Lo stavo aspettando, e quel momento è finalmente arrivato. Siamo sul palco del Festival di Sanremo 2022, è la seconda serata e, a condurre, per il terzo anno di fila, c’è Amadeus. La co-conduttrice («Valletta lo dici a tua sorella, hai capito o no?»), è Lorena Cesarini: 34 anni, attrice, nata a Dakar, cresciuta a Roma, fa notare come sia «la prima nera» a condurre da quel palco.
Dopo la presentazione iniziale, Lorena Cesarini recita un monologo sul razzismo. Ora, io vi parlo di monologo sul razzismo e voi giustamente pensate a Martin Luther King, a Nelson Mandela o a Rosa Parks, ma siamo nell’epoca dei cancelletti e questo passa il convento. Al centro del monologo ci sono tre insulti razzisti rivolti alla ragazza, presi da Twitter e scaraventati sul maxischermo dell’Ariston. La co-conduttrice li legge, li commenta, puntualizza a chi le dà della lavascale che «lavare le scale è un lavoro come tanti e non ha nulla di svilente» (ho molti amici che lavano le scale, #jesuislavascale).
Dopo aver affermato che lei le cose se le lascia scivolare addosso e che non è qui per farci una lezione, passa tutto il resto del tempo in cattedra, con un libro in mano, a stigmatizzare con risentimento quelle parole e a spiegarci, come farebbe una normalissima professoressa (mica una lavascale), che il razzismo non ha base scientifica e che esiste un solo genere umano.
I buoni vanno in visibilio, e tra un che brava, un che amara verità e un dannati retrogradi, corrono sui social a piazzare il cuoricino. D’altronde, proprio questo avevano bisogno di sentire: il razzismo è brutto brutto brutto ed essere contro il razzismo è bello bello bello. Sono abituato a questo tipo di scenario, non me ne stupisco: gli recitano dei libri educativi per bambini, quelli con le figure (questo colore si chiama verde, l’elefante ha la proboscide, le razze non esistono, siamo tutti uguali), e quelli si spellano le mani per applaudire.
Lorena Cesarini inizia il suo monologo asserendo che le hanno detto di essere lì solo perché è nera. Precisa che lei in realtà non si trova lì solo perché è nera, poi inizia a parlare per dieci minuti con l’obiettivo di farsi voler bene e compiangere proprio per il suo colore della pelle, confermando la tesi precedentemente smentita. Recitare la parte della vittima ti fa vincere sempre, in partenza. Lorena Cesarini è una ragazza con molte qualità, un’ottima attrice: avrebbe potuto mostrarci il vero motivo per cui è stata chiamata sul palco di Sanremo. Purtroppo oggi per avere successo non serve avere la stoffa, sfoggiare il proprio talento, basta mostrare un’etichetta e offendersi per qualcosa.
Intanto a casa il pubblico si divide, e il metodo Zan regna sovrano. Nello stesso modo in cui i contrari al disegno di legge contro l’omotransfobia venivano marchiati come omofobi e fascisti, ora chi si azzarda soltanto a fare un piccolo appunto all’esibizione di Cesarini è un lurido razzista. Le sfumature non esistono più, ce le siamo dimenticate. Il modo di ragionare è diventato binario: o sei a favore (e allora sei buono) oppure sei contro (e dunque cattivo, e razzista).
È proprio per questo motivo che quel monologo, quella dolenza, sono controproducenti. Perché dividono, spaccano la popolazione in due e armano le tifoserie. Funzionano per i cuoricini su Instagram, ma non tendono all’inclusione, bensì al suo contrario: formano una cerchia in cui tutti sono d’accordo ed escludono chi non la pensa come loro, radicalizzando ancor di più le opinioni. Queste persone sproloquiano dei razzisti che marcano le differenze tra noi e loro, ma fanno la stessa cosa dalla sponda opposta del fiume: trattare un nero come se fosse una specie protetta, da tutelare e da compatire, non è sempre marcare le differenze?
Poi, finalmente, la svolta: arriva Checco Zalone. Il comico pugliese è in grandissima forma e le sue performance sembrano quasi rispondere provocatoriamente al monologo di Lorena Cesarini, facendo emergere tutti i suoi paradossi. Nei tre sketch (che, se vi siete persi, vi consiglio di recuperare) Zalone, senza interpretare la parte del professore in cattedra, ci offre tre straordinarie lezioni.
La prima è che si può ridere di qualsiasi cosa e che il modo migliore per prendere in giro certi comportamenti è farlo con brillantezza, ribaltando il contesto, evidenziando le nostre più triviali ipocrisie. Certo, poi i soliti arringatori delle folle di buoni parleranno di patriarcato e di maschio bianco etero cis prevaricatore, ma solamente perché non lo avranno capito.
Con il brano «Poco ricco», pezzo di una genialità assoluta, Zalone ci dà la seconda lezione sbeffeggiando quest’epoca in cui più mostri le tue sofferenze e più hai successo, più ti mostri fragile e più accalappi cuoricini. Talento? Bravura? Ma suvvia!
Nel terzo sketch, Checco Zalone interpreta il virologo Oronzo Carrisi che parla di come la pandemia lo abbia rivitalizzato e gli abbia fatto salire i gradini della piramide sociale. Trasportando lo stesso concetto ad altri ambiti, è evidente come, anche per i capi-tribù dei buoni, sia fondamentale costruire un certo clima di opinione per alimentare una narrazione. Spesso facciamo notare come, a certi attori politici, faccia comodo avere sbarchi di migranti a profusione, per poter poi lanciare lo slogan dei porti chiusi. Dovremmo renderci conto, però, che la stessa cosa avviene dall’altra parte e che episodi di razzismo o di omofobia vengono strumentalizzati per creare un’identità.
L’attuale classe politica ha deciso di definirsi e di creare il proprio gruppo non in maniera propositiva, ma per contrasto, mostrando le diversità, tracciando una linea e dicendo «io non sono come loro». Per questo motivo tendono a escludere, a mettere in risalto le differenze: perché altrimenti affiorerebbe tutta la loro inconsistenza intellettuale.
All’inizio di questo pezzo citavo Martin Luther King. Sono andato a rileggermi il suo celeberrimo discorso, «I have a dream». A un certo punto, verso la fine, King dichiara «Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere». Desiderava che il colore della pelle non contasse, non che contasse in quanto nero.