Giustizia Giusta: un cambiamento atteso da decenni

8 Giugno 2022

Prima di questa breve esposizione di ragioni, più o meno condivisibili, a sostegno del SÌ ai quesiti referendari, mi preme fare preliminarmente un accorato appello: esistono molte ragioni per votare SÌ o votare NO ai referendum abrogativi di domenica prossima, ma mi preme ricordare a tutti che il voto non è solamente un diritto che si esercita in libertà e segretezza. Esso è, più compiutamente, un dovere civico. E se l’esercizio è un diritto di libertà per il quale milioni di persone, nel novecento, hanno lottato, è opportuno contestualmente scegliere come esercitare il proprio libero diritto nell’adempimento del dovere civico di concorrere al bene della società e del paese. Se si pensa che il non passaggio dei quesiti referendari sia positivo, si scelga il NO. Se si ritiene che il passaggio di questi quesiti sia benefico, si scelga il SÌ. 

“Ciò che non è assolutamente possibile è non scegliere”, per dirla come Jean Paul Sartre. L’astensione è una non scelta, nella speranza che altri scelgano il meglio per sé. E a titolo personale rimarco: preferirei veder trionfare i NO che vedere gli elettori abdicare al proprio ruolo di sovrano. Soprattutto quando di mezzo ci sono strumenti di cosiddetta democrazia diretta. Un popolo che abdica al proprio ruolo di sovrano è un popolo che nega la propria legittimità. 

Ciò detto, veniamo al nocciolo delle questioni. Perché votare SÌ ai cinque referendum sulla giustizia. I cinque SÌ consentono il superamento di uno status quo che ha legittimato troppe storture e istituito automatismi deleteri per lo stato di diritto. 

Con il SÌ al referendum sulla legge Severino, il cittadino sceglie di abrogare le disposizioni, discusse e controverse, della legge approvata sotto il famoso governo Monti dieci anni fa. La disposizione normativa è stata in larga parte superata e criticata. Già illustri membri di primo piano dell’Associazione Nazionale Magistrati paventarono una – a loro detta – inutilità delle nuove competenze in materia di anticorruzione conferite alla CIVIT, commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche. La commissione, istituita nel 2009 dal quarto governo Berlusconi, è stata soppressa dal governo Renzi, che ha istituito l’Autorità Nazionale Anti Corruzione. Tutte le disposizioni volte alla prevenzione e repressione della corruzione nelle pubbliche amministrazioni sono state oggetto di riforme successive, che hanno di fatto posto nel nulla parti del decreto Severino. Le stesse riforme del codice penale sono state in larga parte superate dagli interventi fatti sotto il governo Renzi. Stessa cosa riguardo alle modifiche al codice civile e alle disposizioni legate al mondo del lavoro. Ciò che rimane in piedi, enormemente rabberciato, è la normativa sui reati non colposi. Chiunque riceva una condanna per un reato non colposo a una detenzione non inferiore ai due anni perde il diritto all’elettorato passivo. Questa disposizione costituisce un automatismo perpetuo problematico su due piani. Il primo è la non qualificazione dei reati. Vale a dire che chiunque sia o sia stato condannato per una fattispecie di reato dolosa, preterintenzionale o – in rarissimi casi – per responsabilità oggettiva rischia di non essere più eleggibile. Basterebbe pensare che un giornalista, se condannato per diffamazione, risulterebbe incandidabile pur se competente. In appena pochi mesi dall’entrata in vigore, la norma ha mietuto decine di “vittime” in tutta Italia, imponendo la decadenza ai soggetti eletti o nominati. In pochi anni ha creato diverse centinaia di ineleggibili o decaduti. Il secondo piano è dovuto alla controversia sull’aderenza di tale norma allo stato di diritto. Sono stati diversi i ricorsi sulla legge, sia innanzi alla Corte Costituzionale che al TAR. E alcuni tentativi di modifica della disciplina ci sono stati, ma sono stati stroncati sul nascere. La norma, in aggiunta, agisce nelle more in sostituzione o aggiunzione di una pena accessoria, che è l’interdizione dai pubblici uffici. L’interdizione ai pubblici uffici viene comminata sulla base delle tipologie dei reati contestati e sulla base delle circostanze di fatto e di diritto. La norma Severino agisce a prescindere, generando una iniquità pur di creare equità, e soprattutto lo fa spesso prima di un giudicato, agendo a livello politico-amministrativo prima di una condanna definitiva. In questa maniera, la norma agisce aggirando il cardine dello stato di diritto della presunzione di innocenza. Ciò avviene perché la norma non si limita ad agire su sentenze passate in giudicato, ma fa discendere efficacia amministrativa e politica da elementi indiziari giudiziari prima che intervenga una sentenza di condanna passata in giudicato. Ecco perché è preferibile l’abrogazione della norma: per garantire alla giurisdizione la discrezionalità sulla comminazione di sanzioni che agiscano sulla base di fattispecie concrete e sulla base delle circostanze.

