bundestag in Berlin
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Ma a Berlino che giorno è?

Le imminenti elezioni federali tedesche rappresentano un cruciale appuntamento con la storia. Destinato, qualunque sia l’esito delle urne, a segnare una svolta. La posta in gioco? Le sorti dell’Unione Europea. E quelle dell’Occidente.

Ho recentemente avuto l’occasione di visitare le prime tre città tedesche per numero di abitanti: Berlino, Amburgo e Monaco di Baviera. In vista delle elezioni federali tedesche calendarizzate per il 26 settembre, ho tratto in quest’articolo una serie di considerazioni. Questo scritto non vuol essere né un reportage né una dissertazione tecnica sugli orientamenti elettorali dei tedeschi, ma un affresco politico affacciato su di un Paese di cui mi sono perdutamente innamorato già tanti anni fa, al punto tale da definirlo “mia seconda Heimat” (casa o, idealmente, patria). La mia promessa è di provare non a magnificarvi la ricchezza, le prodezze e l’esemplarità politica di una Germania di facciata, ma a raccontarvi cosa potrebbe rappresentare e implicare la prossima tornata elettorale per la vita politica, sociale e culturale della cittadinanza tedesca ed europea. Buona lettura.

Agli occhi di molti italiani, complici i racconti un po’ campanilisti costruiti da molti media nostrani dopo la grande crisi del 2008, la Germania è spesso apparsa come un miraggio, ovverosia come una realtà in cui, se l’esistenza fosse solo un percorso a tappe di formazione, benessere economico e opportunità professionali, moltissimi sognerebbero di vivere. Distorcendo la realtà per mero lucro elettorale, molti sovranisti della prima ora, di destra “à la Salvini” o di sinistra “à la Mélénchon”, accusano da anni la Bundesrepublik di ingerenza negli assetti europei: la sola parola “Berlino” risulta loro un po’ indigesta, in ragione di quella favola bella che vedrebbe nella Capitale riunificata il quartier generale dell’Europa meschina, dei mercati e dei banchieri. In altre parole, un potentato europeo – naturalmente germanocentrico – che tramerebbe contro i popoli sovrani e progetterebbe di erodere le identità nazionali per conto della grande finanza. Simili narrazioni sono poi state l’incubatore delle strambe teorie cospirazioniste sugli “interessi tedeschi” (si pensi solo al caso BioNTech) sbandierate da anni dagli scherani populisti nel nome della causa euroscettica.

“Miracolo tedesco”?

Ora, intendiamoci: che in Germania le condizioni di vita della popolazione siano mediamente molto buone, è un dato appurato. Gli indicatori economici tedeschi – benché prevedibilmente fiaccati, in tempi recenti, dalle ripercussioni della pandemia – costituiscono in questo senso un’efficace testimonianza del grado di sviluppo socio-economico del Paese, a cominciare dal primato europeo nel settore manifatturiero e da un debito pubblico generalmente contenuto. Programmi di welfare efficienti e sostanziosi, un tessuto industriale rigoglioso e promettente, oltre ad un ruolo tutt’altro che secondario nello scacchiere geopolitico europeo e in quello atlantico suffragano poi ulteriormente la narrazione corrente che individua nella Germania la “locomotiva d’Europa”. Fatti che confermano il successo della soziale Marktwirtschaft, economia sociale di mercato, varata nella moderna accezione dai governi occidentali di Konrad Adenauer: volendo citare un apprezzato esempio di sua applicazione, viene in mente l’assenza di tasse universitarie negli atenei statali, soggetta solo a sporadiche eccezioni regionali. Tuttavia, la storia tedesca, necessaria per analizzare gli assetti pre-elettorali, ci restituisce un’immagine che stride, almeno parzialmente, con quella di un’utopica Nazione perfetta, unita, uniforme e in pace con sé stessa.

Non basterebbero comunque decine di articoli per ricostruire il complesso itinerario politico d’integrazione che ha disegnato l’odierna Repubblica federale tedesca, sopravvissuta a due colpevoli sconfitte belliche, alla dittatura più feroce e criminale della storia, a una spaccatura trasversale e forzosa affidata al cemento (quella notte d’agosto 1961 in cui “a Berlino divisero il Cielo”, ha scritto Ezio Mauro su Repubblica).

