Ogni volta che la morte allunga l’ombra su un circuito, ci si ritrova a dire le stesse cose, a provare le stesse sensazioni: comunque senza smettere mai di correre e amare le corse.
Il weekend motociclistico del Mugello, che prometteva festa e ritorno alla normalità nonostante l’assenza di pubblico, è stato scosso dall’incidente di Jason Dupasquier sul finire delle qualifiche della Moto3. Trasportato in ospedale in elicottero, il pilota è morto un giorno più tardi, a pochi minuti dalla partenza della Moto2, riaprendo la solita, vecchia ferita di questo mondo.
Come una cicatrice che non va via e ciclicamente brucia, fa male. La morte è scesa di nuovo su una pista, stavolta del Motomondiale, là dove in questo momento nemmeno il pubblico può, prendendosi la vita di un 19enne di Bulle. Il lato oscuro dei motori che, con la banale casualità intrinseca nel destino, torna a ogni tanto a ricordarci che è parte integrante di quel mondo, componente inossidabile, kryptonite a quelli che ad ogni bandiera a scacchi sembrano dei supereroi. Fa parte della narrazione, del contesto: è un non detto che deve restare tale per non far paura, ma che è l’essenza stessa della cosa, uno dei motivi del fascino che lo rende speciale, nel contorto gioco dell’attrazione. Ma è anche epilogo che ogni qual volta che si para brutalmente davanti alla carriera di qualcuno, riapre soliti valzer, gli ormai conosciuti irrisolti che sembrano destinati a rimanere tali.
NON DOVEVA SUCCEDERE
Il primo, quello che balena nella testa di tutti: l’ineluttabilità. Si poteva evitare, si doveva farlo? Una domanda la cui risposta è resa più leggera da anni passati a fare davvero un passo verso la sicurezza. Probabilmente no. Probabilmente fa parte di quello che in tanti chiamano “destino”. Come sa chiunque indossi un casco per affrontare la strada ogni giorno, a volte non c’è guscio, non c’è accortezza, non c’è airbag, protezione o innovazione tecnologica che possa salvarti la vita. Senza smettere di prenderle, senza smettere di dotarne chi ne fa un mestiere come Jason, a volte semplicemente non basta. Come non basta la sicurezza della casa: quella pista che è il fiore all’occhiello in Italia e che certo non è famosa per la sua pericolosità: una curva cieca, qualcosa di comprensibile: un quid di difficoltà in un mondo che certe cose non potrà mai limarle senza perdere di senso.
Qualcuno ha parlato di Superpole, ha prontamente sfruttato il triste episodio solo per urlare di aver ragione quando proponeva qualifiche in solitaria, cambi di format, stravolgimenti, perché dall’altro di una tastiera aveva già previsto tutto. Moto piccole e veloci, tendenti sempre più a correre in gruppo, a cercare di sfruttare le scie fin dalle libere del venerdì. Una vicinanza che ovviamente aumenta lo spettacolo ma anche il rischio. Un rischio naturale, però, per queste gare. Succede spesso e in tante categorie, il problema si riproporrebbe in gara – e qui è facile far andare il pensiero a Tomizawa o Simoncelli, per citare gli esempi più vicini -, forse con ancora meno prontezza ad evitarlo. Come sempre il dolore del lutto rende ancora più complicato confrontarsi con l’amara verità che a volte, fare tutto il possibile, può non bastare.
NON SI DOVEVA CORRERE
A causare la morte del giovane pilota elvetico è stato il passaggio sul suo casco, sulla sua testa, della KTM del collega Ayumu Sasaki. Un dubbio, a causa della visuale ostruita dall’altra KTM già per terra di Dupasquier, fugato subito in un paio di replay. Un magone che subito si è installato nel petto o nella gola di chi ama questo mondo. Dentro, la cieca speranza dell’aggrapparsi a un miracolo, cercando di soffocare la razionalità di chi incidenti così ne ha purtroppo visto più d’uno. In molti si aspettavano l’epilogo del giorno dopo, quasi tutti in cuor proprio hanno saputo interpretare le mezze notizie che filtravano nelle ore successiva all’incidente. Mentre la stessa categoria riaccendeva i motori e sfrecciava per la gara. Mentre stava per farlo anche la Moto2 e gli unici, in tutto il mondo, a non sapere di aver perso uno del gruppo, erano proprio i 22 ragazzi già in sella ai propri destrieri, ad una manciata di minuti dallo spegnimento dei semafori.
