Alessandro Passerin D’Entrèves, filosofo, accademico, e storico del diritto italiano, allievo di Gioele Solari, e con lui il Bobbio e il Firpo, è certamente oggi studiato come uno dei grandi filosofi novecenteschi dello Stato.
Ma fu anche uno dei più convinti sostenitori della causa delle autonomie, nato a Torino ma proveniente dall’antica famiglia valostana dei Passerin d’Entrèves et Courmayeur, ed autore di alcune lucide testimonianze, scritte agli albori di una democrazia ancora fragile, della pericolosità di uno Stato neo centralista, e di una mentalità neo fascista.
LA SCELTA DEL 18 MAGGIO
Raccontare il rapporto fra Alessandro Passerin d’Entrèves e la Valle d’Aosta significa soprattutto riflettere sulle ragioni e le conseguenze di una scelta. Il 18 maggio 1945, anniversario della morte di Émile Chanoux, martire di Azione Cattolica nella Resistenza in Valle d’Aosta, mentre sulla piazza migliaia di manifestanti annessionisti si scontravano con il servizio d’ordine del Comitato di Liberazione Nazionale e dei soldati anglo-americani, un autoproclamatosi “Comité valdôtain de libération” aveva organizzato una manifestazione per l’annessione della Valle d’Aosta alla Francia e aveva chiesto ad Alessandro Passerin d’Entrèves, già Prefetto della Valle d’Aosta nominato dal CLN il 28 aprile 1945, che fosse consentito ai valdostani di esprimere, attraverso un plebiscito, la propria volontà riguardo l’appartenenza all’Italia o alla Francia.
Qualche primo contatto da parte di emissari francesi con i valdostani c’era stato nella primavera e nell’estate del ’44, ma la questione dell’annessionismo si pose in modo concreto solo nel settembre dello stesso anno, dopo il ritiro dei tedeschi al di qua delle Alpi e la liberazione della Savoia, quando diversi esponenti della Resistenza valdostani furono avvicinati da rappresentanti militari e politici dei servizi segreti francesi per cercare di comprendere cosa ne pensasse la popolazione in merito a un possibile «rattachement à la France». Nacque così la Mission Mont-Blanc con il compito di fomentare e sostenere il movimento annessionista valdostano.
Alcuni esponenti dell’antifascismo valdostano, provenienti soprattutto dall’area cattolica e dall’emigrazione valdostana in Francia, fortemente legati a un progetto di conservazione della lingua francese e delle tradizioni locali, accolsero con interesse l’iniziativa. Per gli esponenti filoitaliani della Resistenza fu invece l’occasione non solo per ribadire l’estraneità della Valle d’Aosta alla storia della Francia e la pericolosità politica ed economica di un’annessione alla «nazione più centralista d’Europa», ma anche per elaborare il progetto di una nuova collocazione istituzionale della Valle d’Aosta all’interno del nuovo Stato italiano che sarebbe sorto alla fine della guerra.
In quest’ultimo quadro si collocava il progetto di Federico Chabod, amico di Passerin, storico moderno e redattore, per la parte storica, dell’Enciclopedia Italiana, che il 16 settembre 1944 con il testo “La questione valdostana” delineava il progetto di una larga autonomia politica, economica e culturale della Valle all’interno dello Stato italiano.

Chabod, che a differenza di d’Entrèves aveva studiato ad Aosta nella sua giovinezza e aveva partecipato già in gioventù alla vita culturale e sociale della Valle, sentì nel profondo i problemi del “confine”, del nascere bilingue, dell’appartenere a due tradizioni diverse. Al tempo ad Aosta si parlavano ancora l’italiano e il francese indistintamente, ma con l’avvento del fascismo quest’ultimo venne eliminato dalla vita pubblica.
Sulla tematica “Nazionalità”, Chabod aveva posto la sua attenzione già a partire dal ciclo di lezioni del 1939, tenuto presso l’Università di Perugia, su “La coscienza nazionale italiana nell’età del Risorgimento”, in cui venivano affrontati i temi che costituiranno in seguito “L’idea di Europa” e “L’idea di Nazione”. Di particolare importanza e fama è quest’ultima opera, nata dalle lezioni del corso milanese dell’inverno del 1943-44, il più tragico per la storia recente di un’Italia che si trovava spaccata in due larve di governi: il re e Mussolini.
