Mentre il parlamento italiano si appresta ad eleggere il nuovo Capo di Stato, l’Italia e l’Europa devono gestire una serie di dossier fondamentali per il loro futuro: l’inflazione e la politica monetaria di FED e BCE, il caro energia, la riforma del fisco, i vincoli di bilancio, il PNRR. Facciamo il punto con Alessandro Cascavilla, dottorando in Economics presso l’Università degli Studi di Bari.
Nell’Eurozona l’inflazione a novembre ha segnato un +4,9% su base tendenziale. Per ora la BCE considera l’inflazione un fenomeno transitorio e non vuole rischiare di ostacolare la ripresa economica con una politica restrittiva. Intanto la FED sta ragionando sull’aumento dei tassi di interesse nel corso di quest’anno perché l’inflazione comincia a far paura. Perché questa differenza? Qualcuno sta commettendo un errore di valutazione?
Non credo ci sia un errore di valutazione, mi aspettavo le strategie attualmente eterogenee della BCE e della FED. Questo per due ragioni:
1) con il nuovo regime di average inflation targeting bisogna guardare al livello dei prezzi e non al relativo tasso di crescita. In questo senso, i dati USA segnavano una divergenza verso l’alto, rispetto al trend del 2%, già dall’autunno scorso. Al contrario, nell’eurozona la dinamica dei prezzi non è ancora divergente, nonostante sia comunque in crescita. Questo perché veniamo da un periodo in cui l’inflazione era sistematicamente più bassa rispetto a quella degli Stati Uniti, dunque abbiamo più spazio di manovra. È chiaro quindi che, se una bassa inflazione ieri va compensata con un’alta inflazione attuale e futura, la FED deve intervenire necessariamente in anticipo sul livello dei tassi di interesse rispetto alla BCE. In Europa abbiamo un relativo vantaggio temporale di qualche mese rispetto agli USA. Stiamo attualmente registrando livelli di inflazione che negli Stati Uniti si vedevano già quest’estate.
2) la seconda ragione per cui la BCE farà più fatica ad aumentare i tassi è che questo potrebbe portare a tensioni finanziarie non indifferenti nei paesi più indebitati. In paesi come l’Italia, la politica fiscale espansiva che stiamo portando avanti è possibile solo nel caso in cui non ci sia inflazione, quindi con tassi di interesse bassi. Altrimenti, un aumento dei tassi implica un servizio del debito più elevato, quindi minore possibilità di spesa e politiche restrittive. Perciò, dato che l’Europa non è dotata di un bilancio federale per delle politiche anticicliche e specifiche per paese (se la BCE alza i tassi, li alza indistintamente per tutti i Paesi), prendere una decisione prematura sui tassi di interesse può rivelarsi relativamente più dannoso rispetto a quanto possa esserlo negli Stati Uniti.
In generale, sul ruolo delle banche centrali in questo momento storico sposo in pieno le parole dell’Ex governatore della Bank of England, Lord Mervyn King, che ha detto di non voler essere al posto delle banche centrali, cioè con inflazione al 7% e tassi di interesse praticamente a zero. Questo perché, se le banche centrali non aumenteranno i tassi a breve, i rendimenti reali saranno (molto) negativi. E questo non verrà accettato dagli investitori. Non a caso, i tassi sui Treasuries a 10 anni sono in costante crescita.
In queste settimane stiamo assistendo ad un rincaro dei prezzi energetici e, più in generale, delle materie prime. Sul fronte bollette, il Governo ha inserito un pacchetto di interventi da 3,7 miliardi nella Legge di Bilancio. È una misura sufficiente?
La definirei una misura necessaria ma non sufficiente. È una politica giusta, ma si tratta di un intervento temporaneo, tempestivo e non sostenibile. L’unica soluzione al problema dei prezzi energetici è impostare una strategia energetica di medio-lungo periodo. C’è troppa dipendenza da pochi fornitori, perciò non possiamo più permetterci di continuare con la non-strategia di sperare che le temperature non si abbassino più del previsto per evitare eventuali carenze di energia e un conseguente aumento dei prezzi. Non è giusto riversare sulla collettività (tramite tassazione o debito) il costo economico di una strategia energetica praticamente inesistente.