Arrivederci, Frau Merkel

Il lascito di una “Cancelliera del buon ricordo”

Questo preambolo, con cui spero di non aver tediato i lettori, circostanzia dunque il tema della nostra cronaca: l’appuntamento elettorale del 26 settembre prossimo, con cui i tedeschi decreteranno la nuova composizione del Bundestag, il loro Parlamento, e anche il partito deputato a esprimere il nuovo Cancelliere. La posta in gioco delle imminenti elezioni federali costituisce una fattispecie politica cruciale non solo per i cittadini tedeschi, ma per l’intera popolazione europea, proprio in ragione della rilevante incidenza del Paese sugli assetti europei. Gli elettori si preparano infatti a prender parte a un’elezione in cui saluteranno, dopo 16 anni, l’ultima grande statista che abbia segnato la loro storia: Angela Merkel, la Cancelliera dei record, o – come molti suoi sostenitori l’hanno ribattezzata – la Mutti (mamma) di tutti i suoi concittadini. Una personalità politica che già presenzia su tutti i libri di storia, destinata a entrare anche nel cuore di chi non l’ha mai sostenuta né apprezzata.

“Un modello per tutte le donne”

Entrato in un’edicola in una stazione della metro di Berlino, non ho potuto non notare le nostalgiche copertine di congedo dedicate al lascito della Cancelliera: Die Zeit, decano dei settimanali liberali, l’ha definita “un modello per tutte le donne”, mentre il magazine conservatore Focus l’ha salutata tributandole una tavola rotonda di commenti sul suo lascito storico, politico e culturale, ove ha ospitato suoi eterni rivali e suoi sostenitori. Dall’avversione agli eurobond fino alla gestione della crisi dei profughi, dal cambio di rotta sull’austerità fino alla pandemia: due portrait a tutto tondo di quanto lascia Angela Merkel all’UE e alla Germania.

"Merkel, un modello per tutte le donne"
Copertina di DIE ZEIT 32/2021 – UNA SIGNORA LASCIA: “Da sola fra molti uomini potenti, Angela Merkel è un modello per tutte le donne”
Foto di Michele Ceci

Ciononostante, oltre le comprensibili malinconie, ci sono le urne. C’è l’eterna rivalità fra i partiti che si consuma quotidianamente. La grande credibilità e l’indiscussa caratura politica della scienziata venuta dalla DDR, che potrebbero trovare dei precedenti femminili solo nella più divisiva Margaret Thatcher, non sono più nel mazzo di carte della gloriosa casa cui sempre l’eterna Bundeskanzlerin è rimasta legata, l’Unione Cristiano-Democratica (CDU-CSU), arrivando a battere per longevità del cancellierato finanche l’uomo che la tenne politicamente a battesimo, l’architetto della Riunificazione Helmut Kohl.

Bicameralismo federale e centralità delle alleanze: il segreto della stabilità

Oltre ad una base elettorale estesasi ben al di là delle frontiere cristiane e conservatrici negli anni della sua leadership, il segreto della stabilità dei quattro governi di Angela Merkel è rintracciabile sicuramente in una grande apertura ai partiti avversari, con la doverosa eccezione di quelli prossimi a posizioni estremiste. La ricetta della Große Koalition tra CDU e SPD, che pure non era forse il migliore tributo alla memoria del conservatore Adenauer, si è rivelata in grado di rispondere perfettamente alle esigenze della legge elettorale tedesca. Il sistema non ha infatti mai rinnegato il suo impianto proporzionale, corretto da una soglia di sbarramento del 5 % e dalla presenza di una “doppia” scheda elettorale: una per i partiti e una per i candidati dei collegi uninominali. Un’altra differenza rilevante rispetto ad altri sistemi elettorali europei sta in un bicameralismo influenzato fortemente dagli assetti della Repubblica federale: se il Bundestag (prima camera) viene rinnovato a elezione diretta, i membri del Bundesrat, camera di rappresentanza nazionale dei governi regionali, provengono infatti dalle amministrazioni dei 16 Stati federati.

L’incidenza della stampa scandalistica

Durante la mia permanenza in Germania, la campagna elettorale era già entrata nel vivo da alcuni mesi. Centrali nel dibattito sono stati fino ad oggi la questione fiscale, argomento estremamente polarizzante tra i partiti, ma anche le politiche ambientali, la riforma del sistema previdenziale e la gestione della pandemia promossa dai partiti di governo uscenti (CDU e SPD). Proprio le strategie adottate per fronteggiare la diffusione del virus hanno frammentato significativamente l’opinione pubblica tedesca.

Un esempio lampante arriva dal quotidiano Bild, tabloid scandalistico da 2 milioni di copie al giorno, che ha mosso aspre critiche alle misure emanate dall’ultimo governo Merkel nell’ambito della lotta alla pandemia. Per una testata che percepisce il feeling dell’elettorato di centro-destra anche meglio dei partiti d’ordinanza poco conta la scelta – forse un po’ superficiale– di ridurre la storia di buongoverno di Angela Merkel all’anno del Covid-19. La stragrande maggioranza dei lettori del tabloid, di fatti, appartiene al bacino elettorale dell’Unione.