L’idea di Nazione secondo Chabod è piuttosto recente nella storia d’Europa e non può essere ridotta e ricondotta ai soli segni di contrasto fra i popoli, che sempre sono esistiti, ma deve ancorarsi alla coscienza piena della propria individualità, costituita da passato e presente, e dalla volontà di essere tale.
È dunque un’idea composta di due elementi: uno fisico e uno spirituale o morale (ravvisando l’origine di quest’ultimo non nell’epoca Romantica, e non in paesi dalla forte unità come Francia e Inghilterra, ma nella Svizzera, nel “sentimento montano” del particolarismo, dell’indipendenza).
A seconda del prevalere di uno dei due elementi si possono avere due idee di nazione: una volontaristica e una naturalistica (che Chabod rileva nelle idee germaniche dell’esaltazione del suolo, del sangue, della razza). Chabod era convinto che l’Italia, dopo l’esperienza fascista, potesse essere ancora Nazione solo rigettandone la concezione materiale. Le idee di nazionalità e libertà hanno la possibilità di unirsi in uno stretto nodo: la patria. Solo su quest’ultima, e non su quello che è “il suo figlio bastardo: il nazionalismo”, riposa la forza nazionale.
Nasce dunque dalla profonda convinzione che è il cuore e non il sangue a dover decidere lo spirito anti-annessionista di Chabod.
Alessandro Passerin d’Entrèves giunse in Valle d’Aosta, a Courmayeur, proprio nell’estate del ’44. Le tesi contenute nel suo contributo più importante alla causa dell’italianità della Valle d’Aosta, il “Promemoria sulla Valle d’Aosta”, assai vicine a quelle chabodiane, erano sostanzialmente tre.Innanzitutto non era mai esistito un movimento separatista in tutta la storia della Valle d’Aosta: i valdostani erano sempre stati italiani per storia, per geografia e per interessi. In secondo luogo l’Italia aveva certamente commesso gravi torti nei confronti delle tradizioni, dei costumi e delle libertà dei valdostani; bisognava però distinguere fra i torti degli italiani «de tous temps» e quelli commessi dai fascisti. Erano questi ultimi, infatti, ad aver distrutto «toute trace d’autonomie locale, ainsi que toute trace di liberté». Infine, l’Italia era caduta al punto più basso della sua storia, abbandonarla in questo momento sarebbe stato un tradimento.
Il 16 giugno la Mission Mont-Blanc abbandonò la Valle d’Aosta, seguita dagli esponenti più compromessi del movimento annessionista. Il 24 giugno tutti i reparti francesi avevano lasciato la Valle. Ma la memoria di quei giorni, soprattutto la decisione di non concedere il plebiscito, avrebbe continuato ad avvelenare la vita politica valdostana e a tormentare l’animo di Alessandro Passerin D’Entrèves. Fondò così nel giugno del ’45 «La Voix des Valdôtains», un periodico aperto ai più diversi contributi, volto a spiegare ai valdostani i vantaggi dell’autonomia, l’inopportunità e l’effetto controproducente del ricorso al plebiscito, la necessità per l’Italia e l’Europa di superare ogni concezione nazionalistica «contre les francophiles aussi bien que contre les italianisants».
Il 9 e 10 agosto il Consiglio dei ministri discusse e approvò i due decreti legislativi per la Valle d’Aosta concernenti l’ordinamento autonomo e le agevolazioni di ordine economico e tributario, che furono promulgati il 7 settembre da Umberto di Savoia. L’accoglienza ad Aosta non fu entusiasta per una novità ritenuta troppo timida rispetto alle aspettative di una piena autonomia.
