LA GIUSTIZIA GIUSTA È UN NOBILE INTENTO, NAUFRAGATO IN UN REFERENDUM PIENO DI DUBBI E CRITICITÀ

3 Giugno 2022

Secondo la maggior parte degli istituti demoscopici, non molti sanno che il 12 giugno si terrà un referendum e a più di 40 milioni di italiani verranno sottoposti al voto 5 quesiti.

Il macrotema che verrà affrontato sarà quello della giustizia, e gli argomenti toccati in tre quesiti saranno di natura organizzativa o carrieristica del corpo dei magistrati, uno riguarderà la limitazione del regime cautelare, e un quesito tratterà la legge 190 del 2012, la cosiddetta legge Severino.

Che dicono i quesiti?

I quesiti che ci verranno sottoposti sono cinque.

1) Il primo attiene ai Consigli giudiziari. Il quesito riguarda le norme che regolano l’elezione dei cosiddetti membri togati del Consiglio superiore della magistratura (CSM) modificando le modalità di presentazione delle candidature. Attualmente se un magistrato si vuole proporre come membro del CSM deve raccogliere almeno 25 firme di altri magistrati a sostegno della sua candidatura. Se vincesse il sì decadrebbe l’obbligo della raccolta firme.

2) Il secondo quesito riguarda la “professionalità del magistrato”. Il quesito chiede se la componente laica (avvocati e professori universitari) del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari non debba essere esclusa dalle discussioni e dalle valutazioni che hanno a che fare con la professionalità dei magistrati.

3) Il terzo quesito è quello sulla separazione delle carriere giudicanti e requirenti dei magistrati. Il quesito è veramente molto lungo e complesso anche per tanti addetti ai lavori. In poche parole, se vincesse il sì si separerebbero nettamente le due funzioni PM e giudice giudicante: a inizio carriera il magistrato dovrebbe dunque scegliere o la funzione giudicante o quella requirente, senza più la possibilità di passare dall’una all’altra.

4) Il quarto quesito riguarda la limitazione delle misure cautelari. Si tratta delle misure preventive a cui un soggetto può essere sottoposto prima della sentenza, se sussistono i seguenti presupposti: pericolo di fuga, inquinamento delle prove e reiterazione di gravi delitti con uso di armi o altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata. Inoltre a quest’ultimo elenco si aggiunge il pericolo di reiterazione dei reati “della stessa specie di quello di cui si procede” aggiungendo “se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena di reclusione non inferiore nel massimo a cinque nonché di delitto per finanziamento illecito dei Partiti”. Se vincessero i sì, verrebbe esclusa la possibilità di motivare una misura cautelare (in carcere o meno) con il pericolo di reiterazione secondo quest’ultimo elenco, rendendo praticamente impossibile qualsiasi misura cautelare per molte tipologie di delitti.

5) L’ultimo quesito attiene alla legge Severino, dal nome della ministra della giustizia del governo Monti. La legge in questione, partorita dopo anni di scandali politici soprattutto negli enti regionali, stabilisce il divieto di ricoprire incarichi di governo, l’incandidabilità o l’ineleggibilità alle elezioni politiche o amministrative, e la conseguente decadenza da tali cariche, per coloro che vengono condannati in via definitiva per determinati reati. Quindi questa legge scatta quando siamo di fronte a una condanna definitiva a più di due anni di carcere per reati di allarme sociale (come mafia o terrorismo), per reati contro la pubblica amministrazione (come peculato, corruzione o concussione) e per delitti non colposi per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore a 4 anni. Il decreto Severino stabilisce poi dei criteri anche per quanto riguarda l’incandidabilità alle cariche elettive regionali o negli enti locali. Prevede, infine, in caso di condanna non definitiva, la sospensione dalla carica in via automatica per un periodo massimo di 18 mesi. Se vincesse il sì anche ai condannati in via definitiva per quei reati citati verrà concesso di candidarsi o di continuare il proprio mandato e verrà cancellato l’automatismo della sospensione in caso di condanna non definitiva.