Circa il referendum sulla custodia cautelare, è opportuno valutare sia l’aspetto teorico che quello pratico. Sul piano teorico, è opportuno sottolineare che l’articolo 274 del codice processuale penale è stato più volte rimaneggiato, e che solo uno dei punti è oggetto di referendum. Nello specifico, la lettera c) del comma primo dell’articolo 274 cpp è stato modificato più volte, l’ultima delle quali nel 2015. Si tratta, per essere chiari e comprensibili, di una norma che fa entrare dalla finestra ciò che le prime due previsioni normative sbattono fuori dalla porta. E infatti, a livello pratico, le custodie cautelari comminate ex art. 274 cpv lett. C) cpp, sono pressoché sempre annullate, e quasi sempre i custoditi vengono poi prosciolti o assolti. E quindi si parla di innocenti ingiustamente incarcerati. Lo scorso anno l’Italia ha pagato 80 milioni di risarcimenti per illecita e ingiusta detenzione. Molti GIP e alcuni pubblici ministeri, peraltro, sono anche a favore dell’abrogazione della norma. E ciò perché questo dispositivo processual-penalistico presta il fianco a troppi abusi. Lo dimostrano i dati: in media, tre cittadini innocenti al giorno, in Italia, vengono ingiustamente sottoposti a custodia cautelare in carcere. Una norma disfunzionale e abusata è una norma dannosa per la giustizia, e genera malagiustizia. Per citare il dottor Simone Alecci, GIP presso il Tribunale di Palermo, con l’art. 274 lett. c) cpp siamo davanti a un palese caso di discrasia tra norma vigente e norma vivente. 

La cancellazione delle firme per le candidature dei togati al CSM è molto utile. Oggi nessuno dei non aderenti a una qualsiasi delle tre correnti maggioritarie ha speranza di concorrere per un posto nella direzione più corporativa della Repubblica italiana. La normativa vigente è veramente stringente. Un magistrato, per candidarsi al CSM, ha necessità di raccogliere oggi tra le 25 e le 50 firme. Se fossero liste civiche per amministrative, sarebbero più o meno tra le 250.000 e le 500.000 sottoscrizioni per candidarsi.  La normativa è talmente stringente, e con margini di discrezionalità abissali al CSM stesso, che nessuno al di fuori degli stretti legami consociativi correntizi può avere speranza di influire. La cancellazione delle sottoscrizioni comporterebbe, ex adverso, la possibilità di candidatura di chiunque, eliminando il potere di ricatto delle correnti che, come da recenti inchieste e come già denunciato un trentennio fa da Giovanni Falcone, tende a distorcere politicamente la struttura della magistratura. È la riforma definitiva? Assolutamente no, ma rompe sicuramente un sistema consociativo correntizio che ha politicizzato e paralizzato pezzi della magistratura negli ultimi decenni.

In merito alla partecipazione dei membri laici nei consigli giudiziari, è opportuno rimarcare un dato fondamentale: la legge già prevede la partecipazione di membri laici. Ciò che viene mutato con il referendum non è il metodo tramite cui la magistratura stessa seleziona i componenti non laici. Molto più semplicemente elimina la limitazione ai membri laici di votare in ordine alle valutazioni dei magistrati. Le valutazioni hanno dimostrato coi numerosi scandali, non ultimo quello della dottoressa Silvana Saguto, di non essere idonee. Il sistema di valutazione risente troppo delle contingenze interne e degli equilibri magistratuali. C’è chi può paventare il rischio di conflitti d’interessi, certo, ma in questa maniera non si tiene in considerazione che si tratterebbe di professionisti del diritto tenuti deontologicamente all’equità e di esponenti della giurisprudenza accademica. In più, non si tiene conto della rilevanza abnorme dei conflitti d’interesse interni alla magistratura, in tal modo assolta da qualsiasi responsabilità. Anche quando valutava idoneo un appartenente alla magistratura che, successivamente, si è rivelato assolutamente inidoneo e, talvolta, anche criminale. La presenza di membri laici, ancorché selezionati come attualmente fatto, anche in sede di valutazione dei magistrati rende necessario operare con trasparenza. Anche qui ci si pone innanzi al perenne dilemma: quis custodiet ipsos custodes? Gli ultimi anni ci hanno dimostrato, ahinoi, che neanche la magistratura è immacolata, e che è quindi opportuno prevenire derive preoccupanti di eccessiva autoassoluzione, come la chiama anche Gherardo Colombo. Non certo per vivere nella cultura del sospetto, che non è l’anticamera della verità ma del khomeinismo, ma affinché ci si assicuri che chi è chiamato ad indagare e giudicare non sia solamente perito ed edotto, ma anche e soprattutto giusto.