Non a caso, il malcapitato Armin Laschet, nuovo candidato democristiano alla Cancelleria, si è visto costretto a promettere, in un confronto con la web tv di Bild, un impegno contro ogni futura restrizione anti-Covid. Per i vertici del partito, che al governo hanno promosso una linea di centralità assoluta dei dati sanitari a nocumento di quelli economici, questa promessa solenne ha un suono ancora un po’ ossimorico. A discolpa di Laschet, va sottolineato però come il tabloid della casa editrice Springer non sia nuovo a campagne “cerchiobottiste” di giornalismo d’assalto: nei giorni in cui scrivo, è impegnato infatti a dare battaglia contro il caro prezzi sulla benzina e il disincentivo all’acquisto di automobili a motore termico, di cui ha accusato, in un sol colpo, il governo, Angela Merkel e i Verdi.   

Merkel, un addio dalle conseguenze amare

La crisi d’identità dei cristiano-democratici non dipende però, se non in risibile misura, dalle esternazioni della stampa “boulevard” sulla loro strategia di governo: cominciano infatti dal loro candidato. Leader della CDU da gennaio 2021 e governatore della Renania Settentrionale-Vestfalia, dunque membro del Bundesrat, Armin Laschet è ritenuto essere il discendente politico di Angela Merkel. Fervente fedelissimo della linea centrista perseguita della Cancelliera, è stato decretato candidato al prezzo di convulsi travagli ai piani alti del partito che fu di Adenauer. Laschet è sicuramente un onesto politico di professione, disposto a spendersi, ma non ha saputo finora condurre una campagna elettorale particolarmente fortunata: a costargli care sono state soprattutto le gaffes, tra cui un’evitabile risata alle spalle del Presidente della Repubblica Steinmeier nelle ore calde delle alluvioni di luglio abbattutesi sulla sua Regione. Le accuse di aver copiato porzioni del suo libro biografico, oltre ad uno scandalo su forniture illecite di mascherine che ha travolto due deputati della CDU, non hanno fatto che esacerbare una situazione già tutt’altro che edificante.

Angela Merkel
Angela Merkel in Estonia, 2017. Photo by Arno Mikkor from Flickr

Grandi maestri, cattivi scolari e falchi rigoristi

Prezioso per le sorti del partito potrebbe risultare l’apporto elettorale dell’ex arcirivale di Laschet alla leadership del partito, l’avvocato Friedrich Merz, storico rappresentante della fazione più marcatamente liberista e conservatrice dell’Unione. Popolare punto di riferimento degli elettori più benestanti della CDU, Merz non ha mai fatto mistero di non simpatizzare troppo per il Merkel-pensiero e la sua matrice cristiano-sociale, pur avendo svolto anche ruoli di consulente nei governi della Bundeskanzlerin. L’avvocato correrà da capolista nel collegio dell’Hochsauerland, ma Laschet ha recentemente fatto sapere che, qualora l’Unione dovesse risultare ancora al primo posto, sarebbe pronto a riservare per lui una posizione di rilievo, forse addirittura quella di Ministro delle Finanze. E già, in chi segue le dinamiche tedesche, riemerge il ricordo dell’ex responsabile del bilancio pubblico Wolfgang Schaeuble, molto stimato da Merz, ma temutissimo per l’inflessibilità con cui si mosse nei rapporti con i Paesi europei più indebitati. Espressioni quali “tirare il freno al debito” non potrebbero essere, in questo senso, più eloquenti.

Malgrado l’ottimismo di Laschet, le rilevazioni dei sondaggi non potrebbero essere più cupe per la CDU: i crolli meno indolori preconizzano perdite di 10 punti percentuali di consenso rispetto agli esiti, già non brillanti, delle elezioni del 2017 (in cui i democristiani catalizzarono un insoddisfacente 32,9 % dei voti). Certo, resta l’ottimistica speranza nelle roccaforti: in Baviera risulterà fondamentale il lavoro del Ministro Presidente Markus Söder, cattolicissimo capo della CSU (Unione Cristiano-Sociale), frazione meridionale dell’Unione.  Molti si sono anche domandati come mai lo stesso Söder non sia stato battezzato quale candidato alla Cancelleria: dai corridoi della Konrad Adenauer Haus motivano questa decisione, senza troppe esitazioni, ricorrendo alle frizioni interne tra CDU e CSU. Anche sotto il profilo programmatico l’Unione risente del periodo infelice che sta attraversando: la loro agenda mescola elementi di conservazione (tra cui il mantenimento del sistema sanitario attualmente in funzione), promesse di stampo liberale (nessun aumento delle imposte e meno divieti per l’iniziativa privata in materia di politica abitativa nelle città) e passi indietro su scelte divisive attuate in precedenza (Wilkommenspolitik).