Prima di addentrarsi nell’analisi di quanto detto, credo sia importante anticipare una grande criticità attinente a questo referendum, che a molti lascia pensare a un abuso dello strumento: questi cinque quesiti si vanno a inserire in una discussione parlamentare che ha già raggiunto le aule del Senato, e che vede la riforma Cartabia affrontare alcuni degli stessi aspetti; tutto ciò rende di non facile comprensione come il referendum potrà andare a incidere su una riforma già in fase di discussione al Senato ma che non ha ancora raggiunto lo stadio ultimo. Insomma, lo strumento referendario viene usato per far pressioni o indirizzare il potere legislativo che sta già dibattendo e affrontando alcuni dei temi coinvolti nei quesiti. Prendiamo il quesito sul sistema elettorale CSM. La riforma Cartabia non contempla la raccolta firme dal momento che prevede candidature individuali e un sistema misto proporzionale maggioritario, e quindi se approvata renderebbe ragionevolmente del tutto inutile il referendum, e viceversa. Riguardo la separazione delle carriere fra giudici e PM, al contrario, la riforma Cartabia ridurrebbe i possibili spostamenti a uno solo in tutta la carriera (da PM a giudice o viceversa), senza appunto escluderli totalmente come invece intenderebbe fare il referendum. Anche in questo caso comunque risulterebbe in contrasto con il quesito che verrà sottoposto al voto, aprendo quindi la possibilità a futuri contenziosi.

Più che un referendum è un tentativo (fallito) di agenda setting

L’obiettivo della giustizia “giusta” esiste ed è lo stesso che volevano perseguire i Padri costituenti quando scrissero e votarono la Costituzione. Negli ultimi anni gli scandali giudiziari che hanno visto coinvolti PM o giudici sono di gran lunga aumentati facendo percepire a tanti il fenomeno della mala-giustizia. Ma a fronte di una persistente discussione mediatica, tra operatori e tra politici, “la riforma della giustizia” non è mai stato “Il tema”. Ci son stati piccoli temi populistici che hanno creato interesse, penso all’omicidio stradale (culminato in reato) o alla “difesa sempre legittima” (che, a fronte di tanti slogan, non ha mai visto modifiche sostanziali), che comunque toccano quasi sempre l’ordinamento penalistico-accusatorio di questo Paese. E quindi sembrerebbe abbastanza assurdo che si intervenga per via referendaria su parti tecniche, andando a sostituire il potere legislativo in capo alle Camere.

Nonostante tutto bisogna considerare che quando venne presentato questo Referendum, che poi non ha raggiunto il numero di firme necessario ed è stato proposto grazie l’intervento di alcuni Consigli Regionali, si discuteva di altri referenda: quello sull’eutanasia in primis, quello sulle droghe leggere e infine quello sulla responsabilità diretta dei magistrati, che avrebbero sicuramente fatto da volano per l’approvazione di questo referendum.

Il principale partito proponente, la Lega, dopo il fallimento della raccolta firme ha praticamente smesso di confrontarsi sul tema “referendum della giustizia”. Basta scorrere nella pagina del segretario della Lega Matteo Salvini dove i post dedicati al referendum si contano sulle dita di una mano, e spesso raccolgono pochi like. Oppure basta girare in ogni città e vedere i cartelloni elettorali vuoti, senza neanche un manifesto appeso. Probabilmente, fossero stati presentati anche i referenda sull’Eutanasia e quello sulle droghe leggere, Salvini avrebbe fatto molta più campagna intestandosi un successo indiretto sul referendum sulla giustizia come una vittoria “della Lega”. D’altronde sarebbe stato necessario per Salvini ritagliarsi un po’ di spazio in un dibattito dove, tra droga leggera ed eutanasia, lui sarebbe stato tra i contrari e, ragionevolmente, tra i futuri sconfitti.

Ragion per cui, attualmente, i primi ad inibire il dibattito sul referendum del 12 giugno sono proprio i proponenti. Meno ne parlano, meno politicamente risentiranno della sconfitta.

Qualche domanda e la legittima strada dell’astensione attiva

Tornando al tema, e bypassando il contesto politico che comunque resta e deve essere sempre fortemente impattante nelle decisioni, il referendum del 12 giugno ad avviso di tanti giuristi è troppo tecnico, i quesiti frammentati e occasionali, e sembrerebbero stridere con le fondamenta stesse dell’istituto previsto dall’articolo 75 della costituzione.

Prima di passare a questi legittimi dubbi, occorre entrare nel particulare, esprimendo per ogni quesito alcune critiche.

1) Il primo quesito, quello attinente alle firme basi per candidarsi a membro del CSM, a parere di chi scrive, pare inutile allo scopo. Per assurdo è troppo semplicistico raggiungere il fine di eliminazione delle correnti, non prevedendo più la raccolta di 25 firme per candidarsi a membro del CSM, voti che comunque sarebbero determinanti nella fase successiva. Ricordiamo inoltre che la platea elettorale coinvolta è di quasi 9mila persone. Pensare che ci siano soggetti che per via delle correnti non riescono a raccogliere 25 firme è abbastanza una presa in giro. Con tutto il rispetto.