Il quesito sulla separazione delle funzioni è probabilmente il più travisato di tutti. L’intervento del referendum non separa le carriere, né mira a rendere il pubblico ministero un organo politico. Molto semplicemente, impone la valorizzazione dei tirocini giudiziari rendendo la scelta di carriera non reversibile. Sempre per citare Giovanni Falcone, è pericoloso pensare che il giudice possa essere peritus peritorum. E sempre come affermava nel settembre del 1991, è necessario che il pubblico ministero, finalmente divenuto parte del processo con la riforma codicistica di fine anni ottanta, sia ancor più indipendente sia dal resto della magistratura, per evitare condotte equivocabili, che dalla politica, per evitare ingerenze. La separazione di funzioni, atteso che non pone separazione tra le carriere magistratuali ma impedisce, nel ramo penale, la trasmigrazione da un ufficio all’altro di ciascun giudice secondo l’impostazione – al tempo logica – del processo inquisitorio. Ciò pone in essere un aggiornamento tendenziale del sistema giurisdizionale, orientandolo ancor più verso il sistema accusatorio.

Alle valutazioni moralisticheggianti o di opportunità-opportunismo politico, ci sono queste valutazioni da fare al fine di essere certi di fare la scelta giusta. 

Sulla legge Severino, volete che tutti i condannati, indipendentemente dal reato e dai fatti contestati, siano sospesi o decadano dagli incarichi amministrativi e, se condannati per un reato non colposo, vivano in una condanna perenne alla privazione di un diritto politico? 

Sulle custodie cautelari in carcere, volete che rimanga in vigore una norma abusata da parte della magistratura che, con una semplice valutazione discrezionale e presuntiva, fa finire statisticamente in carcere tre innocenti al giorno?

Sui consigli della magistratura che valutano i magistrati, volete che siano sempre i giudici a valutarsi e assolversi tra di loro come i politici della prima repubblica?

Sul consiglio superiore della magistratura, volete che la partecipazione rimanga ad esclusivo appannaggio delle tre correnti che hanno contribuito a rendere la magistratura italiana uno scandalo?

Sulla separazione di funzioni dei giudici penali, volete che un pubblico ministero, convinto della vostra colpevolezza malgrado proscioglimenti e assoluzioni con formula piena, dopo qualche anno possa ritrovarvi in aula per giudicarvi?

È da decenni che l’Italia aspetta dei cambiamenti anche della magistratura, unico potere che non ha subito modifiche sostanziali di sorta mentre tutto il resto crollava a pezzi. Oggi la magistratura cade a pezzi. E se anche Sergio Mattarella, il più prudente Presidente della Repubblica della nostra storia recente, ha nel suo discorso d’insediamento auspicato un riassetto complessivo dell’ordinamento giudiziario, definendo le riforme come necessarie e non più procrastinabili, allora il SÌ a questi quesiti referendari darà un’indicazione chiara alla politica: il popolo sovrano, come il Presidente della Repubblica, non vuole più la preservazione dello status quo. L’unica domanda, sul piano squisitamente politico, da porsi a questo punto è una. Dopo una stagione di legalitarismi moralisticheggianti più o meno presenti in parlamento, non è forse giunta l’ora di rispolverare i grandi del passato? Nenni, Moro, La Malfa, Craxi, Saragat, Pannella, Altissimo, Spadolini, dall’83 persino Berlinguer; anche magistrati come Chinnici, Caponnetto, Falcone. Tutti uomini, e non solo questi, che avrebbero sostenuto con forza i referendum che andremo a votare il 12 giugno. E per vari motivi: le norme sulla magistratura toccate sono norme corporative degli anni del fascismo, durante il quale le decisioni degli organismi della magistratura erano sotto il diretto controllo del ministero di grazia e giustizia, oggi è paradossalmente al contrario con tutti i magistrati, più di un centinaio, fuori ruolo che lavorano e indirizzano le azioni politiche e amministrative del dicastero; gli automatismi amministrativi-penali non soggetti al vaglio delle circostanze di fatto e di diritto sono dannosi se si vuole stare all’interno di uno stato di diritto; le norme disfunzionali e abusabili vanno espunte dall’ordinamento. Ed è anche un segnale agli operatori giurisdizionali: ormai si vede che il Re è nudo. Ed ecco che Falcone e Nenni, ancora una volta, avevano ragione.

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