Nei grandi centri metropolitani, anche in quelli più “identitari” o confessionalmente orientati, problematica risulta per l’Unione la concorrenza dei Verdi. La CDU di oggi, in altre parole, potrebbe infatti essere definita come una fucina di grandi maestri e cattivi scolari: tra i suoi padri annovera statisti di fama internazionale, attori dal ruolo fondamentale nella ridefinizione degli assetti nella Germania post-bellica. Gli esempi di Adenauer e Kohl ricorrono già di frequente, ma la storia recente ci consente di porre nell’olimpo anche l’uscente Bundeskanzlerin. A prescindere dal ruolo che avrà l’Unione negli scenari post-elettorali, certamente queste urne non saranno contraddistinte da una delle sue performance più efficaci. Se anche dovesse mancare il sorpasso della SPD, cosa altamente improbabile stando agli ultimi sondaggi, per i democristiani resterebbe comunque preminente, infatti, la ricerca di alcuni partner di governo.

TRAGUARDO ALLE PORTE PER SPD

Olaf Scholz, candidato SPD. Photo by Dirk Vorderstrasse from Flickr

Proprio la dirigenza della SPD, uno dei cavalli di razza socialdemocratici più antichi d’Europa, s’illumina d’immenso contemplando per la prima volta la possibile realizzazione di un sogno che non si avverava concretamente da quasi vent’anni: il superamento dell’Unione nelle urne. Protagonista della resurrezione socialdemocratica potrebbe essere Olaf Scholz, attuale ministro delle Finanze e vicecancelliere nell’ultimo governo della Große Koalition nonché odierno candidato alla Cancelleria. Di molti indimenticati leader socialdemocratici, da Willy Brandt a Gerhard Schroeder, a Scholz mancano forse il carisma e l’ironia. Tuttavia, è difficile rimproverargli errori strategici che non lambiscano la sfera delle ideologie: da ministro si è impegnato per promuovere una politica economica interna molto sostenuta (per citare un esempio, i “ristori” per le attività chiuse sono stati stanziati cospicuamente e senza ritardi) e favorire buoni rapporti tra i Paesi dell’UE, osteggiando fermamente le condizionalità chieste dall’Olanda su Mes e Recovery Fund. Per il resto, alla domanda di un giornalista della RTL sul perché Laschet non dovrebbe diventare Cancelliere, Scholz ha risposto chiosando secco: “Se rispondessi a questa domanda, abbraccerei un pessimo stile”, dando prova di una sportività politica di cui chi scrive non ricorda esempi più alti. I “navigati” della politica tedesca sostengono che il candidato della SPD stia cercando di imprimere un tratto “merkeliano”, pragmatico e confidenziale, al suo approccio agli elettori, nel tentativo di riportare verso le acque socialdemocratiche l’elettorato centrista cittadino e quello di ascendenze turche, due bacini avvicinatisi sempre di più alla CDU negli anni di Angela Merkel. Scholz sa bene quali siano state le ripercussioni sull’identità del partito della convivenza, a tratti subalterna, con i cristiano-democratici e con una figura del calibro della Cancelliera uscente.

Anatomia della dottrina Scholz

Per riemergere da un oblio ventennale, consumatosi peraltro in una fase poco fortunata per l’intera galassia soc-dem europea, il candidato punta su un’agenda di rottura. Il manifesto programmatico della SPD, affonda infatti le proprie radici nella netta svolta operata da Scholz al ministero delle Finanze, perfettamente rappresentata da movimenti di spesa pubblica valutati in quasi 400 miliardi di euro: una brusca inversione di tendenza rispetto ai rigidi equilibri di bilancio “venerati” dal predecessore Schaeuble che, al netto della fase storica diversa, operava pur sempre in un governo guidato dalla stessa Cancelliera. Non mancano lo sdoganamento del tabù di una tassa patrimoniale per il 5 % più ricco dei cittadini e l’addio ai noti dogmi dell’austerità finanziaria, che molti reputano essere stati l’assist all’exploit europeo del sovranismo populista (in Germania con il successo di AfD nel 2017, ma anche in Italia con il governo Conte I). In un Paese con il canone tv fra i più alti d’Europa (215 euro per tutti, che si possiedano o meno televisori e radio), dove già sulla prima casa grava una rilevante imposta, di certo non si può tacciare gli autori di simili piani di scarso coraggio. Nel programma trova inoltre spazio anche il salario minimo a dodici euro l’ora, sempiterno mantra mutuato dalla socialdemocrazia scandinava.