Per ragioni differenti, durante il congresso del Partito liberale del settembre del ‘45, anche Benedetto Croce espresse forti riserve sul principio dell’autonomia quale andava configurandosi per Valle d’Aosta e Sicilia, accettandola come una necessità locale, ma deplorandone l’estensione ad altre zone d’Italia. In particolare la garanzia internazionale, di cui si era ipotizzato a proposito della Valle d’Aosta, avrebbe apportato «un contributo di umiliazione alla comune patria, la quale di umiliazioni ne sta soffrendo oggi anche troppe». Il 15 novembre 1945, su «La città libera», in un articolo in difesa delle autonomie, Passerin contrappose la sua concezione dello Stato, fondato sulle autonomie regionali e il principio del Self government, a quella di Benedetto Croce.
Dopo aver affermato che l’autonomia non era invocata da movimenti separatisti, ma da chi voleva continuare a restare fedele all’Italia e che la concessione dell’autonomia era un atto di coraggio e non di debolezza, Passerin sostenne che l’unità dello Stato non poteva ridursi a una coesione formale, imposta in maniera coatta. La vera unità doveva basarsi sul consenso e la partecipazione attiva dei cittadini. Occorreva distinguere due concezioni dello Stato: quella giacobina, alla Rousseau, che si ispirava al principio della Repubblica una e indivisibile, fondata sull’ugualitarismo ed il plebiscitismo, che non riconosceva tra il cittadino e la nazione nessuna realtà giuridica e politica intermedia e quella rappresentata da Montesquieu, Mallet du Pan e Tocqueville, che fondava l’organizzazione dello Stato sulle autonomie locali, intese come necessario contrappeso all’onnipotenza del governo centrale. I corpi intermedi erano una garanzia dalla tirannide, il decentramento lo strumento che permetteva l’attuazione dei principi liberali, consentendo alla gente, che non voleva essere governata bene quanto governarsi da sé, la partecipazione diretta alle piccole e alle grandi questioni della vita pubblica. O come amava ripetere: «la petite patrie fait mieux aimer la grande» , facendo una sintesi di quegli elementi che anche l’amico Gobetti porrà a fondamento della Rivoluzione Liberale: l’esperienza dell’autonomia, delle forze spontanee.
LA CONFERENZA DI PARIGI
Quando nell’agosto del ‘46 si aprì a Parigi la Conferenza di pace, venne consumato anche l’ultimo tentativo di coinvolgere direttamente Alessandro Passerin d’Entrèves nelle questioni politiche valdostane.
Chabod espresse ad Alcide De Gasperi il timore che i diplomatici italiani a Parigi fossero impreparati ad affrontare la questione valdostana e gli consigliò di inviare, «in forma privatissima», Alessandro Passerin D’Entrèves al seguito della delegazione italiana. De Gasperi accolse i suggerimenti di Chabod, il quale accennò la propria idea a Passerin il 18 luglio, in una breve conversazione a Courmayeur, dove questi era rientrato da Oxford per le vacanze estive. Passerin fu evasivo, chiese tempo per rifletterci e tre giorni dopo inviò a Chabod una lunga lettera per esprimergli i suoi dubbi. Dubbi di vario genere: dalla posizione ambigua in una missione quasi clandestina, all’essere ormai troppo all’oscuro su quanto era avvenuto in Valle. Ma soprattutto: «devo confessarti – ed a te soltanto lo posso e lo voglio fare – che a ripensarci bene, i timori dei valdostani di vedersi un giorno o l’altro ritogliere quanto fu loro concesso dall’Italia, non mi sembrano del tutto infondati. Ritornato in Italia dopo un’assenza di cinque mesi, sono stato esterrefatto dai progressi compiuti da una mentalità che non posso chiamare altro che neofascista. La massa dei nostri compatrioti non sembra aver appreso nulla dalla sventura. Il vecchio complesso nazionalimperialistico è più vivo che mai. Che cosa succederà dell’autonomia il giorno in cui De Gasperi ed i moderati non saranno più al potere?».
IL SIGNIFICATO DI AUTONOMIA
Passerin D’Entrèves tornerà più volte su quegli anni e su quelle scelte, su quella giornata del 18 maggio. I primi scritti sulla Valle d’Aosta coincisero con il ritorno a Torino, nel 1957, quando fu chiamato a occupare la cattedra di Dottrina dello Stato presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università piemontese. Ma fu con la morte di Federico Chabod, nel 1960, e con l’inizio, nel 1963, di una lunga collaborazione al quotidiano «La Stampa» che la Valle d’Aosta divenne uno dei temi ai quali si sarebbe volta, con maggior frequenza e più intensa passione, la sua attenzione.
