevedibile, le autorità della Repubblica Popolare Cinese non hanno accolto favorevolmente la scelta dei paesi aderenti al boicottaggio, anche se, ad oggi, non si registra alcuna azione significativa, ma solo dichiarazioni aggressive o sprezzanti nel classico stile della propaganda cinese. 

In un editoriale dell’agenzia di stampa cinese Xinhua, infatti, si legge che «l’ultimo tentativo di Washington di politicizzare l’imminente evento sportivo globale va contro lo spirito olimpico che intende unire piuttosto che dividere. Questa sfacciata provocazione politica rischierà anche di danneggiare le relazioni sino-americane, una delle relazioni bilaterali più importanti al mondo che si trova a un bivio cruciale». 

L’editoriale prosegue poi affermando che «dato che nessun funzionario statunitense era stato invitato a partecipare alle Olimpiadi invernali di Pechino, il cosiddetto boicottaggio diplomatico non è altro che una scusa autoinventata e politicamente conveniente per Washington». 

Al tempo stesso però Wang Wenbin, portavoce del ministero degli Esteri cinese, ha alzato l’asticella, dichiarando in conferenza stampa che «gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Australia hanno utilizzato la piattaforma delle Olimpiadi per la manipolazione politica» e che «dovranno pagare un prezzo per le loro azioni sbagliate». 

Non è chiaro a quali contromisure stia pensando il governo di Pechino, ma è legittimo pensare che al boicottaggio non seguiranno azioni degne di nota, se non feroci rimostranze e qualche limitazione al commercio, tecniche, queste, adottate da tempo dalla Cina, ma che via via non stanno più sortendo l’effetto sperato. 

Al contrario, dopo l’acuirsi dei rapporti tra Stati Uniti e Cina, le continue minacce cinesi, che negli anni passati facevano desistere la maggior parte dei paesi dall’accusare duramente Pechino per non incappare in qualche forma di ritorsione, hanno raggiunto il risultato opposto, isolando diplomaticamente il paese.

L’effetto del boicottaggio

Visto in sé e per sé il boicottaggio diplomatico non è capace di generare alcun effetto significativo. Come visto con i numerosi precedenti, lo scopo principale è quello di lanciare un messaggio politico che, però, non è in grado di determinare un sostanziale cambiamento nelle relazioni. 

Azioni come questa, tuttavia, si inseriscono all’interno di un contesto più ampio, che, nel caso dei giochi Olimpici di Pechino, racconta molto dello stato delle relazioni tra Stati Uniti e Cina. 

I due paesi hanno ingaggiato un braccio di ferro circa un decennio fa, quando l’amministrazione Obama, con il suo “Pivot to Asia”, ha lavorato per rafforzare la collaborazione economica e militare con i paesi asiatici al fine di contenere la maggiore influenza cinese nella regione. 

Proseguendo poi, con toni e azioni molto più dure, durante l’amministrazione Trump, il quale ha reso palese il conflitto con la “guerra dei dazi”, la tattica di contenimento della Cina è stata confermata anche dal Presidente Biden. Ad oggi i rapporti tra i due paesi sono al minimo storico, mentre aumenta lo scontro in molteplici settori. 

Se il tentativo di limitazione dell’altrui influenza è per la Cina un compito particolarmente difficile, anche e soprattutto per l’assoluta impopolarità del paese, in particolare nell’opinione pubblica dei paesi occidentali e dei diretti competitori in Asia, per gli Stati Uniti, dopo le prime resistenze iniziali degli alleati, è ora più agevole, visto un sempre maggior convincimento della necessità di arginare la Cina. 

Nel caso specifico, gli USA hanno fatto immediatamente ricorso alla loro arma retorica per eccellenza, il rispetto dei diritti umani, giustificando il boicottaggio con la volontà di non legittimare agli occhi dell’opinione pubblica un paese che sta attuando un “genocidio” e che, in generale, è colpevole di numerose “altre violazioni dei diritti umani”. 

Washington utilizza la tematica del rispetto dei diritti umani soprattutto per chiamare all’appello gli alleati dell’Europa occidentale, che ancora cercano un modo per barcamenarsi tra le richieste di “fedeltà” agli USA e una politica (soprattutto commerciale) di non aperta contrapposizione con Pechino. 

Si fanno sempre maggiori le pressioni americane affinché i paesi europei si allineino definitivamente agli Stati Uniti come hanno fatto i “Five Eyes”, l’alleanza dei paesi anglofoni che, forse anche per merito di una cultura strategica maggiormente strutturata, hanno compreso la necessità di contrapporsi alla Cina. 

Il boicottaggio, quindi, si unisce a tutte le altre iniziative che il governo statunitense sta implementando in ottica anti-cinese: queste vanno dai già citati dazi commerciali, alla competizione tecnologica, passando per una maggior presenza militare nei mari che bagnano le coste cinesi, attuata anche rafforzando la collaborazione con i paesi membri del Quadrilateral Security Dialogue (QUAD), ossia Australia, Giappone e India. 

Le relazioni tra i due paesi sono ancora in divenire, ma appare oramai evidente che lo scontro è destinato a durare ancora a lungo. Non c’è da meravigliarsi, quindi, che il recente incontro virtuale tra i due presidenti, Joe Biden e Xí Jìnpíng, non abbia prodotto alcun cambiamento significativo, essendo le differenze tra i due paesi strutturali e quasi del tutto insanabili. 

Bisognerà attendere la fine dei giochi Olimpici, in particolare vedendo quanti paesi avranno deciso se prendere parte al boicottaggio diplomatico o meno, per sapere se la tattica statunitense, almeno dal punto di vista propagandistico, ha avuto l’effetto desiderato.

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