Il “fantasma” di un’alleanza scomoda

Sono questi propositi solo alcuni ingredienti della ricetta con cui Scholz scommette sulla possibilità di staccare l’Unione nei consensi e portare la SPD all’ambìto ruolo di primo partito tedesco. Anche per la Willy Brandt Haus, tuttavia, si fa pressante la ricerca di possibili partner da cui le aspirazioni di governo non potrebbero prescindere. Il progetto di una “coalizione berlinese” (SPD-Verdi-Linke), così ribattezzabile perché affine a quella con cui i socialdemocratici già reggono il Municipio della Capitale, è stato preso in esame da molti politologi e giornalisti di sinistra: i negoziati tra SPD e Verdi non costituirebbero un ostacolo, in virtù delle numerose affinità elettive che sussistono fra i due schieramenti. Molto più problematica e discutibile sarebbe la necessità di includere, nella maggioranza nazionale, la sinistra realsocialista e anticapitalista di “Die Linke”.  

LA LINKE E GLI SCHELETRI NELL’ARMADIO

Da quando è entrata in Parlamento, la Linke è sempre stata ancorata al rango di micropartito, ridotto a far le spese dei trascorsi di cui molti suoi membri si dicono nostalgici. Anche il prossimo 26 settembre, i populisti di sinistra giungeranno a conquistare, verosimilmente, non più di una cinquantina di seggi. È però difficile non comprendere le rimostranze di chi vedrebbe con inquietudine un ministero o una postazione di potere affidati a una formazione che non ha mai negato di rifarsi alla SED (Partito di Unità Socialista della Germania Est), quel partito unico e multiforme che fu deus ex machina del regime autocratico della DDR dal 1949 al 1990. Benché, negli anni, molti membri della Linke abbiano accettato il confronto con la storia sull’orrore del Muro di Berlino, non sono rari i casi di membri restii a denunciare la micidiale attività di spionaggio privato praticata dalla Stasi, altra colonna portante del socialismo reale. Persino un intellettuale socialista e nazionalpopolare come Wolf Biermann, chansonnier dissidente privato della cittadinanza nella DDR, invitato a cantare al Bundestag per i 25 anni dalla caduta del Muro, si spinse a definire la Linke “il miserabile rimasuglio di ciò che per fortuna è scomparso”.

Per coloro i quali, alcuni anche di simpatie socialdemocratiche, hanno vissuto in prima persona l’oppressione, la censura e le misure liberticide implementate all’Est quando ancora la Germania riunificata non era che un ideale utopico, l’ipotesi di vedere al governo il domicilio politico di personaggi quali Lutz Heilmann, ex agente della Stasi, rappresenterebbe un affronto non irrilevante. Nelle file dell’estrema sinistra tedesca, l’opportunità di ritrovarsi, per la prima volta nella sua storia, in una coalizione di maggioranza, alletta però molti capi massimi.

Un programma intriso d’ideologia

Davanti a scetticismi e resistenze di molti membri della SPD – Scholz in primis – gli anticapitalisti hanno per questo provato a tendere una mano ai papabili alleati, mediante un programma di dialogo con soc-dem e Verdi. Elementi salienti per l’interlocuzione potrebbero essere la ritrattazione degli storici progetti di uscita dalla NATO (definita “imprescindibile” dal leader socialdemocratico) – bilanciati però dalla richiesta di includervi la Russia e di orientarne l’attività verso le missioni di pace – nonché il tetto di Stato sugli affitti e un vasto piano di sussidi “per la giustizia sociale” complementare alle bozze di riforma del fisco preparate dalla SPD. Ad oggi, questo assist non ha minimamente stemperato la scarsa disponibilità di Scholz a compromessi. Differente invece l’opinione del vicepresidente Kuehner, dichiaratosi favorevole a un’apertura alla Linke. L’impressione è però che il partito continui a nicchiare sulla coalizione con la Linke per non urtare l’elettorato moderato. La cosa ha infastidito non poco Angela Merkel, che infatti si è recentemente lasciata andare ad attacchi non proprio diplomatici a Scholz.

I “VERDI”: ASTRI NASCENTI O FENOMENI “GONFIATI”?

Se gli esiti elettorali della Linke non dovrebbero riservare sorprese, un risultato imprevedibile potrebbe essere invece quello dei Verdi. I fatti recenti ce li raccontano come un partito rissoso, che solo la loro candidata alla Cancelleria, la giovane Annalena Baerbock, sarebbe riuscita a domare. Tuttavia, serpeggia l’inconfutabile impressione che il vento in poppa portato dagli ottimi risultati nelle elezioni regionali primaverili li abbia portati a fare i conti senza gli osti.