A Chabod dedicherà anche la sua relazione all’annuale riunione dell’Institut de Philosophie politique tenutasi a Firenze il 2 e 3 luglio 1965, tornando a sottolineare le motivazioni profonde dell’opposizione al plebiscito e la concezione particolare dell’autonomia che aveva ispirato l’impegno politico dell’amico scomparso. Non l’autonomia intesa come privilegio per una singola regione, ma «un nuovo ordinamento interno per l’Italia […] un sistema di larghissimo decentramento amministrativo»; un’autonomia «non soltanto per la Valle d’Aosta, ma per tutte le regioni alloglotte di frontiera», in modo da trasformare «quelle strisce estreme dei territori statali» da focolai di irredentismo e pretesto per guerre e avventure nazionalistiche «in anelli di collegamento tra una nazione e l’altra, ponti di passaggio su cui si incontrino gli uomini dei vari paesi e imparino a smussare gli angoli, a lasciar cadere le differenze, a deporre la boria delle nazioni».
E ancora alla questione dell’autonomia tornerà in uno degli ultimi articoli, pubblicati su «La Stampa» nel febbraio del 1978, in occasione del trentennale dell’autonomia della Valle d’Aosta, che Passerin D’Entrèves definirà «una svolta storica», il capovolgimento di quel processo secolare che dagli albori dello Stato moderno aveva segnato un costante progressivo accentramento del potere politico e un conseguente livellamento di ogni particolarità, di ogni autonomia regionale. Era l’occasione non solo per ribadire, ancora una volta, le ragioni di una decisione presa in un momento storico non semplice, ma anche per riaffermare con forza un’idea di democrazia che non ha nulla a che spartire con il popolo in armi e con le piazze tumultuanti, che è fatta invece di regole rigorose e di procedure concordate: una democrazia che si deve esprimere “a bocce ferme”.
REGIONI A GEOMETRIA VARIABILE
D’Entrèves, uno dei più grandi interpreti dello Stato, previde con largo anticipo un fatto che oggi pare evidente: non è più pensabile uno Stato al centro di tutto in un contesto internazionale che lo ha declassato a singolo anello, seppur importante, della lunga catena del governo reale della società, del mercato, della finanza. Ed un potere centralizzato non è nemmeno strutturalmente in grado di avere l’autorevolezza di chiamare le autonomie territoriali alla corresponsabilità nel governare il paese, se con queste si sviluppa un’inconcludente dialettica fatta di imposizioni, commissariamenti, ostilità ed infine contrapposizione.
Il dibattito odierno su nuove forme di regionalismo improntate al principio di responsabilità, ad una grande chiarezza di assetti e modalità operative, a cui si connetta il potere sostitutivo dello Stato che ha titolo di intervento laddove la situazione sia vistosamente e reiteratamente deficitaria, e sull’idea di un “regionalismo a geometria variabile” come meccanismo di “checks and balances” volto alla salvaguardia della libertà dei cittadini dinnanzi alla sovranità statale centrale, trovano una lucida anticipazione negli scritti di D’Entrèves: nella messa in luce della necessità, tutt’oggi mancante, di una cultura dei soggetti intermedi, ed in quelle preoccupazioni contenute nella lettera inviata a Chabod, di un ritorno ad uno Stato autoreferenziale, ad un’idea di Stato-Sistema che tutto deve cogliere e che a tutto deve dare risposta.
Si è andati verso una moltiplicazione dei centri, anziché una riarticolazione dei poteri secondo i principi di adeguatezza, responsabilità ed efficienza. Si è disegnato un quadro federalista tutto concentrato sulla creazione di piccoli Stati centrali, senza farsi intaccare dall’idea che il federalismo abbia piuttosto il suo senso più profondo nell’accrescere il potere e la libertà dei governati.