Due giorni fa, il settantunesimo Festival di Sanremo si è concluso con la vittoria dei Måneskin, la rock band romana classificatasi seconda a X Factor nel 2017.
Chi, oltre a loro, ha saputo distinguersi al Festival? Quale gruppo ha portato la canzone più interessante? E quale artista invece ha spinto il pubblico da casa a mutare la televisione?
Ho provato a rispondere a queste domande selezionando dieci concorrenti, cinque che hanno saputo colpirmi molto in positivo e cinque che invece hanno messo a dura prova il mio apparato uditivo.
LE NOTE POSITIVE
Colapesce e Dimartino – “Musica Leggerissima“
Il brano dei due cantautori siciliani, classificatosi a ridosso del podio, è stato una delle sorprese più piacevoli del festival: leggero (“anzi, leggerissima“), spensierato e dannatamente catchy. L’ammiccamento alle tanto care sonorità anni ’80 dà alla canzoncina un tocco appena nostalgico, evitando di cadere rovinosamente nel burrone del “già sentito”. Insomma, una medicina ottimale per chi vuole dimenticarsi anche solo per pochi minuti della soffocante situazione che siamo costretti ad affrontare da un anno a questa parte.
Madame – “Voce“
Pur avendo solo 19 anni, la ragazza ci sa fare. La vittoria del premio “Sergio Bardotti” per il Miglior testo non è un caso: “Voce” mette in scena il rapporto ambivalente tra la giovane e la propria voce (“Voglio rimanga negli anni con me/Fumo per sbarazzarmi di lei, ma torna da me“) in maniera chiara (al netto dei problemi acustici avuti in un paio di serate) e interessante, grazie alla distintiva penna della giovane e ad una produzione coi fiocchi di Dardust. L’ottavo posto le rende tutto sommato giustizia, e fa presagire bene per un suo (eventuale) ritorno l’anno prossimo.
La Rappresentante di Lista – “Amare“
“Amare” è una canzone che non mi ha convinto subito. Ho fatto presto, però, a capire che fosse uno di quei pezzi che crescono di ascolto in ascolto. Buona parte del merito va alla voce della cantante Veronica Lucchesi, che si muove a meraviglia prima sulle note di un dolce pianoforte, poi sulla detonante tempesta di archi che infuoca l’accesissimo ritornello. Insomma, per quanto sia solo l’ultimo degli episodi d’amore visti per tutto l’arco della competizione, “Amare” ha il pregio di fare della propria “semplicità” il suo cavallo di battaglia, a differenza di altri casi ben più pretenziosi.
Irama – “La genesi del tuo colore“
Irama è riuscito ad arrivare quinto esibendosi esclusivamente per mezzo di una registrazione. Forse avrebbe meritato di più, forse no; sta di fatto che “La genesi del tuo colore” è un pezzo maledettamente ben riuscito, soprattutto nella struttura. Il ritornello, cantato da una voce metallica che si impianta istantaneamente nella mente dell’ascoltatore, anticipa una coloratissima esplosione di archi e suoni elettronici, in un connubio atipico di grandissimo impatto. Alla fine, perciò, il rammarico per non aver potuto vedere l’artista cimentarsi davvero sul palco è ancora più grande.
Måneskin – “Zitti e buoni“
Sarò onesto: non sono esattamente il primo ammiratore dei vincitori di quest’ultima edizione. La loro musica non ha mai saputo catturarmi appieno, forse perché non hanno ancora osato abbastanza (il tempo e l’età, fortunatamente, sono dalla loro parte). Tuttavia, in quanto a energia, al festival non hanno avuto alcun rivale. La band si è letteralmente mangiata il palcoscenico, portando una canzone pop-rock classico ma funzionalissimo al suo scopo: fomentare. Per quanto mi riguarda, il trionfo è più che meritato.
LE NOTE STONATE
Random – “Torno a te“
A differenza di Fasma, lui canta senz’alcuna correzione tecnologica, e sfortunatamente per lui (e per il pubblico da casa) si sente. Il pezzo – una ballata che suona più come una sofferenza perpetua e senza fine – non fa altro che enfatizzare ulteriormente il continuo stonare del ragazzo, che conclude il festival all’ultimo posto della classifica generale.
Aiello – “Ora“
Raramente ho sentito qualcosa di così terrificante. La canzone, musicalmente parlando, è il nulla più assoluto, mentre il testo è un centrifugato di imbarazzo e banalità. L’autore non sa cantare, e come se non bastasse gira il coltello nella piaga inscenando delle interpretazioni fastidiosamente altezzose. L’unico motivo per cui questo triste capitolo sanremiano verrà ricordato (per poco, si spera) è il meme istantaneo “sesso ibuprofene”. E questo la dice lunga.
Gio Evan – “Arnica“
L’obiettivo di Gio Evan, probabilmente, era scrivere qualcosa in cui molti ci si potessero riconoscere. E Il testo, colmo di fotogrammi nostalgici piuttosto comuni, non è neanche male. Il problema di “Arnica” è tutto il resto. Il brano non cattura mai davvero l’attenzione, né con le strofe né tantomeno col ritornello, e finisce per crollare sul finale, quando il canto dell’autore si trasforma in un lamento fine a sé stesso.
Francesco Renga – “Quando trovo te“
Non me ne voglia Francesco Renga, ma “Quando trovo te” è un pezzo davvero brutto. Ciò stupisce, perché da uno come Renga in pochi – forse – si aspettavano una caduta simile. Eppure, il componimento è insipido, scontato e anonimo, con un ritornello sgradevolmente ridondante. Aggiungiamoci poi qualche sbavatura del cantante durante le esecuzioni e il gioco è fatto. Il colpo di grazia, però, lo danno gli errori tecnici al microfono durante la penultima serata, quando questi costringono Renga a cantare due volte di fila. Sicuramente evitabile, per quanto doveroso.
Fasma – “Parlami“
Rispetto ai quattro artisti precedenti, lui è stato sicuramente il meno peggio. Più che la canzone in sé (nulla che non ci si possa aspettare da lui, c’è stato di molto peggio), è l’esecuzione a imbrigliarlo: nella prima serata si mangia qualche parola (una piccolezza dovuta palesemente all’emozione), ma soprattutto nasconde le proprie lacune canore dietro un autotune spesso troppo invadente. Rimandato, sicuramente, ma non bocciato del tutto.