Ecco la retorica con cui Conte si è reinventato leader politico dei sedicenti progressisti.
“Nuovo Umanesimo” è un’espressione che Giuseppe Conte ha utilizzato più volte nei suoi interventi pubblici.
In occasione del Festival Nazionale dell’Economia Civile, tenutosi a Firenze tra il 25 e il 27 settembre scorso, ha addirittura annunciato un “grande evento internazionale” a inizio 2021, per “discutere e dare sostanza concreta” a questo concetto.
Non si pensi però che la nozione in questione, che fa maccheronicamente riferimento alla visione antropocentrica del mondo, propria del pensiero umanistico, sia un derivato della crisi economico-sociale degli ultimi mesi, che ha accentuato l’importanza di prestare attenzione alle necessità delle persone.
No, Conte la utilizza da molto prima.
Ad esempio, la menziona già il 17 luglio 2019, in piena fase terminale del suo primo governo, quando ormai da tempo ha abbandonato il ruolo di silenzioso mediatore e ha acquisito una certa dimestichezza con i proclami tipici del politicante. Quel giorno, dalla sede romana di Confagricoltura, sostiene che “il settore agricolo è quello elettivo per un Nuovo Umanesimo” e che “dobbiamo far di tutto per rimettere l’uomo, l’unicità del suo essere, al centro delle nostre iniziative, anche quelle economiche”.
Le dichiarazioni a riguardo che però si ricordano meglio, sono quelle del 29 agosto 2019 quando, dal palazzo del Quirinale, comunica di aver accettato con riserva l’incarico di formare un nuovo governo.
In quell’occasione la formula “Nuovo Umanesimo” è utilizzata da Conte come cappello all’elenco di fantastiche misure programmatiche e millantati valori e principi, con cui prometteva di caratterizzare la sua “nuova, ampia stagione riformatrice, di rilancio, speranza e certezze”.
Tra i numerosi annunci c’erano: il miglioramento del sistema scolastico, gli investimenti in ricerca, la tutela dell’ambiente, lo sviluppo eco-sostenibile, la rimozione delle disuguaglianze, il Mezzogiorno finalmente rigoglioso, la P.A. amica dei cittadini, la lotta all’evasione fiscale, il rispetto delle istituzioni e il principio del lavoro come supremo valore sociale.
Insomma, è chiaro ed evidente che “Nuovo Umanesimo” sia inteso da Conte come riassunto delle solite, immaginifiche parole vuote. Molte di esse peraltro pesantemente bugiarde, visto il suo operato prima e dopo quel 29 agosto.
Ma quella formula rappresenta in realtà qualcosa in più: è uno degli artifici retorici, il più stilisticamente affascinante, con cui Conte ha compiuto, insieme, le due transizioni necessarie a proseguire la sua carriera politica.
Quella, definitiva, da impacciato e anodino avvocato al servizio dei partiti, a leader che detta solennemente l’orizzonte politico.
Serviva una figura di riferimento su cui le nuove forze di maggioranza, inconciliabili o ben per storiche tensioni, o ben per tattica politica, potessero poggiarsi.
Serviva qualcuno che sopperisse all’imbarazzante inespressività della classe dirigente ora al potere, sopraffatta da tempo dai toni continuamente rumorosi delle destre.
Serviva un profilo apparentemente rassicurante e composto, da contrapporre antiteticamente all’indolenzito Salvini, che dei modi volutamente sfacciati ha sempre fatto il suo marchio di fabbrica.
Serviva un capopopolo, capace di essere un convincente venditore del fasullo sogno della palingenesi, eternamente ammaliante per gran parte degli italiani.
Conte ha accettato ben volentieri di interpretare questa parte, e si è preparato a recitarla per il meglio.
E poi la seconda transizione, davvero senza precedenti, con cui ha tolto di colpo il vestito nero per indossare quello rosso. La vaga declinazione del “Nuovo Umanesimo” soprattutto nei temi di ambiente e cultura, senza ovviamente alcuna precisazione esaustiva sulla loro implementazione, è bastata per eccitare gli elettori della nuova maggioranza e far loro dimenticare l’esperienza di governo marcatamente di destra appena conclusa.
Emblematico è il dibattito del 27 gennaio 2020 a Otto e mezzo durante il quale, in uno strepitoso esercizio di politichese, degno di un giurista che si compiace del suo eloquio, Conte palesa il suo artificiale schieramento in quella che lui definisce “area innovatrice per lo sviluppo sostenibile”, sostenendo che le destre non ne possono fare culturalmente parte.
Ecco quindi che, compiendo il più grottesco atto di trasformismo della storia della politica italiana, sotto gli occhi di cittadini assuefatti alla menzogna, Giuseppe Conte è riuscito a reinventarsi leader politico dei sedicenti progressisti.