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FUORI DALLA PALUDE DEL RISENTIMENTO: LE PAROLE DI NIETZSCHE PER L’ITALIA D’OGGI

25 Marzo 2021

Tornare a riflettere sulla “morale del risentimento”, come potentemente sondata più di un secolo fa da Nietzsche nella sua Genealogia della Morale (1887), per dar spazio a suggestioni che paiono ancora trovare agganci e contenuti nel mondo d’oggi. Meglio: nell’Italia d’oggi. Quella che il filosofo tedesco chiama morale del risentimento è una morale reattiva, perché priva di autonomia propria, in quanto necessitante di qualcosa che viene prima, da fuori, dall’esterno, e a cui opporsi, a cui dire “no”.

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Prima deve esserci questo qualcosa “da fuori”, solo dopo il quale insorge il no del soggetto del risentimento, di colui che si oppone e perfino aggredisce. Se Nietzsche – formidabile psicologo e indagatore d’anime – avesse saputo del “cane di Pavlov”, avrebbe probabilmente usato quel noto schema “stimolo-risposta” per esemplificare il meccanismo di ciò che andava descrivendo. Quel No è la sola azione creatrice di valori che il risentimento conosca, è il suo output nel mondo reale. L’azione del risentimento è dunque fondamentalmente una reazione.

Ma a cosa? Presto detto: a ciò che è grande, forte, pieno di vita e di volontà di potenza. Il risentimento è l’essenza di ogni morale dei deboli, dei poveri di vita. I riferimenti (ovviamente critici) di Nietzsche alla personalità o all’atteggiamento di chi è “reattivo” sono alquanto frequenti nei suoi scritti, e possiamo considerarli come un’espressione consolidata – fra le altre – del suo approccio alla realtà dell’uomo. Oltre alla sua carenza di forza vitale, dell’uomo reattivo egli condanna la propensione a rispondere immediatamente ed automaticamente ad ogni enunciato, ogni fatto, ogni dato della realtà che si presenti al soggetto che lo percepisce, il quale non si conceda il tempo di “ruminarlo” (dice proprio così) e quindi di comprenderlo appieno, e lo respinge invece (o lo approva) in via istintiva e subitanea. Quello di Nietzsche è un elogio della lentezza. La realtà va compresa applicando l’arte della lettura: segue l’arte della lettura colui che legge lentamente e poi rilegge ancora, mantenendo le distanze dal testo, praticando diffidenza e circospezione, e nel contempo e con nicciano gusto della contraddizione “salta addosso” al testo, se ne impossessa completamente, lo fa suo e vi si immedesima, e solo dopo cosiffatta assimilazione cannibalesca può davvero capire e quindi criticare, rigettare, allontanandosi verso altre enunciazioni, altre verità non meno provvisorie. L’eventuale “no” viene solo dopo un pieno “sì”, non scatta subito per rigettare ciò che non è ancora compreso. Ci vuole lentezza e soppressione di ogni automatismo di risposta, anche per fare questo. Ecco, dunque, secondo Nietzsche la caratteristica peculiare della morale dei “Signori”, ossia dei nobili dello spirito: essi dicono in primo luogo “sì” a se stessi, alla loro forza creatrice, al mondo e alla vita; il loro opporsi a ciò che li contrasta viene solo in un secondo momento e resta comunque sullo sfondo, quasi come qualcosa di casuale e contingente, di non necessario al pensiero e all’azione. Invece il risentimento non vive di vita propria, ha sin da subito e prima di tutto bisogno che qualcosa di riccamente solare si manifesti nel mondo, e a cui opporsi come la salivazione del cane segue allo stimolo pavloviano, e – questo il punto cruciale – tanto più maligna questa reazione quanto più quel qualcosa sarà percepito come espressione di grandezza, potenza, forza, ambizione: è questa qualità di eccezione che fa scattare la reazione risentita.

Diverso anche il ritratto del “nemico” che deriva da tale radicale contrapposizione di psicologie: nel risentimento, il nemico è subito dipinto come il male, il malvagio, non ha e non può avere contenuti positivi o apprezzabili (il risentito dipingerà sé stesso come “il bene”). Il nemico dei “risentiti” è appunto ciò che è grande, forte, ambizioso ed esso verrà necessariamente percepito e condannato in termini alterati, faziosi, bugiardi, come qualcosa di spregevole e malvagio. Per inesorabile logica, il soggetto portatore del risentimento non può ammettere la presenza di qualità positive, pregevoli, nelle persone a cui si contrappone; se lo facesse, negherebbe sé stesso, lo stigma essenziale del suo essere. (Nota: Il risentito può anche raggiungere posizioni di potere, e la sua rivalsa risentita non dovrà allora limitarsi ad un atteggiamento privo di effettività: il tal caso egli metterà il suo nuovo potere al servizio di una psicologia che non è cambiata, che resta quella del risentimento, ossia del livore, e allora … sì, si vedrà cos’è la vera cattiveria).

