Mentre nell’ultimo decennio la situazione dei rifugiati nel mondo è diventata sempre più drammatica, le politiche europee di asilo si sono fatte sempre più restrittive. Le misure di non-ingresso impediscono ai rifugiati l’accesso all’asilo, cui avrebbero diritto in base alle norme europee ed internazionali; confini sempre più blindati li separano da un orizzonte di speranza in Europa.
Chi sono i rifugiati?
Secondo la definizione ufficiale data dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati, il rifugiato è colui che, temendo di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova al di fuori del paese di cui è cittadino e non può o non vuole avvalersi della protezione del suo paese. E’ dunque necessario che un altro stato provveda alla sua protezione, assicurandone la sopravvivenza, oppure attuandone il reinsediamento entro la propria società. Il diritto internazionale per la protezione dei rifugiati ne garantisce, quindi, la tutela.
La norma chiave della tutela dei rifugiati è il principio di non respingimento, che obbliga tutti gli stati a fornire asilo ai rifugiati che ne abbiano varcato i confini nazionali. Questa norma di diritto internazionale vieta di respingere i rifugiati verso il paese da cui sono in fuga. Gli stati confinanti con paesi martoriati dalla guerra o in cui i diritti umani sono sistematicamente violati devono dunque accogliere entro il proprio territorio i rifugiati provenienti da tali paesi. D’altra parte, per gli stati geograficamente distanti dalle regioni di origine non è previsto alcun obbligo di farsi carico della protezione di quote significative di rifugiati. Gli stati del Nord del mondo hanno tutto l’interesse a lasciare che siano gli stati del Sud del mondo ad occuparsene. Ad oggi, secondo i dati dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), l’80% dei rifugiati è accolto in paesi che confinano con il proprio; questi paesi sono tendenzialmente a basso reddito e privi dei mezzi adeguati a soddisfare i bisogni di un numero elevatissimo di profughi.
Il caso dei profughi siriani in Libano
La distribuzione degli oneri della protezione dei rifugiati tra gli stati risulta quindi asimmetrica e genera numerose criticità. Il caso dei profughi siriani, costretti ad abbandonare il proprio paese a seguito dello scoppio della guerra civile nel 2011, ne fornisce un esempio lampante. Le stime dell’Unhcr parlano di ben due milioni di profughi che hanno trovato rifugio nel confinante Libano, paese che conta 4,5 milioni di abitanti. Non avendo mai firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, il Libano non attribuisce alcun diritto di asilo e riconoscimento formale ai rifugiati siriani.
Dimostratosi inizialmente accogliente, nel corso degli anni il governo libanese ha attuato misure volte a scoraggiare la permanenza dei siriani già presenti sul territorio, e soprattutto l’arrivo di nuovi profughi. Nel 2015 ha imposto all’Unhcr di non registrare i nuovi arrivi nel paese. Rinnovare il permesso di soggiorno per i profughi che erano già in Libano è divenuto proibitivo: la procedura, oltre a comportare costi difficilmente accessibili ai profughi, richiede loro di astenersi dal lavoro per un anno. Il timore di subire ripercussioni da parte del governo di Assad in caso di ritorno in patria è tuttavia più forte dell’ostilità libanese. Molti siriani rimangono nel paese nell’illegalità, privi di documenti e passibili di arresto in qualunque momento da parte delle autorità locali. Cercano di lavorare, senza tutele e spesso in condizioni di sfruttamento, per pagare l’affitto dei garage, delle case fatiscenti, dei terreni su cui piantare le tende. Nel 2019, come denuncia il corpo non violento di pace Operazione Colomba, il governo libanese ha attuato una politica di distruzione di migliaia di strutture abitative semipermanenti; infine, ha iniziato a deportare forzatamente migliaia di profughi verso la Siria, in violazione del principio di non respingimento. La situazione economica del paese, nel frattempo, precipita: il 9 marzo 2020 il governo libanese ha annunciato il default.
Per molti rifugiati vulnerabili, i cui bisogni specifici non possono essere soddisfatti nel paese in cui hanno cercato protezione, l’Unhcr prospetta come unica soluzione durevole il reinsediamento in un paese terzo; ciò garantisce ai rifugiati protezione fisica e legale e la prospettiva di un’integrazione permanente entro la società di quel paese. I paesi terzi, tra cui quelli europei, sono però estremamente riluttanti a mettere a disposizione quote significative di posti per il reinsediamento, che alleggerirebbero la pressione ai paesi elle regioni di origine. Preferiscono piuttosto contribuire finanziariamente alle attività dell’Unhcr che permettono ai profughi più in difficoltà di sopravvivere. Nel 2019, secondo l’Unhcr 1.4 milioni di rifugiati nel mondo avrebbero avuto urgente necessità di accedere ai programmi di reinsediamento; ne sono stati reinsediati solo 63.696, ossia il 4.5%.