Un successo costruito nel tempo

Bisogna ritornare alla primavera di quest’anno per ritrovare i bei momenti andati in cui ogni scenario nazionale possibile arrideva agli ecologisti, la SPD si collocava al terzo posto nei sondaggi e i più temibili avversari per i cristiano-democratici erano proprio i candidati del partito guidato da Baerbock. Che i Verdi abbiano contribuito a dare uno scossone agli apparati istituzionali tedeschi è indubitabile. Dopo aver lungamente giocato nelle retrovie negli anni precedenti alla Riunificazione, sono riusciti a imporsi nel ruolo di partito di massa negli anni 90, grazie alla leadership di Joschka Fischer, ex ministro degli Esteri e padre nobile del matrimonio d’interessi degli ecologisti con la SPD nei governi Schroeder. Certo, negli anni non hanno sempre brillato per coerenza: ci spingiamo a dire che lo scrittore Heinrich Böll, prima voce intellettuale a credere nella nascita di un movimento pacifista e ambientalista, ne avrebbe criticato il comportamento ambiguo sulla partecipazione tedesca alla guerra del Kosovo. Tuttavia, una serie di congiunture politiche favorevoli, dalla crisi d’identità della SPD alla nascita della Große Koalition, unita alla capacità di far breccia presso un elettorato giovane, cosmopolita e di provenienza metropolitana hanno aperto loro la strada verso la rottura dell’egemonia socialdemocratica nel centrosinistra.

Oggi, i Verdi sono membri, con la SPD, delle amministrazioni comunali nelle tre città tedesche più estese e popolose: Monaco, Berlino e Amburgo. Le ultime due, in ragione di uno statuto particolare, costituiscono anche agglomerazioni regionali a sé (in altre parole, potremmo definirle “Città-Stato”). Gli ecologisti esprimono inoltre il Ministro Presidente di uno degli stati federati più economicamente floridi e industrializzati della Germania, il Baden-Württemberg, noto per essere, con la Bassa Sassonia e la Baviera, patria dell’automobile tedesca. Lì, infatti, hanno sede i quartier generali di Porsche e di Mercedes-Benz, ma anche quello della multinazionale dell’elettrotecnica Bosch.

Nel programma elettorale 2021 dei Verdi sono numerosissime le coincidenze con i socialdemocratici, e grande è l’attenzione consacrata, come prevedibile, alle realtà rurali, all’agricoltura e alle politiche di allevamento. Degne di nota anche i loro progetti sulla digitalizzazione e sul potenziamento del sistema di copertura per la sanità pubblica. Strategica e di buon gusto da parte loro è stata la rinuncia a speculare sulla sciagura delle alluvioni che hanno sconvolto la Renania a luglio, che pure hanno contribuito a rendere cruciali, nel cuore della campagna elettorale, complesse problematiche quali il dissesto idrogeologico, la decarbonizzazione e la neutralità climatica. Tutti i candidati si sono comunque recati nei Paesi toccati dalle esondazioni del fiume Ahr, promettendo un impegno unanime per tamponare i danni esorbitanti. Una scelta compiuta forse in buona fede, finita però nel mirino del settimanale Stern, che ha attaccato “una politica che si toglie gli stivali di gomma non appena esce dal fango”.

Esondazioni, luglio 2021, Renania Palatinato, Baviera e Renania Settentrionale-Vestfalia.
Photo by Jan Maximilian Gerlach, Settembre 2021, from Flickr.

IL SEMAFORO DELLA DISCORDIA

Ampelmann

Nonostante il crollo dei Verdi negli ultimissimi sondaggi (Insa-Forschung li piazza al terzo posto), Annalena Baerbock non si è data per vinta e ha lasciato trapelare due proposte assai ardite: l’introduzione di un limite di velocità in autostrada, un quasi-tabù per i tedeschi, e il diritto di veto al Ministero dell’Ambiente in caso di discussione di proposte lesive degli Accordi di Parigi sul clima. A prescindere da qualunque opinione si possa avere su di esse, è innegabile che la carica ideologica di simili intenzioni strida con le voci, circolate più volte, di un cantiere politico teso a costruire “l’alleanza del semaforo” con la SPD, ma, soprattutto, con i liberaldemocratici di FDP. Non vi nasconderò che, quando ho letto il neologismo giornalistico coniato per definire quest’ipotetica coalizione, ho pensato a una fissazione tutta tedesca: i berlinesi, infatti, sono particolarmente affezionati ai simboli dei loro semafori stradali, gli Ampelmännchen, tanto da aver dedicato loro anche dei negozi di souvenir. L’ironica sorte vuole tuttavia che i semafori tedeschi non siano quasi mai dotati del “giallo”, colore identificativo di FDP, il partito con cui l’interlocuzione dei “rossi” (SPD) e dei Verdi potrebbe risultare assai complessa.  