2) Il quesito attinente alla valutazione della professionalità del magistrato è in parte irrilevante allo scopo, in alcuni casi può manifestare invece criticità gravi. Infatti questa valutazione oggettiva risiede proprio nella professionalità di chi valuta, a prescindere dal ruolo che ricopre. Inoltre il quesito come detto vuole riconoscere ai componenti laici una competenza piena e paritaria nella delicata materia dei pareri sulla professionalità, con la situazione difficile di vedere avvocati che esercitano la professione in un distretto di Corte d’appello redigere pareri su magistrati che potrebbero avere incontrato o incontrare in futuro come controparti o come decisori. La legge Cartabia interviene su questo punto in maniera migliore e più utile: se approvata, la riforma Cartabia darà “la possibilità di attribuzione alla componente degli avvocati della facoltà di esprimere un voto unitario sulla base delle segnalazioni di cui all’articolo 11, comma 4, lettera f), del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, nel caso in cui il consiglio dell’ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni sul magistrato in valutazione”. In poche parole verrebbe garantita l’indipendenza dei due ruoli, senza alimentare inutili conflitti, e dando la possibilità di intervenire con valutazioni collegiali e non personali e perciò meno tendenti a criteri “soggettivi”.

3) La separazione delle carriere è un altro quesito di nobile intento ma con un risultato raggiunto in maniera troppo semplicistica, nonostante il quesito chilometrico che invito tutti a leggere perché offre un giusto metro di come sia errato migliorare la giustizia a colpi di voti popolari abrogativi. L’obiettivo sarebbe quello di un giudizio terzo, obiettivo costituzionale, che anche qui però attiene alla professionalità del magistrato. Però a parere di chi scrive, il mutamento dello status del PM non potrà mai avvenire tramite referendum, ma, se quella è la vera intenzione, solo tramite revisione costituzionale. In questo non condivido i timori del tramutare la figura del PM secondo il modello americano con un semplice referendum.

4) La soppressione della previsione di giustificare una misura cautelare (non necessariamente in carcere) attraverso “il pericolo di reiterazione dei reati” in presenza di quell’elenco che citavo poc’anzi, invece, può dare spazio a situazioni pericolose. Innanzitutto dobbiamo ricordarci che questa esigenza giustificatoria già ora è limitata: in questo caso può essere infatti disposta la misura cautelare soltanto se si tratta di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. Se passasse questo referendum se non vi sarà rischio di inquinamento delle prove, e se non ci sarà un serio e attuale rischio di fuga dell’indagato, le misure cautelari diverranno inapplicabili al di fuori della sfera ristretta dei delitti di criminalità organizzata, di eversione o commessi con l’uso della violenza o di armi. Per fare qualche esempio, gli autori potenzialmente seriali di delitti contro la libertà personale e sessuale (purché senza l’uso della violenza) non potranno essere soggetti a misure cautelari prima della sentenza (ma a quel punto non sarebbero più cautelari). Pensate cosa potrebbe significare per una donna vedere crollare molte delle tutele previste dal codice rosso per prevenire i femminicidi proteggendole già in presenza di reati spia, quali minaccia o abuso di autorità integrato “solo” da violenza psicologica e morale o economica, e infine atti persecutori (minacce, messaggi, telefonate, pedinamenti). E ribadiamo: non si sta parlando solo di misura detentiva, cioè carcere. Sicuramente le misure cautelari sono abusate, spesso perché alcuni reati ricadono ingiustamente in previsioni di pene detentive eccessive (penso a quelli legati alle droghe leggere). Non c’entra nulla la previsione di reiterazione dei reati quale applicazione della misura cautelare, che, in molte situazioni, ha una sua assoluta necessità.

5) Sul quesito riguardante la legge Severino occorre fare un’operazione “verità” perché da più parti si leggono falsità e propaganda superficiale. Se vincesse il sì, la legge Severino verrebbe abrogata totalmente. Questo è importante ricordarlo perché a fronte di un’eccessiva azione di sospensione (anche a seguito di condanna non definitiva) o decadenza di amministratori locali in condizione di incandidabilità (a seguito di condanna definitiva), la legge Severino regola anche la partecipazione alla vita politica di condannati di mafia, terrorismo, fatti di corruzione o altri gravi reati in via definitiva. In un Paese in cui i partecipanti alla vita politica sono sempre meno e i politici stessi per volontà popolare saranno sempre meno, è assolutamente un errore non prevedere sistemi di salvaguardia delle istituzioni lasciando il tutto libero alla discrezione del magistrato o all’etica del singolo. Vediamo in questi giorni condannati in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, quali Dell’Utri e Cuffaro, costituire liste elettorali e influenzare da incandidabili le elezioni. Questo, aldilà di tutto, dovrebbe spingerci a una maggiore attenzione e serietà.