Le condizioni precarie nelle regioni di origine spingono molti profughi a cercare protezione in stati terzi, come quelli europei, dove le possibilità di integrazione e di condurre una vita dignitosa sono incomparabilmente più alte. Tuttavia, i canali legali di immigrazione sono loro preclusi: l’unica strada percorribile è raggiungere l’Europa attraverso viaggi lunghi e pericolosi.
Le politiche europee: nessun accesso legale all’asilo
Dal 2013, un numero sempre crescente di rifugiati e migranti si è diretto verso l’Unione Europea per richiedere asilo, dando vita alla cosiddetta crisi europea dei rifugiati. Tale crisi, come sottolinea Den Heijer, è anzitutto una crisi politica: nel 2015 i migranti che hanno fatto ingresso nel territorio europeo rappresentavano lo 0.3% della popolazione comunitaria; le strategie dell’Unione si sono dimostrate incapaci di rispondere efficacemente all’arrivo in massa di richiedenti asilo in Grecia e Italia.
L’articolo 80 del Trattato sull’Unione Europea suggerisce che le politiche europee in materia di asilo e immigrazione debbano essere animate dal principio di solidarietà tra gli stati membri. Tuttavia, il Regolamento di Dublino perpetua una logica opposta: assegna ogni responsabilità nei confronti dei richiedenti asilo al primo paese europeo da essi raggiunto. Questo meccanismo è stato congegnato per mantenere aperte le frontiere interne dello Spazio Schengen, obiettivo cruciale delle politiche europee di asilo e immigrazione. I sistemi di asilo dei paesi situati alle frontiere esterne dell’Unione devono dunque far fronte ad un numero elevato di richieste di protezione. Ciò aumenta i tempi ed i costi delle procedure necessarie a distinguere i rifugiati, titolari del diritto all’asilo sancito dall’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dai migranti irregolari, i cosiddetti migranti economici. Per quanto riguarda questi ultimi, nel momento in cui la loro domanda di protezione viene respinta, le difficoltà di attuare rimpatri nei rispettivi paesi di origine su larga scala determina la loro permanenza nel territorio del paese di primo arrivo come irregolari.
Per evitare le problematiche connesse agli arrivi irregolari e alle richieste di asilo prive di fondamento, gli stati membri dell’Unione hanno adottato politiche che gestiscano o controllino i movimenti dei migranti prima che si presentino entro i confini comunitari: i governi hanno delineato misure di non-ingresso volte a contenere i flussi migratori verso il territorio europeo. Ciò ha reso molto più difficile arrivare in Europa indiscriminatamente a migranti irregolari e rifugiati, che in quanto tali avrebbero invece diritto ad accedere all’asilo. L’assenza di alcuna forma di verifica dello status di rifugiato e delle richieste di protezione internazionale da parte delle autorità competenti al di fuori del proprio territorio rende questa strategia in contrasto, seppur non aperto, col diritto internazionale ed europeo.
“Un individuo non diventa un rifugiato perché riconosciuto tale, ma è riconosciuto tale perché è un rifugiato”: lo status discende dalle sue condizioni personali, e non dall’attività di accertamento compiuta dalle autorità statali (Paulo Pinto de Albuquerque, giudice della Corte europea dei diritti umani)
I rifugiati non sono esentati dall’obbligo di possedere un visto per poter entrare legalmente in territorio comunitario; le persone in fuga dal proprio paese sono però quelle che hanno più difficoltà ad ottenere i documenti necessari dalle proprie autorità. Il Codice Frontiere Schengen contiene, in effetti, una specifica per cui l’assenza dei requisiti per l’ingresso non deve pregiudicare l’applicazione delle norme relative all’asilo e all’accesso alla protezione dei rifugiati. Tuttavia, questa disposizione finisce per applicarsi soltanto a coloro che abbiano già varcato -in modo irregolare- i confini comunitari.
Se una compagnia di trasporto privata conduce in territorio europeo una persona senza documenti e senza diritto di accedervi, incorre in pesanti sanzioni finanziarie; deve poi riportare a sue spese la persona in questione nel paese di provenienza. Queste sanzioni al trasportatore, stabilite nella Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen del 1990, inducono gli addetti delle compagnie di trasporto a controllare accuratamente la validità dei documenti di viaggio, senza porsi il problema di valutare le situazioni individuali degli aspiranti passeggeri – anche qualora fossero bisognosi di protezione internazionale. I rifugiati si imbattono quindi, di fatto, nei controlli al confine quando ancora vi sono distanti geograficamente, senza che vi sia un’autorità nazionale che verifichi il loro status.
