Il presente articolo è in risposta a “Non abbiamo bisogno di etichette” di Francesco Saverio De Marchi.
“Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse” – Genesi 2, 19-20
Chi scrisse queste parole visse circa 3500 anni fa e miliardi di persone ancora oggi le considerano come “verità” pur conoscendo contemporaneamente la teoria dell’evoluzione di Darwin. La contraddizione è solo apparente: è il significato psicologico di questi versi ad essere riconosciuto come vero dall’inconscio di tutti.
La Genesi, infatti, non narra della creazione dell’universo esterno e materiale, ma del mondo interno, ossia della psiche ed in particolar modo della coscienza. È la storia di ognuno di noi che da neonati, serviti e riveriti nel giardino dell’Eden, cresciamo e veniamo sbattuti fuori da quel paradiso fatto dell’amore dei genitori una volta che acquistiamo la “conoscenza del bene e del male”, ossia diventiamo adulti. Miliardi di persone leggono la propria storia personale in quelle parole e la giudicano più o meno inconsciamente come “vera”.
In particolare i versi scritti sopra si riferiscono ad un processo conoscitivo universale secondo la quale la materia e gli oggetti esistono indipendentemente dall’essere umano con il quale interagiscono; ma quest’ultimo, per tradurli in “cose” la cui mente può processare con facilità, deve per forza dargli un nome.
Ho scritto quest’introduzione basandomi sulla Bibbia perché oltre al mondo materiale esiste quello metafisico e, mentre nel primo la scienza sta facendo passi da gigante, nel secondo è molto indietro. Suggerisco però di utilizzare il primo passo del metodo scientifico per scoprire cosa c’è oltre la materia: l’osservazione.
L’uomo ha dato estrema importanza ai nomi, di cose e di persone, per tutta la sua storia.
Ad Auschwitz la prima cosa che veniva fatta ai prigionieri era la rimozione del nome in favore di un codice numerico. Non era per caso o opportunità: era necessario deumanizzare le vittime per renderne l’omicidio più semplice. La scienza ci dice che un uomo rimane tale con o senza nome, allora perché prendersi la briga di fare questo procedimento?
Vi sono ricerche che provano come molte popolazioni non siano letteralmente in grado di vedere alcune sfumature di colori perché nel loro linguaggio non esistono.
Una cosa simile la provo io stesso: nella mia semplicità non ho mai avuto voglia di impararmi le varie sfumature di colori, a differenza di mia madre. Ogni volta che mi presento a casa sua con una maglia nuova mi sorprende sempre dicendomi il nome “esotico” del colore; mentre per me, ad esempio, esiste solo una tonalità di rosso.
Lo stesso discorso vale per i concetti di origine biologica, chiamati da Jung archetipi. Ogni bambino nasce con l’idea di padre e di madre, non gli vengono insegnati, eppure tutti i genitori fanno a gara per dare il nome a quelle idee. Il bambino dirà prima “mamma” o “papà”?
Questi sono solo alcuni degli esempi che dimostrano l’importanza del nome delle cose. Ammetto di non avere una prova scientifica, ma potrei citare osservazioni empiriche del fenomeno per ore.
In generale, quando una persona ha un’idea solo vaga di un termine, esso le appare avvolto in una nebbia. Relegato ad un angolo remoto del cervello sembra inservibile ed inutile.
SOCIALISTA E LIBERALE
Stabilita l’importanza dei nomi, dalla loro universalità si deduce che lo stesso procedimento conoscitivo avviene in politica. Il termine “socialista” indica semplicemente il sostenitore della proprietà collettiva dei mezzi di produzione, mentre “liberale”, all’opposto, sostiene la proprietà privata degli stessi.
Il fatto che nel tempo si siano annacquati i significati non significa che siano diventati inutili o desueti ma che ai politici non conviene parlare di fatti concreti. Il politico non si rivolge mai alla coscienza ma ai sentimenti: con “socialismo” intende sollevare il desiderio di comunità di ogni essere umano, con “liberalismo” vuole far leva sulla naturale voglia di libertà di ogni cittadino.
Così nel tempo il significato concreto di ogni termine è stato avvolto nella nebbia; togliendo il significato alle parole i politici sono riusciti a facilitare ulteriormente il lavoro in cui erano già molto bravi: parlare del nulla.
Il desiderio mio, condiviso credo da molti altri, è che di politica si cominci a discutere. L’Italia ha degli enormi problemi che la stanno lentamente trascinando nell’abisso: vanno affrontati negoziando tra noi cittadini le soluzioni.
Difficile però stabilire un dialogo quando non esistono le parole per descrivere ciò che si pensa.
È vero che termini come socialismo e liberalismo sono comprensivi di molte politiche ed estremamente semplicisti, ma lo è anche il termine “cane”. Se si vuole stabilire, tra conviventi, quale sia la razza migliore da avere in famiglia si deve andare oltre al cane e cominciare a parlare di pastori tedeschi e chihuahua, i quali sono estremamente diversi tra loro: il primo è affidabile e facilmente addestrabile, il secondo un demone salito in terra dalle profondità degli inferi.
Ma non è eliminando la parola “cane” che si arriverà ad una soluzione.
Nel corso di una negoziazione, specialmente se complicata come quella tra sessanta milioni di individui, si verranno a creare diverse fazioni: solo raggruppandosi infatti gli individui con le stesse idee potranno avere qualche speranza di vincere. La collaborazione non è negativa ma fondamentale per avere successo in qualsiasi campo. Essa non è costruita su base ideologica: nasce spontaneamente perché in quanto esseri umani siamo portati a vivere in comunità, a condividere e ad aiutarci l’uno con l’altro.
Generalmente nelle faccende di Stato tutte le soluzioni possono essere raggruppate in due insiemi: il primo che chiede più partecipazione statale rispetto allo status quo ed il secondo meno. È naturale quindi la divisione di ogni gruppo politico verso una scelta invece dell’altra.
Gli individui che sono più propensi ad affidarsi al controllo statale si diranno “socialisti”, quelli meno “liberali”. Quando un politico si dice l’uno, l’altro o entrambi intende solo prendere più voti possibili per poi farsi i fatti suoi. Visto che l’obbiettivo è quasi sempre appropriarsi della cosa pubblica per perseguire fini personali, l’annacquamento dei termini e la confusione che ne genera sono propedeutici allo scopo.
Riappropriamoci dei termini e teniamoceli ben stretti: quando un politico tira fuori dal cappello un’ideologia, chiediamo cosa intende dire. Quando qualcuno ci accusa di far parte di un certo gruppo, chiediamogli che cosa intende con quella parola. Soprattutto: chiediamo a noi stessi il significato delle parole che pronunciamo. Spesso ripetiamo idee e concetti perché ci sembrano veri, ma nel passaggio tra conscio ed inconscio qualcosa viene sempre perso.
Non perdiamo le parole, vi prego, perché sono idee concrete.