Nella Legge di Bilancio il Governo ha introdotto una riforma dell’IRPEF. C’è chi sostiene che il nuovo assetto favorisce i ceti medio-alti. Come stanno le cose?
La riforma dell’Irpef è stata molto criticata e si è creata parecchia confusione. Partiamo da un punto fondamentale: l’obiettivo della riforma era quello di razionalizzare le aliquote marginali effettive e di abbassare, in media, la loro incidenza. In altri termini, rendere l’imposta più efficiente. Ci è riuscita? Direi di sì, e questo è un dato di fatto. Ora, chi sono i vincitori e i vinti di questa riforma? Dipende da che punto di vista la si osserva. In generale è innegabile notare che i ceti medio-alti abbiano avuto un risparmio più alto in termini assoluti. Ma questo non è necessariamente un problema per due motivi:
1) i vantaggi fiscali vanno valutati sempre e solo in termini relativi (%) e non assoluti (€). Altrimenti anche il concetto di progressività sarebbe soddisfatto con un’imposta proporzionale, dato che chi ha un reddito più alto pagherà in termini assoluti sempre di più di chi ha un reddito più basso, a parità di aliquota. In termini relativi, i vantaggi della classe medio-alta non sono più alti rispetto alle altre classi di reddito.
2) i contribuenti con reddito superiore ai 40mila euro (lordi) sono stati di fatto esclusi da tutte le politiche fiscali espansive degli ultimi dieci anni. Ad esempio, misure come Bonus Renzi, RDC e Assegno unico universale sono tutte destinate a contribuenti con reddito inferiore ai 40mila euro, per un totale di spesa di circa 30 miliardi l’anno. È giusto quindi tagliare le imposte in parte anche per i redditi medio-alti? Credo di sì. Chiaramente se ne può discutere, ma bisogna tenere a mente quanto queste classi contribuiscono al totale dell’Irpef versata. Non vedo quindi alcuno scandalo in questa riforma. In termini di equità si poteva fare di meglio? Assolutamente sì, ma ripeto: non era questo l’obiettivo della riforma. Considerando che si tratta solo di un primo passo verso una riforma integrale del fisco, sono sicuro che ci sarà modo di snellire il sistema fiscale e renderlo ancora più progressivo.
In più occasioni il premier ha detto “Dal debito pubblico alto si esce con la crescita”. È finita la stagione dell’austerity e del Fiscal Compact?
Non illudiamoci, le cose cambieranno. Se non nel breve, nel medio periodo. Non possiamo far finta che non ci sia un vincolo di bilancio pubblico da rispettare. La pandemia ha fatto aumentare i debiti pubblici di tutti i Paesi, e questo ha sicuramente aiutato a diluire la pressione sui conti pubblici italiani. La sospensione temporanea del Fiscal Compact è stata di fondamentale importanza in questo periodo storico in cui la BCE copre oltre 2/3 del fabbisogno finanziario dell’Italia. È chiaro però che questa situazione è possibile solo in caso di emergenza e di grande incertezza come quella che stiamo affrontando. Il vincolo di bilancio esiste e va rispettato. La scommessa di riuscire a mantenerlo in equilibrio si gioca sul nostro tasso di crescita potenziale, che le risorse e la flessibilità concesse dall’Europa dovrebbero stimolare tramite le giuste riforme strutturali (PA, Giustizia, ammortizzatori sociali, fisco, concorrenza ecc.). I vincoli torneranno, e dovremo essere in grado di riuscire a sostenerli, altrimenti è prevedibile che con inflazione alta e tassi di interesse altrettanto in crescita ci saranno tensioni finanziarie non indifferenti, sia nel pubblico che nel privato. Attualmente le DSA (Debt Sustainability Analysis) di enti sovranazionali indicano che il nostro debito è sostenibile, ma dobbiamo tenere a mente che il nostro livello di “tranquillità finanziaria” domani dipende da come vengono impiegate le risorse oggi. Anche perché, ripeto, i vincoli come il Fiscal Compact sono destinati a tornare. Ricordiamoci che nel 2022 verranno ridiscusse le regole europee sui conti pubblici. Quindi, possiamo solo augurarci di godere ancora di un buon potere contrattuale. Questo dipenderà dalla fiducia nel nostro governo e dalla sua credibilità nel raggiungere gli obiettivi del PNRR.