Le misure che privano i rifugiati dei canali legali di immigrazione, lungi da risolvere la questione, finiscono paradossalmente per accentuare il fenomeno che le politiche di asilo si prefiggerebbero di combattere: l’immigrazione irregolare. Disposti a tutto per raggiungere l’Europa, i rifugiati si uniscono alle rotte migratorie irregolari, spesso affidandosi a trafficanti senza scrupoli. E’ a questo punto che subentra la principale misura di non ingresso: gli accordi con stati terzi.
L’accordo Italia-Libia
Per la sua posizione geografica, l’Italia è la prima meta europea per i migranti che seguono la rotta del Mediterraneo centrale, provenienti soprattutto dall’Africa sub-sahariana. Nel triennio 2014-2016 si è verificato un importante picco di sbarchi in Italia di richiedenti asilo provenienti dalla Libia: i numeri si attestano tra i 150 e i 180 mila sbarchi annui. Nel 2016, solo il 40,2% delle richieste di asilo sono state accolte. Dall’Europa, un’indicazione chiara: le regole del gioco sono quelle di Dublino, non è prevista alcuna redistribuzione tra stati membri; se l’immigrazione è ingestibile, va fatta diminuire.
E’ in questo contesto che il 2 febbraio 2017 l’allora Presidente del Consiglio Gentiloni sottoscrive, assieme al Presidente libico Serraj, il Memorandum d’Intesa Italia-Libia; l’accordo è finalizzato a contrastare l’immigrazione irregolare e ridurre il numero di arrivi in Italia. Vale la pena sottolineare come Gentiloni e Minniti, allora Ministro degli Esteri, siano due autorevoli esponenti del Partito Democratico; partito che, nel dibattito politico interno, si presenta favorevole all’accoglienza, in contrapposizione ai partiti anti-immigrazione irregolare. I termini dell’accordo sono molto semplici: l’Italia fornisce supporto finanziario alla Libia per la gestione dei centri di detenzione di migranti; fornisce inoltre supporto tecnico e logistico alla Guardia costiera libica, incaricata di impedire le partenze e di intercettare in mare i migranti diretti in Italia per riportarli in Libia. L’accordo, di durata triennale, è stato rinnovato automaticamente, senza discussione parlamentare, dal Governo Conte II il 2 febbraio 2020.
Un accordo simile, volto a ridurre gli arrivi in Europa, è la Dichiarazione UE-Turchia del 2016, con cui Erdogan si impegna a mantenere in Turchia milioni di profughi siriani in cambio di un cospicuo finanziamento di miliardi di euro. Questo accordo pone il manico del coltello nelle mani di Erdogan; è comunque molto meno problematico di quello con la Libia, paese attraversato da una guerra civile e che non può essere considerato, da nessun punto di vista, un paese terzo sicuro. I report di autorevoli ONG e dell’Unhcr denunciano chiaramente le condizioni inumane in cui versano i migranti intrappolati in Libia.
Complici di una violazione dei diritti umani
La Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU) pone importanti limiti legali all’espulsione di un richiedente asilo: la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha chiarito che nessun individuo può essere respinto verso un luogo in cui corre un rischio reale di essere sottoposto a trattamenti contrari all’articolo 2 CEDU, che garantisce il diritto alla vita, e all’articolo 3 CEDU, che vieta la tortura o trattamenti inumani o degradanti. È il già citato principio di non respingimento, che implica, tra l’altro, il dovere di ammettere entro il territorio nazionale un richiedente asilo almeno fino a quando la sua richiesta non sia stata esaminata.
Nel 2012, nella sentenza Hirsi contro Italia, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia, colpevole di aver riportato in Libia 24 cittadini somali ed eritrei intercettati in mare su un’imbarcazione battente bandiera italiana. Così facendo, infatti, li aveva esposti al rischio reale di subire trattamenti inumani in Libia, nonché di essere successivamente rinviati nei rispettivi paesi di origine; ha riscontrato infine che le autorità italiane non avevano provveduto in alcun modo ad esaminare le loro situazioni individuali, per verificare il loro diritto di ottenere asilo in Italia.
L’Italia fornisce dunque sostegno finanziario, mezzi, addestramento alle autorità libiche affinché facciano quello che un civilissimo paese europeo non può permettersi di fare. Questi elementi non sono sufficienti a farci risultare complici di una violazione dei diritti umani davanti ad un tribunale europeo o internazionale. Infatti, i diritti garantiti dalla CEDU vincolano gli stati membri esclusivamente nell’esercizio della propria giurisdizione, ovvero quando operano nel proprio territorio nazionale, o in mare aperto su una nave battente bandiera nazionale. Spostare altrove lo sguardo dai centri di detenzione libici è il modo più efficace per dimenticarsi di essere complici di fatto di simili violazioni; chissà se chiudere un occhio sulla questione sarà anche la strategia per assolverci al cospetto della Storia – se saremo noi a scriverla…