In questo scenario pieno di dubbi, e con un non-dibattito che purtroppo non aiuta a schiarire le idee, è opportuno anche annotare che fintanto esisterà la regola del quorum anche l’astensione attiva è espressione del proprio voto e quindi una legittima scelta. Da più parti si sente commentare che “votare è un dovere”. Per le elezioni politiche o amministrative è sicuramente così. Con i referenda, diversamente, secondo la dottrina maggioritaria, il meccanismo del quorum venne inserito non solo per mostrare il giudizio degli italiani sull’abrogazione o meno di alcune normative ma anche per far emergere la volontà stessa degli italiani su esprimersi o meno su determinati temi. In pratica, se il voto diretto dei cittadini deve “rovesciare una maggioranza parlamentare”, questo deve essere fatto da una parte consistente dei cittadini stessi, non da una minoranza qualunque. Esistono alcuni temi su cui la volontà dei cittadini di non esprimersi, per varie ragioni, anche per eccessivo tecnicismo, è preponderante. Altri temi, tra i quali continuo a credere ci sia anche la richiesta dell’eutanasia legale, che mostrano da tempo una chiara opinione degli italiani, diversa rispetto a quella attuale del parlamento. Detto questo il potere legislativo è in mano alle due camere e non ci farei un cruccio se gli italiani sui temi legati alla giustizia sceglieranno di non scegliere.

E la riforma della giustizia? Come detto, alcuni di questi quesiti si inseriscono in maniera critica nella riforma stessa che, dopo l’approvazione della Camera il 26 aprile scorso, è attualmente all’esame della Commissione giustizia del Senato. Se molti referenda del passato sono stati presentati con l’obiettivo voluto di sollecitare le forze politiche nell’esigenza di affrontare riforme a lungo trascurate, questo referendum sembra invece in realtà in contrasto con una riforma non ancora approvata, e che legifererebbe meglio, e per questo fatto è abbastanza un unicum. L’articolo 75 della costituzione fu ampiamente discusso durante la costituente proprio perché, pur garantendo un diritto al cittadino, cioè quello di esprimersi in una forma di “democrazia diretta”, si cercò di non stravolgere il potere legislativo dando “armi” alle minoranze di bloccare l’attività parlamentare. Tanti Padri Costituenti espressero infatti gravi critiche a un sistema troppo simile a quello svizzero o quello americano, che a fronte di un continuo presentarsi di referenda di ogni natura, hanno un assetto istituzionale completamente diverso dal nostro.

Emilio Lussu insieme ad altri autorevoli Padri costituenti non era favorevole a che potesse essere indetto immediatamente il referendum su un disegno di legge respinto dal Parlamento, perché con ciò avrebbe potuto originarsi un contrasto tra il popolo e i suoi rappresentanti, e riteneva che il referendum dovesse essere posto solo su leggi approvate da maggioranze molto limitate. Questo antico dibattito secondo me è meritevole di essere riproposto anche in questo particolare referendum che per modalità (proposto da consigli regionali su indicazione di Partito) e tempistiche (promosso a metà di una riforma della giustizia) è particolarmente opinabile. Quanto ai temi tecnici e per certi versi “di nicchia” proposti, caratteristiche che lasciano presagire che molti cittadini voteranno più per ideologie personali che per conoscenza delle materie, bisogna dire che pur dibattendo sul tema, i costituenti non ci fornirono una chiara indicazione, “salvaguardando” in verità nell’articolo 75 solo alcune e poche materie dallo strumento referendario tra le quali non figura “la giustizia”. Riprendendo i dibattiti della Costituente l’attuale scenario fa pensare al confronto che ci fu tra un Togliatti che agitava ampi dubbi sul possibile abuso dei referenda anche per questioni non sostanziali perché avrebbero creato intralcio all’attività legislativa, e un liberale Einaudi che, seppur critico verso un eventuale abuso dello strumento referendario, rassicurava l’aula annotando che per via del costo del proporre tornate referendarie, pochi Partiti si sarebbero lanciati in tanti referenda correndo rischio di inimicarsi i cittadini “disturbandoli” su materie complesse di cui la responsabilità a lavorare è del Parlamento: “solo nelle grandi occasioni, quando vi sia un motivo importante, si chiamano gli elettori a votare”. Alla luce della situazione forse il tempo ha dato ragione a Togliatti.

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