Passiamo al dossier PNRR. Mario Draghi ha dichiarato che il Governo ha conseguito i 51 obiettivi previsti dal piano per ricevere la prima tranche di finanziamenti. L’Italia è sulla buona strada?
A quanto pare, sì. Sulla base del piano presentato, le 51 condizioni da rispettare per ottenere la rata successiva dei finanziamenti del PNRR sono state raggiunte nei tempi previsti. Questo è un ottimo risultato, significa che il piano è stato impostato bene e che gli obiettivi sono, a quanto pare, raggiungibili con le giuste politiche. Anche se l’anno fondamentale per le sorti dell’Italia sarà il 2022. Questo perché bisognerà raggiungere il doppio degli obiettivi (102) per ottenere il terzo round di fondi del PNRR (40 miliardi di euro), ed è quindi importante che il governo prosegua in questa direzione. Con le prossime elezioni del Presidente della Repubblica questa continuità può essere messa a rischio.
E se Mario Draghi venisse eletto Presidente della Repubblica?
Sinceramente non mi dispiacerebbe. Mi spiego meglio: per me, Draghi Presidente del Consiglio è il first-best e lo è sempre stato, anche in tempi non sospetti. Attualmente però sta guidando una maggioranza troppo eterogenea, che non avrebbe comunque futuro (se tutto va bene, al limite riuscirebbe ad andare avanti fino alle prossime elezioni politiche). Le pressioni dei partiti politici nella maggioranza cominciano a farsi sentire sempre di più. Per questo, considerato il limite temporale naturale di questo governo, non mi dispiacerebbe avere Draghi al Quirinale per i prossimi 7 anni. Certo, non avrebbe il potere esecutivo che ha ora, ma quello lo perderebbe lo stesso a fine mandato prossimo. Se Draghi rinunciasse alla carica di Presidente del Consiglio, sarebbe ovviamente messa in discussione la fattibilità di portare a termine il pacchetto di riforme per cui era stato chiamato a dirigere il Governo e a gestire gli investimenti del PNRR. È questo il grande costo opportunità di averlo al Quirinale. In entrambi i casi, avremmo una potenziale occasione sprecata. In vista dell’incertezza che caratterizzerà il prossimo medio-lungo periodo, mi sentirei più tranquillo se Draghi avesse comunque un ruolo istituzionale importante, anche se non così esecutivo. Avremo bisogno di non poca credibilità internazionale. Teniamolo a mente.
Un’ultima domanda, più personale. Alessandro Cascavilla come si informa sui social sull’attualità economico-politica?
A livello internazionale seguo alcuni profili interessanti, come Financial Times, Guardian, CNBC, WSJ, Time, Bloomberg, New York Times, Politico, che pubblicano molti approfondimenti interessanti, oltre a notizie. Seguo i profili delle istituzioni economiche e politiche nazionali e internazionali per le comunicazioni e per i dati ufficiali. A livello nazionale, oltre a seguire le classiche testate giornalistiche, per essere aggiornato sulle notizie, seguo Le Fonti TV per approfondire temi puramente economici e finanziari, gli editoriali e le note dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani per essere aggiornato sui temi più attuali a livello governativo. Alcuni profili Instagram molto interessanti sono @torcha, con cui ho collaborato in diverse rubriche e contenuti sull’economia, e @factanza, che propone quotidianamente contenuti di attualità in modo innovativo e mai banale. Una cosa importante: non mi limito mai a leggere news solo sui social. I post servono secondo me solo per avere un’idea di quello che succede. Quando trovo qualche notizia rilevante, la approfondisco sempre su siti web specializzati sul relativo tema. Se reputo che una notizia possa essere di interesse per la mia community, la condivido dedicandole un post, delle storie o un articolo sul blog Patto Generazionale, ma solo dopo aver approfondito per bene la questione con referenze autorevoli.