Bisogna invece essere pieni di vita e di forza propria per apprezzare nel nemico le sue qualità; il nobile di spirito non avverte un bisogno logico, necessario, di disprezzare il suo nemico, può anzi riconoscerne le qualità e alla fine essere perfino orgoglioso della sua inimicizia. Nei deboli, la percezione – oscura ma persistente – della propria debolezza non si converte in ammirazione per la forza altrui, in positivo stimolo all’imitazione, bensì in odio. Potrebbe essere diversamente? È inevitabile? La differenza di forza è percepita istintivamente, come autoevidente in via immediata e nemmeno formulata razionalmente, e subito tradotta nel contrasto superiore-inferiore; l’auto percepita impossibilità di darsi la forza che non si ha può solo portare: a) alla consapevole sottomissione, oppure b) all’odio. Nel primo caso, riconoscersi inferiori, ma essere puri d’animo: avremo una sottomissione consapevole, quella del buon gregario. Ma il senso della propria impotenza è spesso insopportabile e non dà buoni esiti. Un primo esito: mentire a sé stessi: “non sono debole, sono io che ho deciso di essere buono e paziente”. Se mi autodefinisco buono, i cattivi sono il mio contrario, quelli che hanno la forza che io non ho. Vengono alla mente i cantucci malati da cui ci parla il protagonista delle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij. Per legge di natura vogliamo essere forti, sentire dentro di noi la pienezza della vita, la potenza che da noi si sprigiona e investe il mondo attorno; se di tale sentimento di pienezza non ci è dato godere, non ci resta – altro esito – che tentare di umiliare la forza altrui; in fin dei conti, nella capacità di avvilire i forti si può ancora dar sfogo ad una specie di forza, che contribuisce a spiegare perché questa strana potenza umiliatrice possa esprimersi solo come reazione a qualcosa che c’è già nell’ “al di fuori”: insorge così, da questa fonte avvelenata, il livore della massa dei mediocri verso le personalità di rilievo che si mettono in luce per intelligenza e capacità.

Noto di passaggio che un onesto seguace del filosofo tedesco, lo spagnolo Ortega y Gasset, riportò in un suo famoso libro degli anni ’20 del Novecento – “La ribellione delle masse” – osservazioni che sono la diretta filiazione del risentimento come raccontato alle precedenti righe. Uomo-massa, dominio della mediocrità, odio per l’eccezione, incapacità di ascolto e di dialogo abitano le pagine del testo spagnolo con una lucidità d’analisi che sembra ritagliata su una preveggente conoscenza delle paludi dei “social”.

Ma alla fine… perché questa mia congerie di malriuscite enunciazioni del pensiero nicciano? All’odierno chiacchiericcio dei social e dei media si è dapprima agganciata una subitanea associazione di idee, insomma a quel pressoché perfetto sprofondo nel non-dialogo cristallizzato in faziosità impudiche e gratuiti insulti, nel cercarsi solo fra compagni di setta, nel rigetto immediato ed aggressivo di ogni opinione avversa o solo diversa o peggio ancora eccelsa. Ma nel pensare non solo questo, e al di là di questo, il confronto con la psicologia e la morale del risentimento induce alla riflessione sull’Italia d’oggi, una società che in troppi suoi comparti ha in uggia la serietà, la severità, la fatica della conquista, anche nel funzionamento di istituzioni fondamentali come quelle educative, e per converso vede esaltato il dominio della mediocrità, e legittimato l’attacco frontale a chi si metta in luce per doti di rilievo e per qualità eccellenti.

Soffriamo di un’atmosfera malata di livore, diffusa e condivisa, in cui la società italiana è immersa, talmente permeante da non poter essere effettivamente riconosciuta come oggetto problematico, su cui riflettere e da mettere eventualmente in discussione. Come lo sfondo originario e “naturale” dei nostri pensieri e del nostro vivere sociale, come un inconscio paradigma di giudizio, scontato ed auto evidente, autogiustificato. Allora, questo per nulla naturale “scontato” va prima di tutto riconosciuto, reso problema a noi stessi e passibile di alternativa (il riconoscerlo come oggetto del pensiero già lo qualifica passibile di alternativa; solo il presunto “naturale” non è pensabile come contrastato da un’alternativa). Che fare allora per strapparsi da questo blocco dell’immaginazione e dall’atmosfera di risentimento verso le élite dei migliori fra noi? Lo strappo dal regno del “naturale”, la comprensione di quest’atmosfera mediocre come mero accidente e non necessità, insomma il vero e proprio risveglio dal sonno del pensiero, tutto ciò può essere possibile anche in virtù della conoscenza di alternative già effettive altrove, già reali e praticate.

C’è bisogno di chi ci aiuti a conoscere i climi sociali, culturali e istituzionali di altri Paesi, ciò che di diverso e di migliore gli altri fanno con non minore spontaneità. Vedere nella concretezza di vivi esempi che altri pensieri e altre prassi sono possibili: questo concorrerebbe a spezzare lo stanco incantesimo italiano e aprirebbe alla contestazione. E un’altra società italiana comincerebbe ad essere possibile.

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