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FDP balla con tutti…?

Liberale, liberista e socialmente collocabile tra centrismo e laicismo, il partito dei Freie Demokraten sarà infatti la formazione dal ruolo più determinante nella fase di mediazione fra i partiti. FDP ha la fama, neanche troppo facile da smentire, di essere il punto di riferimento dei giovani di centro-destra (l’elettorato dell’Unione appartiene mediamente a fasce d’età più avanzate). Il loro giovane candidato Christian Lindner promette di essere “l’unica garanzia che la Germania venga governata al centro” e “l’argine a eccessivi spostamenti a sinistra”.

Ora, la soluzione più equilibrata per un governo di centro-sinistra consisterebbe in una coalizione di SPD e Verdi, a partecipazione liberaldemocratica. L’articolazione di un dialogo per la già citata “alleanza del semaforo” (Ampelkoalition) potrebbe rendersi però molto complessa poiché, in materia di politiche ambientali, FDP guarda, con evidenti inclinazioni, a destra: la loro agenda climatica annovera proposte sulla decarbonizzazione piuttosto “elastiche” (con l’obiettivo della neutralità climatica fissato per il 2050) e si contraddistingue anche per un’opposizione netta allo stop ai motori diesel, su cui nei partiti di sinistra è invece in corso un vivo dibattito.

…O solo con la CDU?

Scarsamente compatibili con i programmi socialdemocratici sarebbero poi le ricette economiche di cui i liberali si dicono portabandiera: abbassamento della pressione fiscale e reindirizzamento del bilancio tra i binari dell’ortodossia rigorista. Benché intrigante agli occhi dell’elettorato di centro-sinistra, il progetto si annuncia dunque costellato di difficoltà, ben più di un’eventuale riedizione “riscaldata” della Große Koalition estesa ai Verdi, che Scholz – ha fatto sapere – intenderebbe comunque evitare. Leggendo il programma di una CDU molto più aperta, rispetto a qualche anno orsono, alle orbite conservatrici, si comprendono le ragioni del leader socialdemocratico. Che, tuttavia, potrebbe ritrovarsi costretto, una volta esclusa ogni prospettiva di apertura alla Linke, a trattare con una formazione, quella liberaldemocratica, storicamente più propensa a interloquire con l’Unione: il binomio FDP/CDU, che questa volta il declino democristiano rende difficile da contemplare, costituisce infatti un esperimento già brevettato e rodato sia a livello nazionale – nei governi Kohl e nel secondo esecutivo Merkel dal 2009 al 2013 – che su scala regionale, come attualmente avviene in Renania Settentrionale-Vestfalia.

Il rebus delle alleanze: ancora tutto è possibile

In ogni caso, l’estrema variabilità del posizionamento di ogni partito (FDP si contende il quarto posto con l’estrema destra di AfD) ha reso i sondaggi finora consultabili piuttosto volubili e suscettibili di mutamenti anche molto significativi: caso emblematico è il ruolo della SPD, ritrovatasi in appena quattro mesi dal terzo al primo posto. Inoltre, la natura stessa della legge elettorale tedesca, che pure pone all’ordine del giorno il compromesso a causa di un impianto a base proporzionale, fa sì che, a un mese dal voto, i ragionamenti sulle alleanze risultino ancora tendenzialmente prematuri.

Se la predominanza dei Verdi nelle aree metropolitane è oramai un dato confermato da molti sondaggi, sono ancora ignoti i Länder e collegi uninominali che potrebbero risultare decisivi per decretare il sorpasso dei socialdemocratici sull’Unione, i cui feudi inespugnabili coincidono normalmente con la Sassonia a Oriente e il Saarland a Occidente. Per il partito di Laschet, già in crisi di consensi, prezioso ossigeno potrebbe arrivare da un insuccesso di AfD, l’estrema destra nazionalista – con correnti che spaziano dal populismo euroscettico all’oltranzismo antisemita – che nel 2017 fu principale responsabile della prima emorragia di consensi subìta dai cristiano-democratici.  