Una crudeltà nella crudeltà. Di saperlo dopo, di festeggiare e poi sentirsi sporchi, spenti, nel giro di un amen. Mentre il mondo già dibatteva e si scornava, con poco rispetto ma tanto calore, sul se si dovesse correre. The show must go on, la litania che vien fuori sempre in questi casi, così come l’ancor più retorico e falso: “Lui avrebbe voluto che si corresse”. Non si sa, non lo sa nessuno: in un mondo così, nessuno forse se lo chiede mai e fa bene. E dopo quella c’è ancora un’altra gara, quella più importante, quella che fa girare più soldi. Il motivo, secondo molti, per cui si prosegue: ci sono diritti tv venduti, sponsor e contratti da rispettare, senza badare a sciocchezze come la morte. I soldi, lo spettacolo, il prodotto: tutto diventa più importante di qualcosa che ormai è accaduto e non ci si può far niente.
È una questione di rispetto, di umanità. Soprattutto di occasione. E si perde sempre l’occasione di chiedere ai piloti, di chiedere prima, di sapere l’opinione degli altri Dupasquier, di quelli che continuano a rischiare la vita, come poteva succedere a Marc Marquez pochi minuti dopo, fortunatamente e prontamente evitato da Morbidelli. Le voci arrivano sempre dopo, è la regola di questo mondo. Ma altrettanto di regola vengono ignorate. Così che al Mugello l’unico a non salire in moto per scelta è Tom Lüthi in Moto2, amico del padre di Jason, motociclista anche lui, e testimone della vita del ragazzo fin dai primi passi. E ovviamente Ryusei Yamanaka, che con Jason condivideva il box della PrüstelGP. Qualcun altro l’avrebbe voluto fare – Petrucci e Bagnaia tra quelli che lo hanno fatto sapere – ma non gli è stato concesso.
C’è chi ha sofferto il saperlo prima, chi avrebbe preferito non saperlo come i piloti della Moto3 e Moto2, un lusso impossibile nel mondo iperconnesso in cui viviamo. C’è chi ha sofferto troppo quel minuto di silenzio, tutti in riga davanti ai meccanici di Jason, a Rysuei in lacrime, chino sulla moto di Jason. Ma c’è anche chi aveva bisogno di tornare a correre. Chi deve esorcizzare per paura che tutto questo diventi troppo reale, troppo forte, troppo presente tra i pensieri e l’imbottitura del casco. Correre per dimenticarsi il prezzo da pagare per farlo, Dare gas per provare a mettere gap nei confronti dell’ombra che si allunga. Un esercizio di spirito costante e controintuitivo, forse, ma sicuramente necessario. Non razionale come la passione, come l’amore.
FACENDO QUEL CHE AMAVA
Le polemiche, le discussioni, i discorsi e le prese di posizioni forti, adesso, se le porterà via il tempo. Fino alla prossima volta. Che tutti ci auguriamo che non ci sarà ma che tutti sappiamo che inevitabilmente si riproporrà. Dobbiamo saperlo e dobbiamo costantemente dimenticarlo, in un gioco di auto-incoerenza che è vitale. Quando succederà si ricomincerà da capo, come se non avessimo imparato niente. O forse, come se avessimo imparato che questo, anche tutto questo, fa parte dell’elaborazione del lutto. Ci serve a non sentire il dolore sordo, secco, fortissimo, che sentiamo da qualche parte dentro di noi. Totalizzante. La puntina che fa sanguinare il dito e per un attimo annebbia la mente, scostandola dalle altre sofferenze.
Jason se n’è andato facendo quello che amava. Lo diceva lui, stando a mamma Andrea, in una famiglia che ormai ci aveva fatto il callo, visto che correva papà Philippe e lo fa suo fratello Brian. Fa parte anche quello della retorica del caso, dei tentativi di far valere di meno il peso di un dolore insostenibile per chi resta. Non basta nemmeno da lontano, a distanza, a farsela passare, a far finta che così sia accettabile. Che è meglio di altro. Perché non è vero e basta. Per chi ama la stessa disciplina. Non basta a chi piange un figlio a cui non avrebbe mai voluto sopravvivere. Niente basterà mai, niente cancella.