AFD, L’ESTREMA DESTRA VERSO L’OPPOSIZIONE

Lo spettro di un successo di Alternativa per la Germania (AfD), in questa tornata elettorale, naviga infatti al largo. Quel successo elettorale del fenomeno sovranista (12,5 %) che nel 2017 i media accolsero con attonito stupore era certamente da ascrivere alla politica migratoria posta in essere da Angela Merkel: lapertura delle frontiere ai profughi contribuì infatti incisivamente a spostare ampie sacche elettorali conservatrici dall’Unione all’estrema destra, condotta da Alice Weidel, giovane leader dalle velleità gerarchiche e dall’aria marziale. In ragione delle posizioni assunte dall’intero arco politico del Bundestag, ci sentiamo legittimati ad affermare che quasi sicuramente ad AfD spetterà l’opposizione: tutti i candidati hanno infatti promesso ai loro elettori un intransigente impegno per escludere gli ultrà sovranisti da ogni orizzonte di maggioranza.

I sondaggi le attribuiscono ad oggi percentuali di poco inferiori a quelle registrate alle precedenti elezioni federali, in cui la strumentalizzazione forsennata delle espansive strategie di accoglienza di Angela Merkel permise al partito di aggiudicarsi numeri significativi nelle regioni dell’ex DDR, storicamente affiliate all’Unione, e in quelle con i più alti tassi di criminalità urbana.

L’avversione a ogni forma di politica volta a contrastare il cambiamento climatico rimane un’altra carta funzionale a escluderli da ogni interlocuzione con i partiti avversari. E le tesi no-vax della stragrande maggioranza degli esponenti di AfD, unite a loro comportamenti scellerati e grotteschi (tra cui quello di Thomas Seitz, il deputato che si presentò in Parlamento indossando una mascherina forata per protestare contro le restrizioni natalizie) hanno completato l’opera di isolamento dei sovranisti tedeschi da ogni ipotesi istituzionale. A spaventare permangono i toni ultranazionalisti e islamofobi di numerosi esponenti del partito, tra cui Bjorn Höcke in Turingia, accusati anche di aver fomentato attentati ai danni di immigrati e attivisti di altri partiti, di solleticare istinti neonazisti e antisemiti o di ispirarsi apertamente, specie nella dialettica dei loro comizi, alla retorica anni ’30 usata da Hitler. Tra le trovate del partito, va annoverata l’organizzazione di manifestazioni “contro l’islamizzazione” ignobilmente chiamate “manifestazioni del lunedì”, come le marce popolari e riformiste organizzate a Lipsia nell’ottobre 1989 contro il governo della DDR.

AfD rinnega le nostalgie neonaziste dei suoi esponenti: d’altra parte, però, molti tedeschi non riescono a dimenticare la giustificata indignazione che provarono quando su Bild comparve una fotografia in cui dei principali sostenitori del movimento, l’attivista anti-immigrazione Lutz Bachmann, si mostrava orgoglioso di ritrarsi pettinato come il Fuehrer.

Candidati “partitocratici”?

Le due settimane che ci separano dall’elezione si prospettano, insomma, frizzanti. Forse, il trittico dei contendenti (Scholz-Laschet-Baerbock) potrebbe apparire poco esaltante, specie agli occhi degli analisti esteri. Probabilmente, come scrive Die Zeit, dai tre candidati si riceve esattamente quanto ci si potrebbe aspettare da un socialdemocratico, da un democristiano e da un’ecologista. Non c’è più pane per i denti di chi rimpiange gli statisti. Malgrado ciò, per gli assetti occidentali, per la ridefinizione della funzione geopolitica dell’Unione Europea, le elezioni tedesche del 26 settembre costituiscono un passaggio di storica importanza, di cui nessun governo occidentale può disinteressarsi. Il drammatico spettacolo afghano ci racconta cosa possano implicare le mancanze europee e atlantiche.

PER MERKEL AD ASPERA: UN’ELEZIONE CRUCIALE

Senza una Germania integra, forte, incisiva, progetti quali la difesa comune europea saranno eternamente condannati al novero delle fantasie. Non credo di eccedere con l’esuberanza affermando che dagli esiti del 26 settembre dipenderà il destino dell’Occidente negli anni a venire. Con la fine della stagione di Angela Merkel si chiude un capitolo glorioso durato sedici anni. Non so dirvi quanta esagerazione o quanta ironia ci siano nella “nostalgia abissale” che credo proverò dopo l’addio dell’eterna Bundeskanzlerin, dal momento che una buona politica non può essere che una politica esemplare. Sicuramente, i governi guidati da Mutti hanno soddisfatto appieno questa credenziale. Non possiamo sentenziare ora se il suo successore sarà all’altezza. Quel che è certo è che, di sicuro, non raccoglierà un’eredità semplice da eguagliare. Buon voto, mia seconda Heimat.

Ogni partito esiste per il popolo, non per se stesso.

(Konrad Adenauer)

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